Diari di Cineclub

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lunedì 4 novembre 2013

ANNULLARE IL DEBITO O TASSARE IL CAPITALE?



ANNULLARE IL DEBITO O TASSARE IL CAPITALE?
Perché non le due cose insieme?
di Thomas Coutrot, Patrick Saurin, Eric Toussaint


In occasione della pubblicazione di due libri importanti -  David Graeber, Dette, 5.000 ans d'histoire [“Debito: 5.000 anni di storia”] e Thomas Piketty, Le Capital au XXIe siècle [“Il Capitale nel XXI secolo”], Mediapart (http://mediapart/fr) ha avuto la felice idea di organizzare un incontro con i due rispettivi autori.
“Come uscire dal debito?”, questa domanda centrale posta come premessa a questo dibattito sta anche al centro delle riflessioni e delle nostre rispettive attività militanti. Per questo abbiamo auspicato di prolungare questi scambi costruttivi, proponendo il testo che segue, frutto di una riflessione collettiva che esplicita, commenta, interroga e critica i punti di vista e le argomentazioni avanzate dai due autori.




Annullare il debito o tassare il capitale?


Gli scambi tra T. Piketty e D. Graeber ruotano essenzialmente attorno al confronto dei vantaggi rispettivi dell'imposta sul capitale e del ripudio del debito pubblico. D. Graeber, basandosi su una bella erudizione storica ad antropologica, pone in rilievo come l'annullamento del debito, integrale o parziale, privato o pubblico, costituisca un elemento ricorrente delle lotte di classe da 5.000 anni a questa parte. Tenendo conto del fatto che il debito è un meccanismo centrale del predominio capitalistico oggi, non vede alcun motivo per cui debbano andare diversamente le cose in futuro.
T. Piketty ritiene, da parte sua, che si possa ottenere un notevole alleggerimento del gravame del debito con un meccanismo fiscale di tassazione dei grandi patrimoni, che sarebbe più equo dal punto di vista sociale, in quanto eviterebbe di colpire i piccoli e medi risparmiatori, detentori (tramite i fondi comuni di investimento gestiti dalle banche e dalle compagnie di assicurazione) di gran parte del debito pubblico.

Senza che i due interlocutori lo esplicitino, è sicuramente possibile attribuire la loro divergenza a presupposti filosofici e politici opposti. Per Graeber, di tradizione anarchica, l'annullamento del debito è preferibile perché non presuppone necessariamente di rimettersi allo Stato nazionale, e ancor meno a uno Stato o a un'istituzione sovrannazionale: può dipendere dall'azione diretta dei debitori (si veda il  progetto “strike debt” [sciopero del debito] avanzato da Occupy Wall Street negli Stati Uniti), o dalla pressione popolare che impone una decisione al governo. Per Piketty, di tradizione socialdemocratica, è la tassazione mondiale del capitale che è indispensabile, e misure fiscali nazionali prese da governi riformisti possono ormai consentire di fare passi in avanti.

Alla luce, appunto, degli argomenti dei due autori, noi riteniamo che non sia indispensabile scegliere tra tassazione del capitale e annullamento del debito, ma che sia sensato porre in atto entrambe le misure.

Annullare il debito: una misura socialmente ingiusta?

Piketty respinge gli annullamenti del debito con il motivo che i creditori sarebbero per la maggioranza piccoli risparmiatori, che non sarebbe quindi giusto far pagare, laddove i molto ricchi avrebbero investito solamente una piccola parte del loro patrimonio in titoli del debito pubblico. Noi, tuttavia, obiettiamo che l'audit del debito che noi caldeggiamo non ha solo come intenzione precisa quella di distinguere il debito legittimo (cioè quello al servizio dell'interesse generale) da quello che non lo è, ma anche di individuare i detentori di titoli, in modo da trattarli diversamente a seconda dell'ammontare detenuto. Praticamente, la sospensione del pagamento è il modo migliore per sapere esattamente chi detiene che cosa, perché i detentori di titoli sono costretti a venir fuori dall'anonimato.

Stando alla Banca di Francia, nell'aprile 2013, il debito negoziabile dello Stato in Francia era detenuto per il 61,9% da non residenti, sostanzialmente investitori istituzionali (banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi mutualistici…). Per quel 38,1% detenuto da residenti, la parte del leone spetta alle banche (detengono il 14% dei debiti pubblici francesi), alle assicurazioni e ad altri gestori di attivi. (vedi notizia Reuters ).
I piccoli detentori (che gestiscono direttamente il loro portafoglio di titoli) rappresentano solo un'infima minoranza dei detentori di debiti pubblici. Al momento dell'annullamento dei debiti pubblici, converrà proteggere i piccoli risparmiatori, che hanno collocato i loro risparmi in titoli pubblici, come pure i lavoratori e i pensionati, che hanno visto la quota dei loro contributi sociali (pensione, disoccupazione, malattia, disoccupazione, assegni familiari) essere investita dalle istituzioni o dagli organismi di gestione in questo stesso tipo di titoli.

