Diari di Cineclub

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giovedì 3 marzo 2011



              RISVEGLIO POLITICO NEL MONDO ARABO

                             di Pier Francesco Zarcone

Le richieste di libertà e giustizia sociale all’interno dell’intero mondo arabo non si placano, anzi si estendono.
Nello scorso fine settimana una trasmissione televisiva italiana aveva appena fatto a tempo a decantare bellezze e convenienze turistiche dell’Oman che si apprende di scontri di piazza intervenuti in quel lontano sultanato, nella città di Sohar, finiti con due morti. Anche qui rivendicazioni democratiche di giovani dimostranti. Più o meno agli antipodi – a Tunisi – dopo una battaglia campale con la polizia il popolo ha ottenuto le dimissioni del Primo ministro Muhammad Gannouchi (elemento colluso col regime di Ben Ali) sostituito da Béji Caid Essebsi, considerato personaggio ben più liberale. In più a Beirut un folto gruppo di giovani ha manifestato per la fine delle lottizzazioni confessionali delle istituzioni statali – lascito dell’imperialismo francese in base al vecchio principio divide et impera - e per l’instaurazione di... uno Stato laico! Questo, nel paese che viene considerato roccaforte degli Hezbollah sciiti. E a proposito di sciiti non si può non parlare del sangue sparso nel regno insulare del Bahrein (si legge più o meno “bachrain”), di cui ancora Wikipedia decanta la stabilità politica e sociale. La ribellione contro il regime del locale monarca assolutista presenta una particolarità assente in Nordafrica: l’esistenza di un retroterra religioso diverso da quello della dinastia regnante. Infatti il monarca è musulmano sunnita, mentre la maggioranza del popolo è musulmana sciita. Vale a dire, della stessa componente islamica egemone in Iran, maggioritaria in Iraq, consistente in Libano e presente anche in Siria e Giordania,. oltre che in Arabia Saudita. L’importanza di questa specificità sfugge a quanti considerano religiosamente monolitico il mondo islamico, e si fermano alla distinzione (spesso approssimativa) fra “moderati” ed “estremisti”. In realtà non è così. I media borghesi trattano di sunniti e sciiti come se si trattasse di benedettini e di domenicani: cioè come se fossero parti – magari locali – di un unicum religioso, mentre per rendere più chiari i rapporti reciproci sarebbe meglio fare il parallelo fra cattolici e protestanti irlandesi, o fra cattolici e ortodossi russo-balcanici. Cosa che produce la circolazione di notizie da cui non si capisce niente. Per esempio: si parla spesso di attentati islamici in Pakistan contro moschee, al che il lettore ordinario conclude nel senso che gli islamici sono dei barbari o dei pazzi; ma non si dice che le moschee oggetto di attentati sono sciite, gli attentatori sunniti, e nulla si spiega sul perché di questi attacchi. Niente di strano, perché ormai è notorio come l’abbondanza di dati diramati dai mezzi di comunicazione del ”sistema” raramente fornisce al cittadino ciò che davvero gli serve per capire. Quello che accade nel Bahrein rientra nel capitolo di storia contemporanea definibile “risveglio politico, o riscossa, degli sciiti”, e determina un apposito paragrafo sul risveglio anche in Arabia. In estrema sintesi: a partire dalla cosiddetta “rivoluzione iraniana” gli sciiti sono passati a un rilevante attivismo politico in Iraq e in Libano, riaffermando anche la loro contrapposizione con il sunnismo. Tenuto conto del valore dei simboli storici per la mentalità orientale, furono ricchi di significato le sia pur forzate analogie, usate dalla propaganda di Saddam Hussein durante la guerra con l’Iran, tra le battaglie in corso e quelle antiche che, agli albori dell’Islam, contrapposero i primi sciiti ai seguaci (definibili sunniti) dei califfi Umiyyadi di Damasco. Oggi gli sciiti non sono al potere solo in Iran, ma anche in Iraq e hanno messo pesanti ipoteche sul governo del Libano, Stato artificialmente creato dall’imperialismo francese dopo il 1918 (durante l’Impero ottomano la regione faceva parte della Siria). Le rivendicazioni del popolo del Bahrein sono più che giustificate. Semmai il sommovimento in atto in questo piccolo arcipelago dà lo spunto per considerazioni sul più ampio contesto regionale in cui esso è suscettibile di produrre