COSA STA SUCCEDENDO A TORPIGNATTARA
di Valerio Mattioli, Demented Burrocacao
Cari lettori di VICE,
Se queste pagine le frequentate spesso, saprete che nascondono una specie di rubrica occulta il cui nome di fatto è “Cronache da Roma Est”. Probabilmente questa rubrica-fantasma la detestate. Probabilmente vivete a Bergamo, a Camerino o a Manfredonia e di Roma non vi frega niente, figuriamoci del suo disastrato quadrante orientale a cui dedicammo persino una guida . Probabilmente vi siete stufati di tutto questo parlare di via Casilina, del Prenestino e del Pigneto, e probabilmente vi siete stufati pure di noi, e per “noi” intendiamo proprio noi due che firmiamo l’articolo, perché a Roma Est ci viviamo e ne scriviamo spesso. Perché insomma, che gliene può fregare a un bolognese o a un friulano di posti come La Marranella? Delle ex baracche del Mandrione? Delle feste di quartiere a Certosa? Va bene, c’è stato almeno un mezzo bolognese - mezzo friulano a cui passeggiare per Marranella, Mandrione e Certosa piaceva assai, ci ha scritto i libri e girato i film, si chiamava PPP e questo lo sapete tutti, ma intanto PPP è morto quarant’anni fa, il suo ritratto è finito ad adornare il peggior bar del Pigneto, e a via Tempesta Willem Defoe mica s’è visto. Comunque.
Il fatto è che insistiamo a pensare che quello che succede da queste parti, interessante lo sia. Mettiamola così: ci sembra che dica qualcosa. E che almeno in potenza questo qualcosa parli anche a chi vive a Bergamo, Camerino e Manfredonia. Stavolta vi vogliamo raccontare quello che è successo nelle ultime settimane a Torpignattara. Speriamo che il nome vi suoni. Se avete letto PPP o vi ricordate di Teo Teocoli che imita la parlata romanesca, non dovrebbe giungervi nuovo.
Bene, allora:
Storicamente, Torpignattara (Tor Pignattara per la toponomastica ufficiale, Torpigna per gli amici) è un quartiere popolare quando non direttamente povero, un po’ come lo furono le aree limitrofe di Pigneto, Centocelle, Quadraro e così via. Del quadrante orientale di Roma, Torpignattara è anche quello in cui la componente multietnica è più vistosa e in un certo qual modo dichiarata: la comunità più diffusa è quella bengalese, tanto che da qualche tempo al toponimo ufficiale si è aggiunto quello ufficioso di Banglatown, ma molto radicata è anche la presenza di comunità peruviane, rumene, filippine, cinesi e nordafricane.
La particolare composizione dell’abitato si è tradotta in un modello di convivenza abbondantemente analizzato da specialisti e studiosi. L’esempio più virtuoso è quello della scuola elementare Carlo Pisacane, che Vanity Fair descriveva non più di un anno fa come “multietnica, bella, sentimentale,” “un formidabile modello di integrazione." È per capirci la scuola dinanzi alla quale Borghezio fu preso a male parole e conseguentemente cacciato dopo che ebbe la brillante idea di tenervi un comizio. Giustamente, la Pisacane è stata per anni—e anzi continua a essere—l’orgoglio del quartiere, nonché l’unico prodotto Made in Torpigna ad aver conquistato l’onore delle cronache nazionali (aneddoti su ragazzi di vita a parte, si intende; ma quella è acqua passata, più o meno).
Ora: da qualche tempo l’idillio della Torpignattara povera ma bella, multietnica e integrata, tollerante e vitale, è stato eroso da una generalizzata condizione di degrado che se fossimo titolisti del Messaggero riassumeremmo nella formula “abbandono delle istituzioni”. Gli ingredienti potete immaginarli: criminalità, sporcizia, cassonetti intasati, lampioni che non funzionano, puzza ovunque, risse, omicidi. È una zona depressa, Torpignattara, da tanti punti di vista: quello umorale, quello urbanistico, quello economico. La crisi qui ha portato a galla una serie di tensioni rimaste per anni come sottotraccia, e il popolare sito RomaToday ne parla come di una “bomba a orologeria”. Romanotizie è ricorso invece all’altrettanto classica figura retorica del “Far West”, un “laboratorio di fusione a freddo di odio razziale, criminalità, degrado e incuria.” Tocca dirlo: tenete a mente queste parole.
