GRECIA TRA GRANDE VITTORIA E INCERTEZZE
di Etienne Balibar
Sbilanciamo l'Europa. La vittoria di Tsipras è un segnale forte di rifiuto dell’arroganza di chi oggi governa l’Europa, incurante di ogni segnale che viene dai cittadini europei. E in una situazione di emergenza umanitaria, le minacce di queste istituzioni non hanno prodotto sottomissione, ma ribellione
La vittoria di Syriza alle recenti elezioni parlamentari in Grecia ha senza dubbio una portata storica. È la prima volta da quando le politiche di austerità sono diventate la regola in Europa che una forza popolare, radicata a sinistra, sostenuta da una mobilitazione collettiva ed organizzata in una forma democratica, conquista la maggioranza nel proprio paese e si trova nella condizione di rimettere in questione la governance che domina l’Europa da quando ha imboccato la svolta «neo-liberale» (all’inizio degli anni 1990).
Questa rottura accade in un «piccolo paese», ma da una parte la Grecia, a causa delle sofferenze eccezionali che le hanno imposto Fmi, Bce e la Commissione europea per riportala «all’interno delle regole», è diventata un simbolo, la cui esperienza e le cui resistenze sono fonte d’ispirazione in altri paesi (comprese, potenzialmente, la Francia e l’Italia, ndr).
E d’altra parte l’Europa è un sistema politico-economico all’interno del quale tutti gli elementi sono solidali, nel senso meccanico ma anche morale del termine, e di conseguenza ogni cambiamento nei rapporti di forze sul «fronte greco» influenzerà l’insieme del sistema.
Appena il governo Tsipras sarà in grado di affrontare le questioni di fondo per le quali è stato eletto, in particolare quella del debito, è tutto il panorama politico europeo che cambierà, ed i conflitti di fondo in questo modo emergeranno in modo chiaro. Da qui deriveranno gli ostacoli importanti con i quali il governo Tsipras si dovrà scontrare.
Questi ultimi sono di natura sia interna che esterna. Dall’esterno, ci possiamo aspettare un niet sonoro da parte delle forze che oggi dominano la costruzione europea, sostenute dal governo tedesco e dalla Commissione di Bruxelles, ispirate non solo dall’ideologia ma anche dagli interessi, ben interpretati, di tutti coloro i quali (a partire dal sistema bancario) hanno beneficiato e continuano a trarre beneficio dall’inflazione del debito greco. La questione è semplicemente quella di sapere chi, in ultima analisi, porterà il fardello dei debiti non rimborsabili, quelli che l’economista francese Pierre-Noël Giraud chiama i “mistigri” (ovvero gli attivi finanziari che non mantengono la promessa di rendite future, ndr). E questo quando tutta una parte della comunità degli economisti, da Stiglitz a Passarides (si veda la loro dichiarazione nel Financial Times alla vigilia delle elezioni) fino ai teorici dell’FMI, denunciano gli effetti disastrosi delle politiche monetariste.
Da qui nasce la questione cruciale: fino a dove gli altri governi ed attori economici sono disposti a spingersi nel riconoscere gli errori passati ed imprimere un nuovo corso alla politica europea? A tutto questo si aggiungono senza dubbio gli ostacoli interni: una parte considerevole della società greca ha continuato a godere di privilegi e ad organizzare la corruzione; questa parte ha perso le elezioni ma non si riterrà tuttavia battuta, e se ce ne sarà necessità farà ricorso alle provocazioni della destra estrema.
Tra gli ostacoli interni ed esterni ci sono molteplici legami, sui quali sarà importante fare chiarezza. Prendo un solo esempio: quello dell’evasione fiscale (strettamente legato alla questione del debito nazionale). Sappiamo e si dice che i vari governi greci non sono mai “riusciti” a combatterla, il che in realtà significa: non ne avevano alcuna intenzione. Ma il problema si pone in tutt’Europa, come l’ha reso chiaro l’affaire del Lussemburgo, lo scandolo Lux Leaks, che mina la legittimità del presidente della Commissione europea (Juncker) e della Commissione stessa. Quindi, c’è una rete di ostacoli, ma questi vanno affrontati separatamente.