effetti, e/o da cui potrebbe subire influenze. Ovviamente gli “opinionisti” della borghesia si sono affrettati ad agitare lo spauracchio dell’aumento di influenza locale da parte dell’Iran khomeinista, di cui tutto si può dire tranne che sia democratico e popolare. Se però ragioniamo con la nostra testa (ovviamente a costo di sbagliare) dobbiamo rilevare che qualcosa non torna a prendere per buona la posizione dei grandi mass-media. Allo stato delle cose anche la ribellione nel Bahrein non presenta i connotati della rivolta islamica, bensì della rivolta politica in nome della democrazia. Vale a dire, della stessa rivolta delle masse iraniane contro il regime degli ayatollah di Teheran; di quelle masse persiane, cioè, che vari decenni di dominio di quei similpreti col turbante hanno vaccinato rispetto al fascino della “repubblica islamica” (purtroppo l’apparato repressivo del regime è ancora intatto e troppo forte). Vero è che la psicanalisi ci ha messo in guardia circa la razionalità dei comportamenti umani, tuttavia non è affatto detto che la rivolta nel Bahrein avrà una deriva filoiraniana. In tal caso potrebbe produrre ricadute non secondarie nello stesso Iran (il che non vuole dire “prossima caduta del regime iraniano”). Ulteriori ricadute – se il re del Bahrein non riuscirà a schiacciare la ribellione - ci saranno comunque nella vicina Arabia Saudita, la cui società ingannevolmente pare in letargo.
L’Arabia Saudita è un paese strano e contraddittorio. La maggioranza della popolazione è sunnita e l’assolutista dinastia dei Saud – dopo la fine della Grande Guerra - ha imposto con la forza delle armi l’adesione alla versione wahabita del sunnismo; il paese è il vero centro di esportazione dei virus radicali islamici ma, essendo alleato strategico degli Usa e importantissimo produttore di petrolio, nessuno dice alcunché; in più la sua dinastia regnante è fatta da gente con mentalità da Medio Evo ma corrotta fino al midollo, sfrenatamente gaudente in senso sibarita e avversata dai più coerenti radicali islamici. Anche in Arabia Saudita ci sono state manifestazioni di protesta, per il momento senza grande seguito. Al momento. Ma se l’opposizione al regime dovesse assumere una diversa consistenza, allora si potrebbe assistere a una dinamica politica molto conflittuale e dagli esiti pericolosi, poiché qui la componente radicale islamica sembra essere forte. C’è però da introdurre nel discorso un’incognita: nel paese esiste anche una discriminata minoranza sciita, che inevitabilmente trarrebbe ossigeno da un capovolgimento della situazione in Bahrein e potrebbe svolgere un ruolo dalla portata ancora non precisabile. Inoltre, un’auspicata vittoria democratica in Bahrein in teoria potrebbe esplicare un’attrattiva forza simbolica anche in Iraq e Libano, in favore di quei settori sciiti che sopportano, ma non sostengono il ruolo assunto dai locali ayatollah. Parliamo di un’eventualità, certo, magari smentita dai futuri avvenimenti; tuttavia essa è meno infondata di quanto possa sembrare, solo se consideriamo che a motivo delle proprie traversie storiche il mondo sciita, prima della vittoria khomeinista in Iran, aveva assunto un’aura di radicalismo sociale per cui spesso – nelle polemiche interne alle società islamiche – sciita equivaleva a “gente di sinistra”, magari con un certo olezzo di comunismo. Si potrebbe ricordare, al riguardo, quello che era stato nell’Iran monarchico il Partito Comunista Tudeh (e quello che avrebbe potuto essere se fosse stato meno appiattito sulla politica estera dell’Urss). E nel Libano della guerra civile il movimento sciita Amal era sorto come espressione esponenziale di masse diseredate in lotta per il riscatto e la giustizia sociale. Speriamo di riparlarne in seguito. Un’ultima considerazione sul versante dell’imperialismo. Un qualche intervento Usa o Nato in Libia potrebbe essere attuato, o come determinazione di una no-fly zone, o come “aiuto umanitario” di militari tunisini e/o egiziani, o come fornitura di armi ai ribelli. Se così sarà, ricordando che gli Usa hanno lasciato massacrare curdi e sciiti in Iraq dopo la I Guerra del Golfo, e che non hanno battuto ciglio di fronte al sangue sparso in Yemen, Tunisia, Algeria, Egitto, Bahrein, qualcuno dubita che la ragion d’essere stia nel petrolio libico?