L'annullamento dei titoli illegittimi deve essere sopportato dai principali istituti finanziari privati e dalle famiglie più ricche. Il resto del debito va ristrutturato in maniera tale da ridurne drasticamente sia lo stock sia l'incidenza. La riduzione/ristrutturazione può soprattutto basarsi sull'imposta sul patrimonio dei più ricchi, come indicato da T. Piketty. Annullamento dei debiti illegittimi e riduzione/ristrutturazione del resto del debito devono procedere di pari passo. È un ampio dibattito democratico quello che deve decidere del confine tra i piccoli risparmiatori che vanno indennizzati e i grandi che si possono espropriare. Allora si potrebbe introdurre una tassazione progressiva sul capitale, che colpisca duramente i grandissimi patrimoni, quelli dell'1% dei più ricchi, che T. Piketty ha dimostrato possiedano attualmente oltre un quarto della ricchezza complessiva in Europa e negli Stati Uniti. Questa tassa, prelevata in una sola volta, consentirebbe di riassorbire l'insieme dei debiti pubblici. Successivamente, un sistema d'imposte fortemente progressiva sui redditi e sul capitale bloccherebbe la ricostituzione delle disuguaglianze patrimoniali, che giustamente Piketty ritiene in contrasto con la democrazia.

Annullamento del debito: a vantaggio di chi?

Se non possiamo essere d'accordo con Piketty quando sostiene che l'annullamento del debito «non è assolutamente una soluzione progressista», egli ha ragione però quando rimette in discussione il tipo di annullamento parziale dei debiti concepito dalla Trojka per la Grecia nel marzo del 2012. Quell'annullamento è stato condizionato da misure che costituiscono delle violazioni dei diritti economici, sociali, politici e civili del popolo greco, e che hanno ulteriormente precipitato la Grecia in una spirale discendente. Si trattava di un brutto tiro per consentire alle banche private straniere (in particolare quelle francesi e tedesche) di cavarsela limitando le loro perdite, a quelle private greche di essere ricapitalizzate a spese del Tesoro pubblico, e alla Trojka di rafforzare stabilmente la sua presa sulla Grecia. Mentre il debito pubblico greco rappresentava il 130% del PIL nel 2009, e il 157% nel 2012 dopo il parziale annullamento, esso ha raggiunto un nuovo picco nel 2013: il 175%! Il tasso di disoccupazione, che era del 12,6%, è salito al 27% nel 2013 (50% per la fascia d'età sotto i 25 anni). Con Piketty, anche noi respingiamo questo tipo di haircut (lo sconto rispetto al valore di un’attività reale o finanziaria, data in garanzia, richiesto dal creditore a protezione del rischio di una minusvalenza dell’attività stessa, ndt) caldeggiato dal FMI, che mira soltanto a conservare in vita la vittima per potergli ancora succhiare il sangue, e in misura crescente. L'annullamento o la sospensione del debito vanno decisi dal paese debitore, alle sue condizioni, se gli si vuol dare realmente una boccata d'aria (come ad esempio hanno fatto l'Argentina tra il 2001 e il 2005 e l'Ecuador nel 2008-2009).

Debito e disparità patrimoniali non sono i soli problemi

Graeber e Piketty sono in contrasto tra loro nel definire se sia il debito o la disparità dei patrimoni il bersaglio politico prioritario. Per noi, invece, i problemi che stanno di fronte alle nostre società non si limitano a quelli del debito pubblico o a quello della disparità dei patrimoni privati. Innanzitutto, è opportuno ricordare - e Graeber lo fa sistematicamente - che esiste un debito privato ben più importante di quello pubblico, e che il brusco aumento di quest'ultimo negli ultimi cinque anni è dovuto in buona parte alla trasformazione di debiti privati, principalmente quelli delle banche, in debiti pubblici. Inoltre, e soprattutto, va reimpostata la questione del debito nel contesto globale del sistema economico che lo genera e di cui costituisce soltanto uno degli aspetti.

Per noi, tassazione del capitale e annullamento dei debiti illegittimi debbono rientrare in un programma ben più vasto di misure complementari che consentano di saldarsi alla transizione verso un modello post-capitalista e post-produttivista. Un simile programma, che dovrebbe avere una dimensione europea pur cominciando ad essere messo in pratica in uno o più paesi, comprenderebbe soprattutto l'abbandono delle politiche d'austerità, la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro con assunzioni compensative e a parità di salario, la socializzazione del settore bancario, una riforma fiscale d'insieme, misure per garantire la parità uomo-donna e l'applicazione di una decisa politica di transizione ecologica.