Certo, alcuni recenti episodi di cronaca sconfinano apertamente nel grottesco o in una tragicomica variante della “cartolina delle favelas”, vedi il surreale affaire Torpignaflex, di cui anche chi vi scrive custodisce preziosi ricordi. Per farla breve, un giorno dello scorso giugno ci svegliamo—uno in zona bar San Francisco, l’altro in zona Certosa—ci affacciamo dalle rispettive finestre, ed ecco quello che troviamo:
Una decina di materassi accatastati gli uni sugli altri a lato di un cassonetto. Un omaggio street all’Arte Povera che fu? Scendiamo in strada, giriamo l’angolo, ed eccone altri dieci (di materassi). E appena un po’ più in là, giusto in fondo alla via, altri materassi ancora. Materassi abbandonati anche su via Casilina, su via Alessi, su via Serbelloni, su via Bufalini... Materassi ovunque. Insomma, il panorama era se non altro bizzarro. Incontriamo a un bar il buon Ranius B, e ci dice che una catasta di materassi se l’è trovata pure sotto casa sua.
“Ma che cazzo succede?”, chiediamo. “Non lo so, ma mi fa venire sonno,” risponde lui.
Il barista orecchia, scuote la testa, ci serve il caffè e sibila: “E che vòi che succede. So’ quelli,” e fa un gesto con la mano come a includere l’intero circondario. Ci giriamo e be’, siamo pur sempre a Banglatown: chi siano quelli evocati dal barista che tutto conosce, è chiaro.
Alla fine si è scoperto che alcune italianissime ditte del settore offrivano ai potenziali clienti un servizio di ritiro del vecchio materasso per soli 50 euro. Solo che una volta ritirato il materasso, a come smaltirlo non ci avevano pensato. In ogni caso, per qualche settimana sui giornali locali Torpignattara venne sagacemente ribattezzata Materassopoli. Quante risate.
Altri episodi paiono presi da un remake particolarmente truce di pellicole come Amore Tossico, e altri casi ancora sembrano puntare direttamente al conflitto interetnico: a fine agosto, un furto subito da un negoziante bengalese da un gruppo di rumeni è sfociato in una rumorosa rissa-rappresaglia su via della Marranella, la terza del genere nell’arco di poche settimane. Ma l’episodio che fino a pochi giorni fa più aveva colpito l’immaginario dei cronisti locali risale al 14 settembre ed è l’omicidio a coltellate di un uomo di 52 anni nel parco di Villa de Santis, in pieno giorno. Sempre le cronache, ci informano che la vittima era di nazionalità rumena. Il suo assassino, “probabilmente pure.”
Infine, alla “bomba a orologeria” dell’incontenibile mix droga+criminalità+ammazzamenti+conflitti razziali (+materassi), non poteva che aggiungersi la sinistra nota del terrorismo religioso. Secondo diversi siti di informazione Torpignattara, assieme alla vicina Centocelle e quella specie di Colonne d’Ercole di Roma Est che è Tor Bella Monaca, sarebbe al centro di una potenziale rete di reclutamento dell’ISIS, tanto che “sono apparse scritte inneggianti al Califfato sui muri del sottopasso di via Casilina, sui muri della Prenestina e a Torpignattara.”
Dimentichiamo senz’altro qualcosa, ma a questo punto avrete più o meno chiaro il clima che si respira a Torpigna da un po’ di tempo a questa parte. Ed è appunto in tale clima, che un giorno di metà settembre sui muri del quartiere compaiono i seguenti volantini:
Se—vista la dimensione lillipuziana dei caratteri—avete problemi a decifrarne il contenuto, ve lo riassumiamo noi. Si tratta di una “lettera alla dottoressa Rossella Matarazzo,” la delegata alla sicurezza del Comune di Roma. È firmata da non meglio precisati “cittadini di Torpignattara” e si intitola “I cittadini si ribellano.” A prima vista, non sembrerebbe altro che un incazzoso, ma tutto sommato legittimo riassunto dei mali che esasperano il quartiere, con conseguente preghiera di intervento perché sennò “i cittadini sono pronti alla protesta.” Alcuni particolari però tradiscono la vera natura dell’intervento. Il primo, è l’accenno al “finto buonismo e finta integrazione” che nemmeno troppo velatamente pretende di accennare a casi come la stessa scuola Pisacane, quella “multietnica, bella, sentimentale.” Poi la stoccata alle “moschee in ogni angolo di strada” (a Torpignattara le moschee sono in tutto cinque). Dopodiché si passa direttamente all’analisi geopolitica-sanitaria internazionale e alle sue ricadute su via Casilina e dintorni: “Con le frontiere aperte, gli immigrati che arrivano a Roma vengono canalizzati in particolari zone, dove gli amministratori permettono una accoglienza fuori controllo. Vista la situazione attuale di terrorismo ed epidemie, questo permissivismo assoluto è anche molto pericoloso.” Infine, debitamente in grassetto, l’appello a riaffermare “la cultura della famiglia” nonché delle “nostre tradizioni civili e religiose.”
