LE NOSTRE RESPONSABILITA' DI FRONTE AL TERRORE
di Pierre Rousset, François Sabado
Gli attentati del 13 novembre a Parigi:
il terrore dello Stato islamico, lo stato d’urgenza in Francia, le nostre responsabilità
Solidarietà con le vittime!
Il 13 novembre segna un mutamento della situazione politica nazionale e internazionale. Lo Stato islamico (IS, Daesh) ha colpito ancora, e ancora più forte. In gennaio, i bersagli erano i giornalisti di Charlie Hebdo, la polizia e gli ebrei. Questa volta è stata la gioventù del paese ad essere presa di mira. Non hanno ucciso in luoghi qualsiasi o chiunque: hanno colpito i giovani, la gioventù di ogni tipo, di qualsiasi origine, appartenenza religiosa o meno, di qualsiasi opinione politica. Almeno 130 morti , oltre 350 i feriti – a dir poco un migliaio i testimoni diretti della carneficina. Molti di noi hanno amici o parenti tra le vittime o abbiamo amici che ne hanno. L’ondata di choc, l’emozione è profonda.
L’obiettivo perseguito dai commandos dello Stato islamico non fa misteri: spaccare la società con il terrore. Creare una situazione in cui si impone la guerra degli uni contro gli altri; in cui la paura erge insormontabili barriere tra cittadini e cittadine in base all’origine, alle rispettive religioni, ai modi di vivere, alle loro identità – scavare un fossato di sangue all’interno stesso della religione musulmana, forzare i credenti alla scelta di campo: chi non è con noi fino all’inumano è contro di noi e diventa un bersaglio “legittimo”.
Gli attentati di Parigi sono stati tra i più sanguinosi perpetrati nel mondo dallo Stato islamico ed altro movimento analogo che risponda alla stessa logica distruttiva. La nostra solidarietà è internazionale, e si rivolge in particolare verso coloro che, in altri paesi, la combattono a rischio delle proprie vite: in Siria e in Iraq, in Libano e a Bamako, in Pakistan e in Turchia… Dobbiamo innanzitutto affermare la nostra compassione, il nostro identificarci, la nostra fratellanza con le vittime, con i loro cari.
In un momento come questo, naturalmente noi continuiamo a perseguire la lotta di classe, a sostenere la lotta di tutti/e gli/le oppressi/e; ma, oltre questo, difendiamo l’umanità dalla barbarie. La dimensione umanistica dell’impegno rivoluzionario resta una bussola per noi. Ogni politica progressista parte dall’indignazione, dall’emozione. Non si riduce ovviamente a questo, ma è questo il suo punto d’avvio. Non contrapponiamo riflettere e piangere! Non parliamo una lingua astrusa, non scriviamo con gelida penna! Qui ed ora, aiutiamo le vittime e i loro cari, partecipiamo ai momenti di lutto, ai minuti di silenzio, alle manifestazioni di solidarietà. Siamo in questo movimento – ed è da qui che possiamo spiegare le nostre posizioni.
Quale che sia il ruolo dell’imperialismo, lo Stato islamico è responsabile delle sue azioni. I rivoluzionari hanno il dovere di respingere in modo chiaro e netto la barbarie fondamentalista. Questa va combattuta – con i nostri metodi, secondo il nostro orientamento e non quello dei governanti - ma va attivamente sconfitta.
Sotto lo choc degli avvenimenti, alcune organizzazioni di sinistra, associazioni e sindacati hanno ripiegato di fronte all’appello all’unità nazionale; altre, quasi in reazione, hanno talmente messo in rilievo le realissime responsabilità politiche e storiche dell’imperialismo occidentale che non si è riusciti a sentire la denuncia dello Stato islamico. Nel corso dei giorni le posizioni si sono andate chiarendo. Meglio così. Si leggono ancora, tuttavia, tanti articoli la cui valutazione è che se gli attentati “non avevano avuto alcuna scusa” bisognava innanzitutto tener conto del “contesto” –l’analisi del suddetto contesto riducendosi essenzialmente all’elenco dei misfatti imperialisti, se ne potrebbe dedurre che i movimenti fondamentalisti non fanno che reagire all’intervento delle grandi potenze e dovremmo in qualche modo concedere loro le circostanza attenuanti. Va eliminata in proposito qualsiasi ambiguità.
