mercoledì 9 marzo 2011
UNA CRITICA AL MANIFESTO
DALLA LIBIA ARRIVA UN GRIDO DI LIBERTA'
di Farid Adly
Cari lettori, continuate ad abbonarvi al manifesto! Cari compagni del manifesto, redattori e lettori, non sono d’accordo con voi su alcune posizioni, ma continuo a leggere e difendere (per quel poco che posso fare) il manifesto. Le riflessioni che sono state avanzate da Rossanda, Castellina, Parlato e Di Francesco sono sacrosante, ma difettano in un punto: non inquadrano la questione libica nel suo contesto storico.
Sarebbe un dibattito avanzato e profondo su dubbi e zone d’ombra, se non ci fosse in corso una tragedia di un popolo che viene ucciso ogni giorno, nelle piazze delle città libiche e nelle piazze d’affari del mondo industrializzato.
La frase del compagno Parlato «Sono e resto un convinto estimatore del colonnello Gheddafi» (Il Sole-24 Ore del 18/2/2011, poi ribadita sulle pagine del manifesto dieci giorni dopo) fa molto male a chi – come me – ha perso la propria libertà a causa del tiranno. Quanti articoli sul manifesto ho dovuto firmare diversamente, per scongiurare una repressione contro i miei familiari.
Prima di tutto, quella in corso non è una guerra civile; lo potrà diventare in futuro, ma adesso è una resistenza popolare contro un tiranno, la sua famiglia, i miliziani e mercenari.
È paragonabile alla resistenza italiana contro il fascismo mussoliniano. La questione della bandiera issata sulle zone liberate, avanzata da Manlio Dinucci, quella dell’indipendenza, non è un sintomo di ritorno al passato. Quella bandiera non è certo proprietà dell’ex re Idriss o della confraternita senussita. (A proposito, non ho capito il riferimento del compagno Parlato all’asserito antisemitismo di Idriss. Essere anti-sionisti non è necessariamente antisemitismo. Vi ricordo che prima dell’occupazione della Palestina, tra i vari progetti per creare Israele, nella prima metà del Novecento, la Cirenaica era uno dei luoghi proposti. Essere contrari a quei propositi non è certo antisemitismo). Io avrei usato la bandiera rossa, ma io e la mia generazione non contiamo nulla in questa rivoluzione. La corrente monarchica nell’opposizione è assolutamente minoritaria e lo sbandierare di quel tricolore, con stella e mezzaluna in bianco non è un attaccamento al passato ma un chiaro rifiuto del regime.
Fondare su questo una critica ai giovani libici che hanno affrontato a petto nudo le mitragliatrici anti-carro dei miliziani e mercenari di Gheddafi, è di una ingenerosità disarmante. Non si nega qui l’esistenza di piani internazionali per mettere le mani sul petrolio della Libia, ma la rivoluzione libica del 17 Febbraio 2011 non è guidata da fantocci dell’imperialismo, bensì da giovani e democratici che hanno una storia nel paese.
La caduta del muro della paura, dopo le esperienze di Tunisia e Egitto, li ha portati ad alzare la testa contro la tirannia. Se non mettiamo al centro dell’attenzione questo grido di libertà, che nasce dal basso, non capiremmo nulla dei moti di rivolta che stanno caratterizzando la lotta dei paesi arabi contro le cariatidi al potere da troppi anni.
La seconda questione riguarda il Gheddafi socialista. Le tesi sul cosiddetto socialismo arabo hanno imperversato negli anni Cinquanta e Sessanta, al momento del riscatto nasserian-baathista di Egitto e Iraq. Interessanti esperienze di borghesia nazionale del sud del mondo, che sono state, solo per necessità, anti-imperialiste nella prima fase del loro sviluppo. In Iraq, Egitto e Siria di quegli anni i comunisti e i socialisti sinceri sono stati perseguitati e repressi. Quelle esperienze di colpi di stato hanno dato molti frutti positivi sul piano sociale, ma solo nella prima fase del loro sviluppo. La tendenza verticistica e la mancanza di una legittimità democratica, da una parte, e l’attacco dei paesi occidentali alleati di Israele dall’altro (guerra di Suez nel 1956 e quella del 5 giugno 1967) hanno reso questi nuovi regimi delle oligarchie militari che nulla hanno a che fare con l’idea di una giusta distribuzione della ricchezza nazionale e dello sviluppo sociale e culturale dell’essere umano, base di ogni esperienza socialista.
Gheddafi arriva dopo, nel 1969. La «spinta propulsiva» del golpe militare contro il vecchio re Idriss, per dirla con Berlinguer, è finita molto presto. Già nel 1973 della rivoluzione degli ufficiali liberi non c’era più nulla, se non la spietata repressione di ogni dissenso.