Contemporaneamente alla lettera dei “cittadini di Tor Pignattara”, un altro manifesto invita gli abitanti del quartiere a partecipare a un’assemblea che si terrà il 16 settembre in una sala della parrocchia di via Filarete. Oggetto dell’assemblea è in primo luogo la situazione di via Filarete stessa, un piccolo ma al tempo stesso classico caso di incuria urbanistico-istituzionale (in parole povere: un anno e mezzo fa si è aperta una voragine in mezzo alla strada, la strada è stata chiusa, e da allora non è stata più riaperta. Adesso è un posto molto à la page tra i tossicomani di zona), ma il secondo punto all’ordine del giorno non può che riguardare la più generalizzata situazione di degrado del quartiere. Veniamo a sapere che quella di via Filarete è la seconda assemblea in pochissimi giorni. Poco prima, in un’altra sala parrocchiale, se ne è svolta una indetta proprio dai “cittadini di Torpignattara” autori dell’appello a “riaffermare le nostre tradizioni civili e religiose.” Si tratta di due comitati distinti, ma qualcosa ci dice che a legarli c’è qualcosa. Anche perché Torpignattara, un suo comitato di quartiere storico ce l’ha già, e di certo è un comitato assai poco incline alla retorica del rimandiamoli a casa: per la miseria, siamo pur sempre a Banglatown, no? Li rimandi a casa e che fai? I quattro quinti dei proprietari di sottoscala che affittano per 900 euro al mese i loro 40 metri quadri alle famiglie bangla, dovrebbero immediatamente dire addio alle vacanze a Terracina.
Diamo quindi uno sguardo alla pagina Facebook del “Comitato Filarete”, e tra gli amministratori, oltre al "cittadino per Alemanno" Fabio Fraticelli, troviamo anche fan dell'organo semiufficiale del M5S TzeTze e dei raffinati collage del think tank progressista Adesso Fuori dai Coglioni.
Insomma, qualcuno potrebbe obiettare che non si tratta esattamente di “semplici cittadini aperti al confronto e al contributo di tutti,” ma per capire decidiamo di andare a vedere di persona. Arrivati il fatidico giorno alla sala parrocchiale sede dell’assemblea, vestiamo subito i panni dei giornalisti imparziali a caccia di Premio Pulitzer, e ci accomodiamo su due seggiole in plastica guardandoci attorno. La sala, bisogna dirlo, è piena. Si tratta perlopiù di anziani che stoicamente sfidano l’assenza di aria condizionata, qualche commerciante, pochissimi giovani, e nessun rappresentante delle comunità immigrate, ma questo chissà com’è ce l’aspettavamo. Sul piccolo palco i relatori si preparano con una solennità che ci fa pensare a qualche seriosissimo festival di musica contemporanea. Comincia l’assemblea.
Primo punto: la voragine di via Filarete. Viene annunciato che grazie alle battaglie del neonato Comitato, i lavori di sistemazione della strada cominceranno entro fine ottobre. Boati di gioia, tripudio, la sala è in festa. Poi arriva un rappresentante del Municipio che spiega che be’, insomma, cioè, non è proprio così, forse entro fine ottobre, forse no, insomma c’è ’a legge, ’a burocrazia, sapete come funziona a Roma, no?, io vojo esse sincero, le informazioni bisogna dalle tutte, può esse come può nun esse, nun c’ha senso che ve dico 30 ottobre se poi non specifico manco il 30 ottobre de che anno (ok questa ce la siamo inventata).
Doccia fredda. La sala precipita nello sconforto. “E te pareva,” mormorano i più. Anticlimax totale.
