COMPLOTTISMO E LEGITTIMI DUBBI
di Antonio Moscato
I resoconti su quel che è successo in Francia in questa settimana, con evidenti lacune, probabilmente dovute al tentativo di evitare un giudizio sull’indiscutibile inefficienza dei servizi preposti alla sicurezza, hanno sollevato un’ondata di dubbi sulle versioni ufficiali. Appare strano ad esempio che i due terroristi maldestri, che inizialmente avevano perfino sbagliato indirizzo, e avevano fatto errori clamorosi che rivelavano la loro approssimativa preparazione, abbiano poi potuto lasciare indisturbati un obiettivo sensibile come la redazione di Charlie Hebdo, uscire da Parigi e girare per la Francia per oltre due giorni rifornendosi di benzina e di cibo senza essere mai intercettati.
Certo il filmato che ha ripreso da una finestra la volante della polizia che fuggiva a tutta velocità a retromarcia davanti ai due armati di kalashnikov scesi dalla loro macchina è sorprendente. Se fossero stati allertati (e addestrati adeguatamente) i poliziotti avrebbero dovuto casomai mettersi al sicuro abbandonando la macchina, che nella via strettissima avrebbe bloccato nel modo più semplice la via di fuga ai terroristi.
Certi annunci sono risultati poi totalmente privi di fondamento, come l’identificazione della giovane di origine algerina Hayat Boumedienne come “spalla” del marito Amedy Coulibaly nell’assalto al supermercato Kasher; in realtà era arrivata da giorni in Turchia. È lecito pensare quindi che questa e molte altre notizie fornite dalle autorità alla stampa siano state semplicemente inventate e non corrispondano a un serio lavoro di intelligence.
Ovviamente stupisce l’enorme drammatizzazione di questo “attacco inaudito” a confronto non solo con l’indifferenza per i 6.000 morti che ci sono stati in Iraq nel solo 2014 (e poco meno in Afghanistan, Pakistan, Nigeria e Siria), ma anche con quella che aveva accolto il massacro di Utoya e Oslo (77 morti e moltissimi feriti, tutti giovanissimi) compiuto da un fascista norvegese. Non era anche quello “un attacco al cuore dell’Europa”, a cui rispondere con un corteo oceanico? Invece silenzio.
E ha sbalordito i pochi che l’hanno vista, perché è stata nascosta il più possibile, la foto scattata dall’alto da un collaboratore de “Le Monde” che rivelava la messa in scena della presunta testa del corteo con i capi di Stato a braccetto, tra cui spiccavano non pochi massacratori della libertà di stampa ed assassini vari: un grande vuoto dietro di loro rivelava che non erano affatto la testa del corteo, ma una parata in un boulevard deserto, su un percorso diverso da quello dei cittadini normali. Ma è sbagliato ricavarne che questa messa in scena “per ragioni di sicurezza” fosse la prova che proprio tutto quel che era stato annunciato fosse frutto di una manipolazione mediatica.
Occorre lucidità e senso delle dimensioni: il presunto attacco dell’Islam all’Europa guardato da vicino non corrisponde alle notizie allarmiste lanciate dagli specialisti di terrorismo che pontificano su tutti i giornali, spesso commentando da Gerusalemme quel che accade in Africa o in Europa, e collegando fenomeni diversi e non assimilabili tra loro se non per bassi fini di propaganda. Visti da vicino e a mente lucida, quelle che sono state presentate come avanguardie di un attacco generale sono dei poveracci disadattati che hanno puntato a conquistarsi un ruolo offrendosi all’una o all’altra organizzazione integralista (sono in concorrenza tra loro), e scegliendo obiettivi mal difesi come una redazione o totalmente indifesi come un supermercato. Carogne fasciste e imbecilli influenzabili chiedono nuove leggi e soprattutto la pena di morte, che ovviamente non ha nessun potere di deterrenza su chi ha deciso di affrontare il “martirio” e lo proclama sui video preregistrati per esibizionismo, o lo grida al cielo su strade deserte come i due fratelli Kouachi nella loro inverosimile ritirata.