                                                             *****

MONDO ARABO IN RIVOLTA MA... SENZA RIVOLUZIONE?

Lungi da noi dare una valenza negativa alla gamma di diritti civici e umani che una volta le sinistre “ortodosse” relegavano nella categoria, non molto valutata, della “democrazia formale”. Ad ogni buon conto gli accadimenti in corso inducono ad alcune riflessioni in un’ottica rivoluzionaria.
Si è visto che le masse arabe in rivolta non sembrano accontentarsi della democrazia intesa come stanca ripetizione di rituali elettoralistici che nulla cambiano (tali per cui una volta Edoardo Galeano scrisse che se le elezioni cambiassero le cose sarebbero dichiarate illegali), tant’è che i loro regimi dittatoriali le hanno sempre indette e manipolate. Orbene, proprio l’atteggiamento del cosiddetto Occidente (imperialista) di fronte a queste rivolte – un misto di imbarazzo, gelo, preoccupazione per la perdita di alleati che in realtà erano (e i supersititi sono) soci in affari – è rivelatore di come le rivendicazioni democratiche siano semprre pericolosamente sovversive per gli interessi della borghesia. Per quegli interessi, cioè, che storicamente in Occidente hanno usato queste rivendicazioni per rovesciare assolutismo regio e feudalesimo, ma che le hanno bloccate appena instaurata la loro dittatura di classe, oltre a svuotare di efficacia la parte di democrazia istituzionalizzata nelle costituzioni d’Europa e America. Quindi, mentre nel “primo mondo” masse sempre più sfruttate rispetto ai decenni precedenti – ma non ancora in condizioni tali da perdere solo il loro sfruttamento – per lo più stringono la cinta e formalizzano la loro protesta e il loro distacco dalle istituzioni mediante la disaffezione elettorale, dall’altra parte del bacino del Mediterraneo troviamo invece masse in lotta, e pronte a versare il proprio sangue, per andare al di là della democrazia di facciata loro imposta, e che può essere anche considerata una versione araba della sostanza di come è stata ridotta la democrazia in occidente. Cosa giustamente considerata male da strumenti attivi e da servi del capitalismo. Tutto questo è altamente positivo e costituisce una gradita sorpresa, come pure il già notato carattere non islamico (in questa fase) delle attuali rivolte, nonché l’essere stati rovesciati da insurrezioni popolari spontanee due regimi dittatoriali. Questo tipo di rivoluzioni riscalda il cuore, tuttavia non va taciuto che gli entusiasmi suscitati dagli eventi di Tunisia ed Egitto, e quelli suscitabili da auspicati “effetti domino”, debbono essere un po’ contenuti, per cercare di vedere quanto in realtà rimane di potenzialmente negativo. Regimi dittatoriali marci fino al midollo, e i cui guardiani armati sono militari e poliziotti del luogo, in certe condizioni possono benissimo essere abbattuti da sommosse popolari, poiché anche ai cervelli di militari e poliziotti malpagati (e giocoforza diventati professionisti della mancia, bakshish) può affacciarsi la domanda su quale sia il senso dell’ammazzare e dell’essere ammazzati perché i vari raís con i loro familiari, cortigiani e soci, continuino a fare un’inimmaginabile bella vita e ad acculare miliardi e miliardi di dollari in patria e all’estero. Questo può accadere, e accade. Altra cosa, però, è conseguire livelli di democrazia politica idonei ad aprire la via a forme di democrazia economica.
Una volta si parlava di radicale realizzazione della democrazia borghese in modo da procedere più o meno celermente verso il socialismo. Ma a tale fine servono strutture di potere popolare e una determinazione operativa non prescindibili da avanguardie organizzate in grado di additare alle masse non tanto gli obiettivi da perseguire, quanto le modalità, le tappe e i tempi per farlo. In una parola, ci vuole una rivoluzione politica e socio/economica con strumenti adeguati.