In ogni caso, per la maggior parte della platea, la voragine di via Filarete è quasi più un pretesto che altro. Dopo appena dieci minuti, c’è già chi dal fondo della sala sbraita “e del degrado quanno se parla? E delle moschee? Questi pregano in ginocchio sul marciapiede e io nun riesco a camminà!”. L’atmosfera si surriscalda, il pubblico urla, le vecchie sòre del quartiere inveiscono contro tossici e materassi, e almeno uno dei moderatori invita e evitare gli interventi di pancia e possibilmente non farsi venire idee tipo andare alla moschea X e “spaccare tutto” (cit.), ma ormai il percorso dell’assemblea è segnato, ed è chiaro che il problema non è tanto la raccolta porta a porta dell’umido quanto “quelli lì.” In più, tutti (o quasi) chiedono più polizia. In un quartiere dove fino a trent’anni fa appena dicevi “poliz...” mezza popolazione si dileguava perché “io non ho fatto niente mai hai visto mai”, è quasi una notizia.
Gli interventi sul tema si susseguono tra urla e pure qualche sano vaffanculo, quand’ecco che sul palco appare lui:
Cioè, la foto è del giorno dopo ma poi vi spieghiamo. Intanto diciamo che questo signore: è il portavoce del Comitato Cittadini di Torpignattara, quelli della lettera che chiamava il popolo di Torpigna alla difesa dei valori della famiglia per difendersi dai terroristi e dall’ebola. Esordisce mettendo innanzitutto in chiaro che lui “non è razzista ma” (formula di un certo successo per tutto il corso della serata), e poi tanto per mettere i puntini sulle i tranquillizza tutti che non è manco fascista, ci mancherebbe (alla fine dell’intervento, ribadirà il concetto declamando il noto motto libertario “o con noi o contro di noi”). La sua oratoria è comunque efficace, l’aria affabile e lo sguardo simpatico gli procurano immediati consensi, ma bisogna anche ammettere che il resto degli interventi non è che brillino in profondità d’analisi. È più una sequela di rimostranze esasperate e rabbia che tracima da tutti i pori, il ritratto esacerbato di una comunità che si sente impotente dinanzi a un quartiere che non riconosce come più suo. Alcuni interventi sono strampalati, altri non vanno oltre il “sono stufo/me so’ rotto/mo’ basta”, ma al di là di facili ironie, una cosa è chiara: la gente è proprio incazzata. Ma incazzata nera.
Ancora dal fondo della sala (covo dei più facinorosi) finalmente qualcuno parla chiaro e dice una volta per tutte che “il problema so’ i negriii!”, al che da bravi reporter in missione schizziamo in piedi e andiamo taccuini al seguito a registrare la testimonianza.
È una signora dall’aria abbastanza giovanile, e ovviamente ha le idee molto chiare sui veri colpevoli del disastro-Torpignattara: a parte i negri, ci sono pure “i trans” e poi “gli ubriaconi”. Questa focosa pasionaria di quartiere ci mette anche a conoscenza delle sue proposte per migliorare la situazione, perché lei mica è una che protesta e basta. Sono proposte che volentieri raccogliamo e rilanciamo alle istituzioni, che di questi tempi potrebbero anche trovarle sensate:
Il problema, ragiona lei, è che “’sti negri vengono tutti qua. Tutti a Torpignattara. E non è mica giusto. Che se li dovemo tené tutti noi?”. E quindi?, incalziamo noi. “E quindi il Comune dovrebbe pensà a ripartirli pe’ tutto il territorio de Roma. Un tot di negri in proporzione, diciamo un certo numero per ogni quartiere. Sennò poi qui so’ troppi e ai Parioli so’ troppo pochi.” Vedi a non averci pensato prima.
Mentre ragioniamo su come convincere le varie comunità immigrate a stabilire chi tra loro sarà costretto ad abbandonare Torpignattara per raggiungere il quartiere-ghetto di Parioli a bordo di un carro piombato, la situazione degenera. Proprio noi, i compassati reporter che per un’incredibile botta di culo si trovano pre le mani roba da Pulitzer senza manco essersi spostati di casa, veniamo trascinati in un violento alterco con un anziano signore che ci accusa di non essere del quartiere e di stare lì solo per provocare, “perché io appena vi ho visto l’ho capito subito de che parrocchia siete.”
