di Nicola Tranfaglia
Se si parte da una constatazione che hanno raggiunto da anni gli studiosi del fenomeno mafioso nella penisola, cioè che il metodo adoperato dalle quattro forti associazioni che dominano il nostro Paese si è espanso al punto tale da diventare, dal più al meno, il metodo normale delle istituzioni verso i cittadini, si fa un passo decisivo per rendersi conto in quale Stato abbiamo la ventura di trascorrere questi anni. Un Paese, è il caso di ricordarlo per gli immemori (e da noi ce ne sono tanti ancora). Un Paese, nel quale, durante gli ultimi vent'anni, c'è stato uno straordinario affollarsi di avvenimenti-scioglimento dei maggiori partiti storici sorti prima, durante o subito dopo la seconda guerra mondiale, sostituzione dei leader che avevano caratterizzato il primo cinquantennio repubblicano e l'emergere di nuovi leader, alcuni dei quali sono diventati creatori di propri partiti come Pannella per il Partito radicale, più tardi Berlusconi per Forza Italia, quindi ancora Di Pietro per l'Italia dei Valori e Vendola per Sinistra, ecologia e libertà - ma anche il diffondersi di un illegalismo di massa che ha messo in grave pericolo la legalità repubblicana.
Questi cambiamenti hanno segnato lo sviluppo massiccio di associazioni mafiose sorte subito dopo le grandi rivoluzioni europee del Settecento che, pur essendo partite da una regione meridionale, si sono presto diffuse in quasi tutto il Paese, come all'estero in Europa e nelle due Americhe. E tutto questo senza che le nostre mutevoli classi dirigenti siano riuscite ad eliminare alcune delle peculiarità negative che avevano caratterizzato, anche nel periodo repubblicano, la storia nazionale: come il diffuso clientelismo, la grave corruzione pubblica e privata, l'arretratezza culturale nel campo dell'istruzione, la scarsa cura per le istituzioni pubbliche come per il grande patrimonio storico e culturale che ha fatto del nostro uno dei Paesi più frequentati dagli stranieri di tutto il mondo. In questa situazione, rispetto alle quali le classi dirigenti hanno dispiegato un interesse che non può definirsi né prioritario né centrale, lo scoppio della crisi politica e morale degli anni Novanta è stato determinato da una magistratura (soprattutto del Nord Italia e di Milano in particolare) che ha portato davanti al giudizio penale una parte notevole della classe politica e amministrativa dei maggiori partiti politici insieme a numerosi imprenditori delle più importanti imprese del Paese. Ma anche alle pretese sempre maggiori dei partiti e dei loro rappresentanti che hanno, a poco a poco, fatto aumentare i prezzi delle opere pubbliche e delle varie commesse o aste legate agli enti pubblici centrali o locali, determinando una difficoltà crescente di funzionamento dell'intero sistema produttivo e commerciale.
Di qui la crisi che viviamo in particolare intenso da alcuni anni ma che continua a determinare, da una parte, le difficoltà crescenti sul piano economico della maggior parte delle masse popolari e delle classi medie, ma, dall'altra, il distacco, sempre più preoccupante, degli italiani dalla politica, come dal bene pubblico, di fronte a una corruzione che fa dell'Italia il sessantanovesimo paese nella classifica mondiale degli Stati più corrotti e, nello stesso tempo, il ventinovesimo dei trentuno paesi dell'OCSE per il livello medio di istruzione, come tra gli ultimi nella lettura dei libri che pure si pubblicano in grande quantità nel nostro Paese. Si ricava dalle statistiche più attendibili, ormai, che non più del sette per cento degli italiani, legge almeno un libro all'anno e questo appare particolarmente grave e in forte contraddizione con la presenza di molti studiosi e professori, cresciuti e formatisi in Italia che hanno dovuto abbandonare il loro Paese per poter lavorare. E sono peraltro presenti e apprezzati in tutto il mondo non solo occidentale.
Forse anche per tutto ciò il nostro Paese - malgrado disponga di una commissione parlamentare antimafia che in questa prima parte della legislatura ha lavorato in maniera positiva - è in grave ritardo rispetto a scadenze che, come Paese, abbiamo di fronte ora che siamo alla vigilia del semestre di presidenza italiana nell'Unione Europea. Ricordiamo anzitutto che su 48.846 beni sequestrati e confiscati, tra i 113.753, ne risultano destinati solo 4.847, cioè il 10 per cento della quantità complessiva.