Occorre lucidità: se altri dieci individui esaltati come i tre protagonisti di queste vicende si faranno avanti e saranno arruolati, a che servirà aver mobilitato la portaerei passata ieri in rassegna dal redivivo Hollande? A niente, se non a provocare ulteriormente popolazioni umiliate e private dei loro diritti da capi locali corrotti ma schierati con un Occidente che finge di non vedere le loro mani grondanti sangue, e i loro forzieri ricolmi del bottino strappato ai loro sudditi. Che potrebbero domandarsi ancora: “perché del nostro presente e del nostro futuro devono decidere paesi lontani ed estranei come la Francia, o gli Stati Uniti o la Gran Bretagna?” Il successo dello Stato Islamico (IS nella sigla inglese) è spiegabile in primo luogo con la capacità di un gruppo dirigente locale mediocre, ma appoggiato su antichi legami etnici, religiosi, tribali, ecc., di interpretare una reazione naturale e spontanea a una duratura e immotivata ingerenza esterna. Non a caso in Iraq una parte della consistente e ben organizzata forza militare dell’IS è dovuta al reclutamento di ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein che erano stati scacciati dall’esercito dai fantocci degli Stati Uniti.
In sostanza credo che le maggiori mistificazioni riguardino non solo la reale modestissima dimensione del fenomeno dei disadattati attratti dalla prospettiva di emergere col martirio (a volte veri e propri squilibrati, come il ragazzo neoconvertito dell’Ohio che aveva acquistato legalmente un fucile e 600 pallottole col proposito di sterminare l’intero congresso degli Stati Uniti), ma soprattutto l’interpretazione del califfato islamico.
La campagna martellante che demonizzava e presentava come il male assoluto lo Stato Islamico era cominciata da mesi, e LIMES aveva risposto già in settembre con un corposo fascicolo dedicato a Le maschere del califfo che ricordava le origini del califfato, almeno inizialmente finanziato dalla monarchia saudita insieme ad altri gruppi jihadisti, “purché stessero lontani dal regno saudita e si rendessero utili contro regimi e movimenti avversari”. Vari articoli di diversi specialisti ricordavano che la sua forza dipendeva però dalla protezione e dai servizi offerti alla popolazione, dall’apertura di scuole coraniche, ospedali, tribunali e reparti di polizia religiosa.
“Noi occidentali – si diceva nell’introduzione – siamo impressionati dalla barbarie di quelle bande. Così anche parte delle popolazioni assoggettate. Ma diversi tra i recenti sudditi del «califfo», specie se di affiliazione sunnita, ne apprezzano il welfare e leggono nei vessilli di guerra intestati al profeta un’opportunità di riscatto dalle persecuzioni dei regimi di Damasco o Baghdad”. E Alberto Negri, corrispondente del “Sole-24 ore” ricordava che alcune delle caratteristiche più repellenti del califfato erano apparse in forme analoghe in non pochi Stati della regione, e soprattutto nella preziosa alleata degli Stati Uniti e dell’Occidente, l’Arabia Saudita in cui, “mentre si condannava lo Stato Islamico e la barbara uccisione del reporter americano James Foley, venivano eseguite nel mese di agosto 19 condanne a morte per decapitazione”, su cui veniva steso in Europa un pietoso velo di silenzio.