Stranamente, molte penne di sinistra denunciano vigorosamente gli attentati fondamentalisti, ma si rifiutano di condannare col loro nome, esplicitamente, i movimenti che li commettono. Ancor più strano, tante organizzazioni che non esitano a farlo (nominare i colpevoli, esplicitarne il carattere reazionario) non ne ricavano alcuna conseguenza pratica. Quando si arriva ai compiti, la battaglia contro il terrorismo e contro questi fondamentalismi non si cita più,; cosa che, sia detto di passata, lascia ai nostri governanti il monopolio delle specifiche risposte. Noi siamo in generale d’accordo nel prendercela con gli imperialismi e le loro guerre, con la mondializzazione capitalista distruttiva, con le disuguaglianze e le discriminazioni, con l’ideologia dello scontro di civiltà, con i razzismi, – tra cui l’islamofobia – con i retaggi del passato coloniale, con le politiche securitarie e gli stati d’eccezione, con gli appelli all’unità nazionale e alla pace sociale… Con determinate cause, quindi, e con le conseguenze dei drammi che stiamo vivendo. Ma dobbiamo anche combattere l’influenza di Daesh (tra gli altri) nelle nostre stesse società e solidarizzare concretamente con le resistenze popolari nei paesi del Sud dilaniati dal fanatismo religioso – un dovere internazionalista, quant’altri mai! C’è un “punto cieco” su questo in buona parte della sinistra radicale, anche in quella che non affonda in un “campismo” deleterio. Perciò diamo importanza alla questione del nostro contributo.
Lo Stato islamico ed altro movimento analogo non si limitano a reagire: agiscono secondo un’agenda loro propria. Sono protagonisti politici che perseguono determinati obiettivi: C’è poco da dubitare che Daesh sia effettivamente responsabile degli attentati di Parigi. Questa organizzazione ha costruito un proto-Stato su un territorio che equivale a quello della Gran Bretagna. Gestisce un’amministrazione, accumula immense ricchezze (valutate a circa 1,8 miliardi di dollari), organizza il contrabbando di petrolio o di cotone. Conduce operazioni di guerra su molteplici teatri d’operazione, ha reclutato informatici del più alto livello… Non è un burattino! È responsabile dei propri atti – totalmente responsabile degli attentai che commette in tanti posti.
Questa sua responsabilità non sparisce per le responsabilità dell’imperialismo, per schiaccianti che siano queste ultime – e da lunga data: dagli accordi Sykes-Picot dell’inizio del XX secolo agli attuali interventi delle grandi potenze. Si sente spesso dire che, senza l’intervento USA del 2003 in Iraq (che ha destabilizzato la regione, dislocato alcuni Stati), Daesh non esisterebbe. Non è vero se non per quel che riguarda lo specifico concatenamento che ha portato alla formazione dello Stato islamico così come lo conosciamo. In altri termini, è falso. L’emergere delle forze jihadiste non dipende meccanicamente dalla sola dominazione imperialista, ma è il prodotto combinato di numerosi fattori che vanno dal fallimento delle sinistre arabe (ed europee) fino alla volontà delle borghesie nell’area di disporre di nuove forze controrivoluzionarie a supporto delle loro ambizioni regionali o per combattere l’ascesa rivoluzionaria in seno al mondo arabo. Vale anche per l’ascesa dei fondamentalismi religiosi in altre parti del mondo, incluso in paesi che non hanno conosciuto niente di paragonabile alla guerra del 2003, come l’India (estrema destra induista), la Birmania (estrema destra buddista) o gli Stati Uniti (estrema destra cristiana - potente ben prima dell’11 settembre 2001 e molto vicina a Bush).