Notoriamente per abbattere un regime non serve un previo partito rivoluzionario – che mai ha preparato una rivoluzione, e anzi è sempre stato colto di sorpresa al suo scoppio. Tuttavia, dopo la fuga o l’uccisione del tiranno, per procedere in avanti un’avanguardia serve. Purtroppo si può parlare, senza tema di smentita, di storica e consolidata assenza di essa nel mondo arabo. E non è che oggi se ne vedano le tracce. Non sarebbe difficile gettare una pesante croce addosso ai partiti comunisti filosovietici, che pure si formarono nel mondo arabo, per il loro atteggiamento di collaborazione con borghesie arabe “progressiste” il più delle volte esistenti solo nel mondo dei desideri; per la mancanza di una loro concorrenza verso il cosiddetto “socialismo arabo”; o per l’appiattimento sulle esigenze contingenti della politica dell’Urss. Sarebbe facile ma anche ingiusto. Qui non entra essenzialmente in gioco la teorica contrapposizione fra religione islamica e marxismo (si pensi, per esempio, all’islamo/marxismo elaborato in Iran dai Mujahidyn del Popolo), bensì una serie di fattori oggettivi difficilmente superabili, quali le dittature militari instuarate dal socialismo arabo nella fase in cui era davvero in auge fra le masse, l’appoggio politico e militare dato loro da Mosca, e infine le pesanti conseguenze negative che i partiti comunisti arabi avrebbero dovuto sopportare in caso di sconfessione dall’Urss. Tanto più che lo stesso appoggio sovietico, per esempio, non salvò dalle galere egiziane molti militanti comunisti. Si può forse sostenere che i comunisti arabi avrebbero fatto meglio a con compromettersi con i regimi “progressisti” (nei limiti del possibile), nonché a puntare su un cauto lavoro di lunga durata. Ma, ammesso pure che ciò fosse possibile (e non è detto), del senno di poi sono piene le fosse.
Oggi quindi, la situazione è quella che è: le masse in rivolta, oltre a essere sole, dovranno confrontarsi con l’essere rimasto intatto l’apparato di potere militare ed economico, laddove i dittatori sono stati abbattuti, o in punto di esserlo.
Nel merito non c’è da farsi, oggi, soverchie illusioni. Prendiamo l’Egitto. Il popolo ha vinto grazie all’atteggiamento dei militari. Si faranno elezioni, presumibilmente meno inquinate di quelle effettuate sotto Mubarak, e nella migliore delle ipotesi ai vertici statali saliranno rispettabili ma innocui personaggi come Al Baraday, auspicando che riescano a fare una politica sociale un po’ più umana e una politica interna accettabilmente liberale. Tuttavia, inalterate restando quelle strutture poderose che un domani - passata la festa - torneranno a imporre il loro dominio sul paese, le prospettive di liberazione non sono rosee. Quelle strutture non sono solo socieo/economiche, ma altresì militari, e queste ultime gestiscono interessi propri anche economico/finanziari. Non dimentichiamo che sono i militari a gestire il potere politico dalla fine della monarchia. Si sono convertiti all’improvviso sulla strada per piazza Tahir? Difficile da credere. Lo stesso discorso vale per la Tunisia. In Libia, poi, l’esistenza del potrolio è suscettibile di peggiorare le cose. Ma poiché la storia umana è il regno delle sorprese, stiamo in attesa di vedere come andrà a finire. Sta di fatto che in quel disastrato pezzo di mondo incombono fattori poderosi esterni (Usa, Ue, Israele, Iran) che non molleranno con facilità gli ossi e gli ossicini lì conquistati.

2 Marzo 2011

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