Inoltre l'Italia - reduce da un ventennio populistico disastroso e, per molti aspetti, non ancora concluso deve ancora recepire le decisioni quadro del 2003 sull'esecuzione nell'Unione Europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio emessi da un'autorità di un Paese membro e del 2006 (si noti beni due termini inclusi nella legislatura presieduta da Berlusconi) sul principio del reciproco riconoscimento della confisca dei beni mafiosi. E l'Italia, se onorasse in tempo le sue scadenze attuali, potrebbe contribuire a far approvare un calendario di approvazione di direttive per l'intera legislatura, costituire una procura antimafia europea, coordinare l'adozione di misure di contrasto efficaci a livello europeo contro le mafie locali e internazionali che ancora mancano, anche se buone notizie arrivano proprio dalla Germania governata da Angela Merkel.
D'altra parte, il governo italiano ha promesso di presentare entro giugno proposte nuove contro la corruzione, il riciclaggio e soprattutto l'autoriciclaggio, ripristini il reato penale di falso in bilancio, sancisca penalmente tutti i reati finanziari, tra i quali i cosiddetti reati spia, faccia proprie le proposte di modifica del Codice antimafia. E infine vari una legge sulla sospensione della candidabilità almeno dei rinviati a giudizio per reati di corruzione, di mafia o contro la pubblica amministrazione.
Solo così (ma intervenendo anche, finalmente, sul conflitto di interesse con proposte efficaci) il semestre di presidenza italiana presso l'Unione europea avrà un senso adeguato ai nostri problemi come a quelli dell'intero continente rispetto al pericolo mafioso.
21 maggio 2014
APPENDICE
LA MAFIA COME METODO
Nel 1991, un anno prima delle stragi di Capaci e di via d'Amelio, era già chiaro, per chi avesse la lucidità necessaria, che la mafia o, meglio, le mafie italiane avevano un metodo di comportamento che si stava espandendo nelle istituzioni politiche e nella società civile dell'Italia contemporanea e che la reazione dello Stato si era dimostrata, fino a quel momento, debole e inefficace. Quello che sta accadendo ora appare come la conseguenza di una lunga coabitazione tra mafia e politica che è destinata a durare ancora fino a quando lo Stato non debellerà il fenomeno mafioso.
Il saggio - pubblicato per la prima volta da Laterza nel 1991 e ora completamente rivisto e aggiornato fino agli ultimi avvenimenti e alle intercettazioni che coinvolgono il Presidente della Repubblica - sostiene la tesi, sottolinea Tranfaglia nella sua prefazione, che il problema della mafia o delle mafie che agiscono nel nostro Paese è centrale nella nostra storia postunitaria e che l'aspetto più preoccupante e pericoloso sta nel trasferimento, avvenuto negli ultimi quarant'anni, dei metodi propri dell'organizzazione mafiosa dalla criminalità organizzata alle amministrazioni pubbliche e private esistenti in Italia. Un simile trasferimento, sempre più radicalizzato, mette in crisi l'edificio costituzionale repubblicano, mina la coscienza civile, la fiducia nella politica e negli organi dello Stato. Nella fase drammatica che stiamo attraversando e nella forte convinzione che lo studio del passato e l'accertamento della verità storica costituiscano ancora oggi strumenti efficaci per una moderna democrazia, il saggio di Nicola Tranfaglia contribuisce a ricostruire quello che è successo nei primi centocinquant'anni dell'Italia unita, indicando le conquiste e le contraddizioni delle numerose commissioni parlamentari di inchiesta, le battaglie e le sconfitte dei magistrati, le stragi terribili degli anni ottanta e novanta.
La coabitazione tra mafia e Stato è una storia che ha segnato la nostra Italia, e ancora continua a segnarla, in maniera indelebile. La speranza nel futuro può essere riposta solo in un radicale cambiamento nei metodi di selezione delle forze politiche, nel miglioramento dei gruppi dirigenti e nell'ansia di ricostruzione democratica di cui tanti italiani a questo punto sentono, sia pur confusamente, il bisogno.
dal sito http://www.nicolatranfaglia.com/blog/
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