Ritorno sullo “scontro di civiltà”
C’è una responsabilità imperialista occidentale, come all’indomani della guerra del 1914-1918 (il trattato di Versailles) nell’ascesa del nazismo in Germania. Gli antifascisti dell’epoca non hanno mancato di ricordarlo sistematicamente. Tuttavia, una volta preso l’abbrivio, il partito nazista è stato denunciato e combattuto in quanto tale. Daesh ha preso il suo abbrivio…
Dobbiamo continuare a spiegare il contesto, ma lo Stato islamico va considerato per quello che è, non semplicemente come l’ombra portata dall’Occidente. L’imperialismo contemporaneo, le politiche neoliberiste, la mondializzazione capitalista, le imprese di ricolonizzazione, le guerre infinite dilaniano il tessuto sociale di un numero crescente di paesi, liberando tutte le barbarie. Ma i fondamentalismi religiosi sono anch’essi temibili agenti della disintegrazione di società intere. Non siamo di fronte a una “barbarie principale” (dell’Occidente) che oggi dovremmo combattere e una “barbarie secondaria” (Daesh e consorti) di cui non ci si dovrebbe preoccupare se non in un imprecisato futuro.
Altrettanto vero l’inverso: non vanno chiusi gli occhi sulla barbarie imperialista e quella delle dittature “alleate” con il pretesto di battere la barbarie fondamentalista. Non esistono gerarchie nell’orrore. Vanno difese attivamente e senza esitazioni tutte le vittime di queste barbarie gemelle, che si alimentano reciprocamente, pena il fallimento nei nostri compiti politici e umanitari.
I fondamentalismi religiosi sono spesso stati inizialmente sorretti da Washington in nome della lotta contro l’Urss (in Afghanistan, in Pakistan…), prima di proclamare le loro autonomia, o di rivoltarsi contro il loro padrino. Profondamente reazionari, questi movimenti non hanno niente di progressista. Non esiste “antimperialismo reazionario”! Vogliono imporre un modello di società al tempo stesso capitalista e passatista, totalitario nell’accezione forte del termine. Naturalmente, la Francia viene colpita per la sua politica mediorientale o per la sua storia coloniale e post-coloniale. Ma se Daesh massacra gli yazidi perché sono yazidi, riduce popolazioni in schiavitù, vende donne, destabilizza il Libano, spinge agli estremi le violenze interconfessionali (soprattutto contro gli sciiti) che rapporto c’è con il presunto antimperialismo?
Tutti i movimenti fondamentalisti non hanno le stesse basi, la stessa strategia. Alcuni, come lo Stato islamico, sono fascisti? Non intrattengono gli stessi rapporti (complicati) con alcuni settori delle borghesie imperialiste come in Europa negli anni Trenta, ma li riproducono con settori delle borghesie di “potenze regionali”, ad esempio in Medio Oriente l’Iran, l’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia… Attraggono il “pulviscolo d’umanità” delle società in deliquescenza come anche alcuni elementi di “ceti medi”, di “piccola borghesia” , di salariato istruito. Si servono del terrore “dal basso” per imporre il loro ordine. Disumanizzano l’Altro e ne fanno capri espiatori come ieri i nazisti con gli ebrei, gli tzigani o gli omosessuali. Sradicano qualsiasi forma di democrazia e di organizzazioni popolari progressiste. L’esaltazione religiosa riveste la stessa funzione dell’esaltazione nazionale nel periodo fra le due guerre, e permette inoltre che si dispieghi internazionalmente. Sarebbe strano che le convulsioni provocate dalla mondializzazione capitalista non diano origine a nuovi fascismi, come ci sarebbe da stupirsi che questi riprendano tratto per tratto quelli del secolo precedente. C’è una differenza con i fascismi europei ed è l’intreccio tra questa reazione integralista totalitaria, la crisi di dislocazione di Stati e i rapporti di predominio imperialisti economici e militari che inquadrano la regione. La lotta antimperialista va condotta dai popoli della regione, non da una coalizione di potenze occidentali. Un nuovo intervento militare delle potenze imperialiste e della Russia, sorretta su ognuno dei suoi fianchi dai paesi del Golfo e dalla dittatura siriana, può indebolire Daesh sul piano militare, ma non può che provocare una reazione di rigetto di tutti i popoli sunniti dell’area.