Le forche all’Università, l’allontanamento dei compagni d’armi, la cancellazione di ogni forma d’opposizione, il divieto dei sindacati, l’annullamento di ogni azione indipendente della società civile, l’uccisione degli oppositori all’estero (l’Italia è stata un teatro prediletto per azioni terroristiche) e le operazioni militari contro civili che protestavano pacificamente contro le volontà del tiranno (anni ’80 e ’90 a Derna e Bengasi…), il massacro di Abu Selim (26 giugno 1996), sono esempi di questo dominio di una nuova classe dirigente che si è ridotta di fatto alla famiglia di Gheddafi e a una piccola cerchia di suoi seguaci.
La corruzione imperante e il dominio totale dei servizi segreti sulla vita quotidiana dei cittadini sono alla base di un regime che ha sperperato le ricchezze del paese non per costruire una Libia moderna capace di creare occupazione e prosperità per il popolo, ma per comperare le coscienze, conquistare l’appoggio di altri dittatori, in impossibili e perdenti guerre africane (Uganda, Ciad…) e nel lusso per i suoi figli e adepti. La Libia è un paese ricco, ma i libici sono poveri. Un impiegato prende l’equivalente di 170 dollari al mese, mentre uno degli stolti figli del tiranno ha speso due milioni di dollari per uno spettacolo, durato solo un’ora, di una cantante americana, Beyoncé, in una discoteca di Las Vegas. Del socialismo gheddafiano, i libici hanno un ricordo sbiadito dei supermercati vuoti dalle mercanzie e della noiosa e stupida burocrazia corrotta, simile a quello che hanno ereditato le giovani generazioni dell’est europeo.
E non tutto era anticomunismo. Non credo che Gheddafi rappresenti una continuazione dell’esperienza non allineata di Nasser. Castellina fa bene a ricordare l’importanza di quell’idea, peraltro ridotta al silenzio dalla spietata aggressione imperialista, di rifiuto di schierarsi per forza con uno dei due patti militari in cui era diviso il mondo del secondo dopoguerra. Nasser è morto povero e suo figlio non ha ereditato nessun ruolo politico. Qui invece abbiamo la ricchezza petrolifera del paese considerata come proprietà privata della famiglia e il potere jamahiriano ridotto a una ridicola monarchia. Considerare Gheddafi come parte di quel mondo che si è incamminato nel solco del nobile esperimento dei «Non Allineati» è stato un errore di valutazione della compagna Castellina. Non bastano le belle intenzioni del colonnello!
Quel che conta nella politica è l’azione. Anch’io, come molti giovani libici di allora, ho occupato il Consolato libico a Milano e ho distrutto la gigantografia di re Idriss. Ma già nel 1973, l’Unione generale degli studenti libici che guidavo, ha occupato l’ambasciata libica a Roma, per protesta contro l’impiccagione nell’atrio dell’Università di Bengasi (per di più senza processo) degli studenti che chiedevano libertà e rappresentanza.
La sinistra libica è stata cancellata con uccisioni e detenzioni e in alcuni casi con la compravendita delle coscienze, nel più totale silenzio.
È stata anche colpa nostra, perché non siamo stati capaci di comunicare e tessere relazioni e abbiamo vissuto l’azione di opposizione in forme organizzative frammentarie. Ma non si può dare a Gheddafi la patente di rappresentante di un’idea di socialismo.
Gli errori di questo tiranno non si limitano agli ultimi dieci anni, come sostiene il compagno Parlato (il manifesto, 27 febbraio), ma risalgono a ben più lontano. Gheddafi ha sbandierato il vessillo dell’anti-imperialismo e dell’anti-colonialismo, ma sotto il tavolo ha barattato la propria salvezza personale con accordi che hanno aperto la Libia al saccheggio dei paesi ricchi. Siamo consapevoli che il petrolio fa gola a molti. E per questo siamo contrari a ogni intervento militare esterno. L’opposizione ha chiesto una «No Fly Zone» per impedire l’uso dell’aeronautica da parte del colonnello (come sta avvenendo in queste ore su Brega e Ajdabieh).
Gli uomini che formano il governo provvisorio di salute pubblica sono persone che conosco personalmente e sono serie e fidate.
Non sono secessionisti né fondamentalisti. La matrice democratica che li spinge a ribellarsi agli ordini del tiranno è fuori discussione.
Non dar loro ascolto, sarebbe un grave errore da parte della sinistra italiana e dell’Italia democratica tutta.
Infine, l’autolesionismo. Perseverare nell’errore sarebbe il peggio. Il giudizio positivo che si dava di alcune esperienze dei paesi dell’emisfero sud non vieta la possibilità di una revisione critica. Come avvenne per la critica dei paesi del socialismo reale dell’est europeo, anche oggi è possibile prendere atto della fine di un’illusione. Il giudizio di allora aveva le sue ragioni contingenti e di contesto. La situazione attuale è un’altra. E va riconosciuta per quel che è. Non credo sia lungimirante cospargerci il capo di cenere per gli errori di valutazione e analisi del passato. Ricordiamoci che Mussolini era stato socialista e che Giuliano Ferrara era comunista. Anche nel ricordo e per monito di quelle sconfitte, cari lettori, continuate a comperare il manifesto, strumento indispensabile per informarsi e discutere del mondo di oggi!
dal "Il Manifesto" 5 marzo 2011
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