Graeber pone l'accento sull'annullamento del debito perché è convinto, come lo siamo noi, che si tratti di un obiettivo politico mobilitante, senza però pretendere che questa misura basti di per sé, e si inserisce in una prospettiva radicalmente egualitaria e anticapitalista. La critica essenziale che si può fare a T. Piketty è che ritiene che la sua soluzione possa funzionare restando nel quadro dell'attuale sistema. Egli propone un'imposta progressiva sul capitale per ridistribuire le ricchezze e salvaguardare la democrazia, ma non si interroga sulle condizioni in cui queste ricchezze si producono e sulle conseguenze che ne discendono. La sua risposta pone rimedio soltanto a uno degli effetti del funzionamento dell'attuale sistema economico, senza aggredire la vera causa del problema. Per cominciare, ammettiamo che attraverso una lotta collettiva si ottenga la tassazione del capitale cui aspiriamo; ma gli introiti generati da questa imposta rischiano di essere largamente inghiottiti dal rimborso di debiti illegittimi se non interveniamo per il loro annullamento. Soprattutto, però, non possiamo accontentarci di una più equa divisione delle ricchezze, se queste vengono prodotte da un sistema predatorio che non rispetta né le persone né i beni comuni, e accelera incessantemente la distruzione degli ecosistemi. Il capitale non è un semplice «fattore di produzione» che «svolge un ruolo utile» e merita quindi «naturalmente» un rendimento del 5%, come sostiene Piketty, ma è anche e soprattutto un rapporto sociale contraddistinto dall'incidenza dei possidenti sulle sorti delle società. Il sistema capitalista in quanto sistema di produzione è all'origine non solo di disuguaglianze sociali sempre più inaccettabili, ma della stessa messa in pericolo del nostro ecosistema, del saccheggio dei beni comuni, dei rapporti di dominazione e di sfruttamento, dell'alienazione nella merce, di una logica di accumulazione che riduce la nostra umanità a donne ed uomini incapaci di sublimare, ossessionati dal possesso di beni materiali e dimentichi di quell'immateriale che, pure, parte costitutiva fondamentale di noi.

La grande domanda che Piketty non si pone, ma che balza agli occhi di chi osserva i rapporti di potere nelle nostre società e l'influenza dell'oligarchia finanziaria sugli Stati, è questa: quale governo, quale G20 prenderebbe la decisione di una tassazione mondiale progressiva sul capitale senza che poderosi movimenti sociali non abbiano prima imposto lo smantellamento del mercato finanziario globalizzato e l'annullamento dei debiti pubblici, principali strumenti dell'attuale potere dell'oligarchia?

Come David Graeber, pensiamo che occorrerà imporre l'annullamento dei debiti «sotto la spinta dei movimenti sociali». Per questo lavoriamo nel quadro del Collettivo per l'audit civico (CAC) , perché l'annullamento del debito illegittimo discenda da un audit al quale i cittadini partecipino come protagonisti. Siamo, tuttavia, dubbiosi di fronte alla sua idea secondo cui «l'attuale modo di produzione si fonda su principi morali più che economici». Perché «il neoliberismo ha privilegiato l'elemento politico e quello ideologico rispetto all'economia». Secondo noi, non esiste contrapposizione tra i tre campi, ma c'è un sistema, il neoliberismo, che lo articola a modo suo. Il capitalismo neoliberista non ha privilegiato il fattore politico ed ideologico rispetto a quello economico, li ha utilizzati e messi entrambi al servizio della ricerca del massimo profitto privato, con un certo successo finora, a giudicare dai dati forniti da Piketty nel suo lavoro. Certo, questo sistema ha generato mostruosi squilibri - tra cui i debiti privati e pubblici - ed è alla fine incompatibile con una società emancipata, ma nell'immediato la sua dominazione si perpetua.

Al di là delle divergenze - secondarie con Graeber, più profonde con Piketty - che abbiamo appena esplicitato - siamo naturalmente pronti ad affrontare insieme il percorso dell'annullamento dei debiti illegittimi e dell'imposta progressiva sul capitale. Quando giungeremo a un bivio in cui una delle vie indicherà l'uscita dal capitalismo, dovremo allora, tutti insieme, riprendere la discussione, ricavando gli insegnamenti dall'esperienza della strada percorsa.

3 novembre 2013





da [CADTM-INFO] Bulletin électronique 138

traduzione di Titti Pierini

dal sito Sinistra Anticapitalista


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