La crisi di società in Francia
Gli attentati del 13 novembre sono stati commessi innanzitutto da francesi o franco-belgi – essendo la Francia insieme al Belgio due dei paesi in cui sono state più nutrite le partenze per la Siria. Non vi è un unico profilo delle persone che si uniscono allo Stato islamico. Può trattarsi di famiglie osservanti, musulmane, laiche o non musulmane: i recenti convertiti, non arabi, sono abbastanza numerosi. Così pure, possono essere emerse da ambienti molto precarizzati o stabili, avere trascorsi di delinquenza o non averli. In certi casi, la “radicalizzazione” di un individuo costituisce lo sbocco di un lungo percorso; per altri, si tratta di un brusco scombussolamento. Come c’era da aspettarsi, la maggior parte degli uomini che hanno commesso attentati in Francia provengono da ambienti particolarmente disagiati, hanno conosciuto la galera e sono stati membri di bande, ma non tutti. Di fronte a una simile molteplicità di profili, non possiamo accontentarci di facili spiegazioni, esclusivamente sociologiche (precarietà, rapporti sociali su basi razziali…) o storici (impronta post-coloniale).
A differenza dalle precedenti radicalizzazioni della gioventù, questa è molto minoritaria e non è sorretta dalle stesse aspirazioni umaniste. Lo Stato islamico mette direttamente in scena se stesso nella sua luce più cruda.: “venite a tagliare teste insieme a noi”. L’esercito francese ha torturato massicciamente, specie durante la battaglia d’Algeri, mentre il governo e lo Stato Maggiore negavano accanitamente i loro crimini: nessun appello che proclamasse: “Entrate nel vostro Grande Esercito, venite a torturare insieme a noi”! Daesh inalbera esplicitamente un discorso di odio e di esclusione dell’Altro (sulla scia delle più estreme delle estreme destre). Non vi è analogia possibile fra le partenze attuali per la Siria e la formazione delle brigate internazionali in occasione della guerra civile spagnola – o la radicalizzazione degli anni Sessanta.
Niente di banale in tutto questo, né nel ricorso al terrore di massa. Pretendere che il terrorismo sarebbe la “naturale” arma degli oppressi in guerre “asimmetriche” significa ignorare gli insegnamenti delle grandi lotte di liberazione del secolo scorso, delle guerre rivoluzionarie. Nelle lotte per la propria indipendenza o contro l’imperialismo, in Indocina o in America Latina, gli attentati terroristici sono stati, all’epoca, rari e i movimenti interessati hanno in genere capito rapidamente che il costo politico di operazioni del genere era troppo alto – e poneva certo problemi etici. In Algeria il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), che si era avventurato su quel terreno, ha fatto ben presto marcia indietro, sotto la pressione di alcuni suoi settori o di movimenti di solidarietà con l’indipendenza algerina.
Subiamo le ultime conseguenze della “crisi del politico”, della desocializzazione inerente alle nostre società neoliberiste e della loro ingiustizia crescente, della sconfitta subita dalle nostre generazioni (i radicali degli anni Sessanta-Settanta), dell’incapacità delle sinistre nei nostri paesi di offrire una qualche prospettiva radicale e di agire all’interno delle popolazioni rese precarie. Per questo tocchiamo con mano ambiti che la maggior parte di noi non padroneggia: la psicosociologia, il rapporto tra singole fragilità identitarie e deliquescenza del tessuto sociale, le trasgressioni adolescenziali. Lo Stato islamico fornisce un’armatura identitaria e potere: potere di rappresentanza, potere delle armi, potere sulle donne, potere di vita e di morte… Ben più di un presunto antimperialismo, ed è questo che lo rende attraente.