Questa contestualizzazione non assolve certo dai loro crimini lo Stato Islamico e i suoi ammiratori reclutati nelle periferie europee, ma serve a bloccare l’uso propagandistico della sua comparsa per presentare imminente un conflitto generale con l’Islam. Le più grossolane bestialità si lasciano dire a Salvini o Marine Le Pen o a Pegida, ma intanto si rafforzano ugualmente flotte ed eserciti per “salvare la civiltà minacciata”…
Invece di schierarsi a fianco della propaganda anti islamica, o viceversa giustificare l’IS per spirito di contraddizione, bisogna cercare di distinguere la propaganda di guerra, oggi particolarmente insidiosa grazie alle nuove tecnologie, usate largamente con cinica disinvoltura dalle due parti. Ogni guerra moderna è stata preparata descrivendo mostruosi crimini del futuro bersaglio, ma il salto qualitativo nella propaganda è avvenuto nel 1991 al momento della prima guerra contro l’Iraq, la prima veramente asimmetrica, che era stata preparata da un martellamento di presunte “corrispondenze” dal Kuweit, che descrivevano l'uccisione dei neonati nelle incubatrici, o la fucilazione di tutta la squadra nazionale di calcio del Kuweit, e che risultarono a guerra finita tutte inventate. Ma furono sufficienti per far schierare al fianco dell’imperialismo quasi tutta la sinistra europea, convinta che Saddam fosse il nuovo Hitler e il povero Iraq la nuova Germania nazista…
La situazione è molto peggiorata, proprio per il rafforzamento progressivo dei movimenti che utilizzano il fanatismo religioso. Movimenti che nel 1991 non c’erano in Iraq, e che si sono sviluppati gradatamente come cemento ideologico per la resistenza all’occupazione e alla distruzione del tessuto sociale provocata dall’embargo, hanno avuto come sottoprodotto oggi nuove forme di barbarie. Compresa, a conferma della validità della teoria dello sviluppo ineguale e combinato, la barbarie che utilizza abilmente internet e Face book per la sua propaganda.
Il pregiudizio sunnita nei confronti degli innocui Jazidi poteva esserci anche allora, ma era impensabile l’assedio al Jebel Sinjar che si è avuto l’anno scorso. Feroce, anche se probabilmente raccontato caricando i toni e aumentando i numeri delle vittime, come ammette una seria studiosa del fenomeno, Emanuela C. Del Re, sempre su LIMES. Ad esempio per molti giorni sono state ripetute notizie drammatiche sulle donne rapite e vendute o su fosse comuni, senza che un solo telefonino fornisse qualche appoggio fotografico alle ricostruzioni fatte da lontano dai soliti specialisti del terrorismo (Maurizio Molinari, Guido Olimpio, Lorenzo Cremonesi, Francesca Paci, ecc.). Eppure in tutto il mondo, anche nei paesi più poveri, milioni di foto vengono scattate e messe subito in rete dopo qualsiasi avvenimento importante.
In ogni caso l’esodo degli Yazidi non rappresenta un “caso unico” che proverebbe l’apparizione di un nuovo mostro da combattere: conflitti interetnici caricati di valenze religiose si sono moltiplicati negli ultimi venticinque anni non solo in varie parti del medio Oriente e dell’Africa, ma anche in molte delle repubbliche asiatiche dell’ex Unione Sovietica, in aree in cui la convivenza pacifica tra etnie era la norma fino al 1989. È comprensibile che si diffonda il sospetto che ci sia stato un unico regista esterno…
Su queste tematiche bisognerà ritornare, per cercare di spiegare perché anche nella seconda o terza generazione di maghrebini o africani alcuni si sentono estranei al paese che li ospita. Non si tratta di un problema solo di mancata integrazione individuale, ma casomai di un legame ideale mantenuto col paese di provenienza, la cui arretratezza giustamente viene messa in conto al colonialismo e alla sua eredità. In Italia i leghisti usano questi episodi per rafforzare la loro miserabile campagna contro l’immigrazione, ma si tratta di ben altro. Le generazioni precedenti di algerini o senegalesi sono state portate in Francia già durante la Prima Guerra Mondiale per combattere o rimpiazzare i soldati nelle fabbriche di armamenti, e poi ancora per le stesse ragioni nella seconda, mentre altri sono stati costretti a chiedere asilo dopo la fine della guerra di liberazione, perché avevano collaborato con l’occupante. E sentono di essere stati mal ricompensati: sono in testa alle statistiche della disoccupazione, e le loro case sono le più povere. Non c’è un nesso automatico con il risveglio islamico, ma certo nel disagio delle banlieue c’è un brodo di coltura che facilita il passaggio dalla piccola criminalità alla ricerca del riscatto attraverso la religione, anche nelle sue forme più estreme.
Purtroppo dovremo riparlarne ancora.
15 gennaio 2015
dal sito Movimento Operaio
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