È dunque legittimo affermare che la vittoria di Syriza offre delle prospettive importanti per i popoli d’Europa esposti al neoliberismo ed ai processi de de-democratizzazione che lo accompagnano (ciò che qualche tempo fa, nel momento della “nomina” dei governi Monti e Papademos, avevo chiamato una “rivoluzione dall’alto” e che Jürgen Habermas, da parte sua, ha chiamato la costruzione di un “esecutivo federale post-democratico”). Sotto molti aspetti, questo risultato rovescia — o neutralizza — gli effetti catastrofici delle ultime elezioni europee. Ma penso che si debba evitare di cedere ad una retorica trionfalista, perché siamo all’inizio di un periodo difficile. Difficile per il popolo greco e la sua nuova leadership, in primo luogo, ma anche per tutti noi insieme a loro.
Resta il fatto che il problema dell’austerità è comune a tutta l’Europa (e non riguarda solo l’Europa del Sud), e che l’esempio greco non può che funzionare come segno di speranza di un rinnovamento democratico generale. Avrà una risonanza soprattutto in paesi come la Francia, dove delle forze di sinistra erano state elette per invertire il corso neo-liberista imposto alla costruzione europea (ed in particolare invertire il dogma del pareggio di bilancio, al di fuori di ogni considerazione economica e sociale), e queste stesse forze si sono poi affrettate a cambiare casacca, sia perché avevano sottovalutato la durezza degli ostacoli da affrontare ed “il coraggio della verità” che sarebbe stato necessario per farlo, sia perché al loro interno l’ideologia liberale e gli interessi privati erano in realtà prevalenti anche se in modo non manifesto. Ma la situazione della Francia ha delle forti analogie con gli altri paesi: ha prodotto il “condominio” socialista-conservatore che oggi domina l’UE e che sarà scompaginato dalla situazione greca.
A questo si aggiunge un elemento fondamentale, che vediamo chiaramente in Francia ma che è valido anche altrove: la messa in discussione dei dogmi e dei rapporti di forza non proviene, come era stato annunciato, dalla destra estrema, ma dalla sinistra “radicale”. Probabilmente è qui che risiede la più grande speranza per i popoli europei, sia come popoli, sia in quanto popoli che sono — nella loro diversità — europei, legati da una storia e da un interesse comuni. È fondamentale che Syriza abbia fatto una campagna non contro ma per l’Europa (ovvero con tutta evidenza per un’altra Europa), ovvero contro il populismo ed il nazionalismo. È invece inquietante che, dal primo giorno, per compensare la mancanza di una maggioranza assoluta (e forse anche per fare pressione sui suoi interlocutori di Bruxelles, di Francoforte e di Berlino, e anche di Parigi e Roma), Alexis Tsipras abbia scelto di allearsi con un partito di estrema destra “sovranista”, anche se non incline a posizioni fasciste.
L’esito degli eventi dipenderà in misura essenziale, in queste condizioni, dalla maniera in cui emergeranno, in Europa, dei movimenti di solidarietà e delle manifestazioni di sostegno il più ampie possibile. Bisogna far conoscere le richieste della Grecia per quello che sono — evitando inutili esagerazioni. La sfida del momento non è quella di dare impulso ad una rivoluzione anticapitalista o (o come ha appena detto la portavoce della Linke in Germania) di dare il via ad una “primaversa rossa” in Europa. Non si tratta di “fare esplodere l’euro” (fatto di cui i Greci sarebbero le prime vittime). Si tratta invece di stabilire dei rapporti di forza a partire da linee chiare.
Ci sono due Europe in concorrenza, che non hanno né gli stessi interessi né la stessa concezione della democrazia. Bisogna rinforzare l’Europa dei popoli a discapito dell’Europa delle banche, il che significa anche che tutti i popoli devono essere mobilitati: si sente parlare soprattutto di quelli dell’Europa del Sud, e ne capisco il motivo, ma io vorrei insistere sui popoli dell’Europa del Nord, in particolare i tedeschi, ai quali si deve poter spiegare che l’argomento del “contribuente” con la responsabilità del debito greco non funziona (perché confonde una ristrutturazione con un default) — senza parlare dell’argomento “morale” (il debito tedesco è stato cancellato del 70% nel 1953!). Delle voci che non sono senza autorevolezza si alzano per fortuna in questo senso (per esempio quella dell’ ex redattore capo Theo Sommer sull’ultimo numero di Die Zeit, fino ad ora molto più nazionalista). Ancora più che in passato, si tratta ora di costruire una politica democratica europea che attraversi le frontiere.
29 gennaio 2015
dal sito Il Manifesto
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