Sono problemi che dobbiamo assumere ben più di quanto non abbiamo fatto finora, e da cui possiamo già ricavare alcune indicazioni. La lotta antirazzista, per importante che sia, non basta più. Di contro all’individualismo neoliberista e al suo anonimato (chi conosce i propri vicini?) occorre favorire, ricostituire, i luoghi di socializzazione, del “vivere insieme”, della mescolanza – e reintrodurre una discussione di fondo sull’etica dell’impegno e della lotta.
In una situazione come questa, tutti i razzismi rappresentano un pericolo mortale, e tra questi naturalmente quello di Stato, ma non solo. Battiamoci contro ciò che può alimentare le tensioni intercomunitarie, contrapporre fra loro gli oppressi. Si tratti del razzismo anti-arabo o di fobia per i neri, dell’antisemitismo o dell’islamofobia, della discriminazione dei Rom… - e alimentiamo perciò una cultura del vivere insieme, del rispetto dei diritte di tutti/e.
I nostri compiti internazionalisti
Gli ultimi avvenimenti (13 novembre, attentati nel Sinai contro l’aereo russo di linea…), hanno precipitato lo sviluppo di alleanze che si intuivano anche prima. Con la formazione di una grande coalizione: inserimento della Russia, abbandono delle pretese della Francia all’autonomia, inquietudini manifestate fin in Arabia Saudita sul dispiegarsi dello Stato islamico… In contropartita, il regime Assad prova conforto mentre è all’origine della crisi siriana e colpevole dei crimini che sappiamo. Basterà questo a favorire un accordo temporaneo fra potenze regionali che appartengono ai cosiddetti “blocchi” sunnita e sciita?
È ancora troppo presto per misurare tutte le implicazioni di questa svolta nella situazione internazionale. Poniamo per il momento l’accento sui punti che seguono:
I compromessi tra occidentali e Turchia o il regime di Assad si faranno a detrimento delle forze che, sul campo, meritano maggiormente il nostro sostegno: kurdi, yazidi, componenti progressiste e non confessionali della resistenza al regime. Bisogna portare loro la nostra solidarietà politica e materiale ed esigere che ottengano soprattutto adeguato armamento – cosa di cui le componenti progressiste dell’Esercito Siriano di Liberazione (ESL) non hanno mai beneficiato (eppure resistono!) e di cui i kurdi potrebbero essere privati, soprattutto sul fronte siriano. Dobbiamo riconoscere di non aver mai fatto in Francia, in questo campo, quello che avremmo dovuto fare.
L’intensificazione dei bombardamenti della coalizione, con l’esorbitante prezzo pagato dai civili, rischia di rafforzare l’udienza di Daesh presso altre componenti islamiste operanti in Siria. Il risultato netto di una simile politica sarebbe allora quella di dare sollievo sia al regime di Assad sia alle organizzazioni fondamentaliste (a cominciare dallo Stato islamico)! Per evitare una simile trappola, si deve rompere con la logica delle grandi potenze: aiutiamo le forze popolari in Siria, in Iraq, a proseguire la loro lotta invece di volersi sostituire ad esse, o emarginarle ulteriormente.
Battiamoci dunque contro la politica di guerra dei nostri governanti, ma capiamo anche la specificità di questo conflitto, ben diverso dalle guerre d’Indocina o d’Algeria: il ritiro delle truppe francesi o americane significava allora la fine delle principali ingerenze straniere, creando le condizioni per la vittoria. Non è così oggi in Medio Oriente: resterebbero la Turchia, l’Iran (ed Hezbollah), l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Algeria, l’Egitto… In una geografia così complicata, dobbiamo ascoltare i movimenti che sosteniamo per tenere conto di che cosa hanno bisogno, materialmente e politicamente. Sono i popoli a dover decidere, non le coalizioni imperialiste. Tuttavia, ed è una dimensione particolare di questa guerra, i kurdi come i democratici siriani hanno chiesto e richiedono un aiuto sanitario e militare, incluso ai governi occidentali. Bisogna darglielo. Nessuna sostituzione rispetto alla decisione e all’autodeterminazione delle forze democratiche siriane e kurde, ma nessuna esitazione ad aiutarle e a fare pressione sui nostri governi perché rispondano agli appelli da esse lanciati.
Sul piano internazionale, va denunciata l’ipocrisia dei governi occidentali: da un lato, pretendono di combattere il terrorismo e, dall’altro, appoggiano regimi come quello del Qatar, dell’Arabia Saudita o della Turchia.
La coalizione che si costituisce non è per nulla un’alleanza “democratica contro una minaccia totalitaria. Oltre ai nostri imperialismi “classici”, essa comprende la Russia di Putin, l’Arabia Saudita il cui regime è molto vicino al modello di società caldeggiato da Daesh, il Qatar, la teocrazia iraniana, la Turchia di Erdogan… Quale che sia la natura dello Stato islamico, non è valida ogni analogia con un “fronte democratico antifascista”. Noi non siamo né con la coalizione, né con lo Stato islamico, né con Assad. Noi siamo per il diritto all’autodeterminazione dei popoli – tra cui quello palestinese – contro tutte le barbarie.
Una svolta della situazione nazionale
Come nel gennaio scorso dopo il massacro dei giornalisti di Charlie, la morte del personale di polizia, l’attacco all’Hipercacher (si veda l’articolo scritto allora in ESSF: http://www.europe-solidaire.org/spip?article34100), l’emozione ha sommerso il paese – cosa evidentemente del tutto normale. Gli atti islamofobi si sono moltiplicati, ma riguardano solo una frangia della popolazione. I gesti di solidarietà e convivialità si sono moltiplicati anch’essi: grande sorriso nel metro se si incrocia un magrebino, ostentata galanteria (pur se inconsueta) quando ci si fa da parte per far passare una donna con il velo, rioccupazione dei luoghi delle feste e degli incontri misti, rifiuto di ogni amalgama…) Purtroppo, tutti questi gesti non vengono registrati e non entrano nelle statistiche.
Come in gennaio, anche qui, le politiche securitarie ottengono un plebiscito, si applaudono le forze dell’ordine. Ora, più che in gennaio, il governo coglie l’occasione per prendere misure liberticide. È stato ieri il caso della legge sull’intelligence, che dà poteri esorbitanti ai servizi segreti. È ora il caso della reintroduzione dello Stato d’emergenza, del suo inasprimento ad opera del parlamento, l’appello del governo francese perché anche l’Unione europea si allinei, in particolare con la schedatura di chi viaggia in aereo, e l’annuncio di François Hollande di una riforma della Costituzione.
La Francia è già dotata di due sistemi d’eccezione, forgiati in particolare al momento della guerra d’Algeria: lo stato d’emergenza (una semi-legge marziale che libera le forze dell’ordine dal controllo giudiziario e restringe le libertà) e lo stato d’assedio (una legge marziale integrale che dà all’esercito pieni poteri). Perché questo non basta ai nostri governanti? Perché il ricorso allo stato d’emergenza , ad esempio, è limitato nel tempo e richiede un voto in parlamento – che nella circostanza è stato quasi unanimemente favorevole: lo hanno votato la grande maggioranza dei socialisti, dei verdi e dei deputati comunisti. La riforma costituzionale consentirebbe al governo (o al presidente?) di prendere più liberamente misure eccezionali – e alla fine di trasformare l’eccezione in regola: intervento dell’esercito in materia di polizia, perquisizioni arbitrarie, censura della stampa, ecc. Non è ancora noto il testo di legge che Hollande redigerà , ma ne sono chiare le intenzioni. Il regime diventerà sempre più autoritario, la militarizzazione della società fara un balzo in avanti.
Un buon numero di persone si preoccupano di cosa avverrebbe se Marine Le Pen e il Fronte nazionale vincesse le elezioni (uno scenario tutt’altro che da fantascienza), ma non si chiedano che cosa ne faranno Holland, Valls, Sarkozy o altri. È quindi molto importante ricordare che cosa i governi “repubblicani” hanno fatto in passato - tra l’altro, la tortura in Algeria e l’adozione di una legge di amnistia che vieta di metterne sotto accusa i responsabili (li si può solo accusare di apologia della tortura se, in seguito, ne sostengono l’impiego), l’oblio mediatico del massacro degli algerini di Parigi il 17 ottobre 1961 (terrorismo di Stato dei peggiori), il golpe dei generali ad Algeri, i giochi sporchi dei servizi segreti, l’attentato contro il Rainbow Warrior di Greenpeace (un morto, ancora terrorismo di Stato), l’assassinio di dirigenti kanaki [popolazione d’origine malese della Nuova Caledonia] e così via. Di fatto, il complesso delle leggi securitarie adottate negli ultimi anni e i dispositivi di sorveglianza posti in atto permetteranno al potere, qualsiasi esso sia, di portare avanti, se vuole, una guerra civile rampante. Infine, al di là della marcia a tutta sicurezza, c’è un calcolo politico. Hollande e Valls contano sullo stato d’emergenza per utilizzare ancora una volta l’arsenale bonapartista ed ergersi, in certo qual modo, al di sopra dei partiti e delle istituzioni. Operazione che punta a neutralizzare il catastrofico bilancio dei governi dal 2012 e a promettere al Partito socialista migliori risultati elettorali. Scommessa delle più azzardate. Hollande e Valls possono giocarsi la carta securitaria, sorretta dalle istituzioni della V Repubblica, ma nell’attuale situazione politica in cui i venti cattivi portano a destra e all’estrema destra, c’è il rischio che siano queste forze ad approfittare della manovra.
Le resistenze al protrarsi dello stato d’emergenza sono state molto deboli nella sinistra parlamentare, ma più importanti alla base (in seno al PCF ad esempio, contro il voto dei suoi rappresentanti o nel movimento sociale e sindacale: Solidaires, ma anche la CGT.
L’attuale momento politico è gravido di pericoli molto grandi. La democrazia politica è già stata svuotata del suo contenuto, con le assemblee degli eletti che non hanno più presa sulle decisioni principali (che riguardano l’UE, l’OCM, trattati intergovernativi…). Ora sono le libertà dei cittadini, già sotto misure coercitive, a rischiare di diventare un guscio vuoto. Il governo vuole chiudere in casa la società: E la popolazione non ne è consapevole.
L’importante è collegare tra loro i terreni di resistenza, manifestare la nostra solidarietà con le vittime del terrorismo, fornire strumenti materiali, politici e militari per sopravvivere e per vincere ai popoli in lotta per la propria libertà, aiutare le forze progressiste e non confessionali che lottano sul campo sia contro l’oscurantismo sanguinario, terrorista di Daesh sia contro quello del regime di Assad che lo ha tanto favorito. L’importante è bloccare guerre e bombardamenti, smettere di sostenere regimi assolutisti e di promuovere le ingiustizie sociali e politiche in Medio Oriente come altrove.
Lo stato delle forze progressiste in Francia è piuttosto disastroso, ma in questo momento cruciale esistono punti d’appoggio per resistere: nei sentimenti di solidarietà condivisi in seno alla popolazione, nelle reazioni dei giovani, nel rifiuto di un buon numero di associazioni ed sindacati di acettare misure liberticide, un permanente regime d’emergenza. Materiale con cui costruire un fronte unico in difesa delle libertà qui e altrove, del vivere insieme, della solidarietà.
[Articolo scritto per Viento Sur, pubblicato su Europe solidaire, traduzione di Titti Pierini]
dal sito Sinistra Anticapitalista
Nessun commento:
Posta un commento