Ma il vero problema è che a questo punto sul palchetto della sala hanno preso a intervenire tizi giovani e meno giovani che sul quartiere hanno idee eufemisticamente eretiche visto il contesto generale: quando una ragazza mette in chiaro che lei più polizia non ce la vuole, viene fulminata dallo sguardo degli stessi moderatori sul palco. Quelli che propongono di ripartire dal modello-Pisacane, rimediano perlopiù sbuffi insofferenti (ma anche qualche sporadico applauso). E quando un anziano signore fa notare che a Torpignattara il problema più che gli immigrati sono le “cosche mafiose”, viene bellamente schernito e deriso da buona parte della platea.
Quando poi l’assemblea ha palesemente raggiunto il punto di non ritorno e la sala rimbomba soltanto di grida, insulti e bestemmie, l’incontro viene dichiarato sciolto e i protagonisti si accingono a lasciare in fretta l’aula. Incrociamo il portavoce dei famigerati Cittadini di Torpignattara e già che ci siamo proviamo a fargli qualche domanda:
“È lei quello della lettera ’I cittadini si ribellano’?”
“Sì, so’ io. Io e altri due.”
“Nel senso che siete in tutto tre?”
“Nel senso che l’abbiamo scritta in tre.”
“E in tre vi siete firmati i cittadini di Torpignattara? Non le sembra esagerato?”
E qui la sua amichevole aria da buontempone evapora. Tentiamo lo stesso il dialogo.
“Può spiegarci che c’entra la difesa dei valori della famiglia con la voragine di via Filarete?”
“C’entra, c’entra, c’entra tutto. Adesso però annatevene.”
“Volevamo soltanto capire.”
“Ho già capito de che parrocchia siete.”
“Ma siamo abitanti del quartiere; il suo è un comitato aperto, giusto?”
“Co’ voi nun ce parlo.”
Ci voltiamo e quando ci troviamo davanti un bel ragazzone con croce celtica al collo, decidiamo che abbiamo raccolto abbastanza informazioni e che i giurati del Pulitzer ci perdoneranno se per il momento sospendiamo l’indagine. Anche perché si è pure fatta ora di cena.
Abbandoniamo via Filarete in uno stato di depressione mista a tristezza. Tristezza autentica, intendiamoci. Da un’assemblea a Torpignattara non è che ci aspettassimo la riunione del Rotary, ma nemmeno un tale concentrato di collera, frustrazione, bile e razzismo esibito. Ci chiediamo anche quanto l’incontro sia rappresentativo degli umori del quartiere, e decidiamo che, almeno in parte, chi l’ha organizzato non ha fatto altro che dare voce a un sentimento diffuso e almeno in parte condiviso tra i cosiddetti “autoctoni”, se non altro di vecchia generazione. Ma è anche vero che chi ha organizzato l’incontro, non ha fatto nulla per stemperare i toni vieppiù biechi dell’assemblea.
Il sito Il Corviale – Giornale delle periferie, sembra dare conferma alle nostre impressioni in un articolo che poi altro non è che la cronaca dell’assemblea precedente a quella di via Filarete, svoltasi il 13 settembre nella parrocchia di S. Barnaba: “la riunione è stata condotta, in spregio a qualsiasi norma democratica e di civiltà, per ottenere il consenso su un documento dai chiari contenuti xenofobi [...] La lettera aperta—già consegnata al Sindaco a nome degli ignari cittadini e letta ad essi solo a posteriori—evita accuratamente di dire che il traffico di cocaina, la prostituzione, l’usura, il riciclaggio di denaro sporco, il proliferare delle sale scommesse [...] a Torpignattara non sono altro che l’esito di azioni di criminalità organizzata italiana di stampo mafioso. E l’occultamento di questa verità serve ad addossare la responsabilità del degrado alla presenza degli immigrati.” La presenza in quartiere di attività direttamente legate alla criminalità organizzata viene ribadita in un altro articolo, sempre del Corviale, datato 11 settembre: si intitola “Torpignattara, laboratorio della nuova cupola romana” e fa riferimento alla nota inchiesta di Liro Abbate per L’Espresso, quella eloquentemente intitolata “I fasciomafiosi alla conquista di Roma.”
Stando all’inchiesta di Abbate, da qualche tempo Roma sta conoscendo “un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera […]. Una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti.” Per questa Cupola Nera, stando al Corviale, Torpignattara è “uno dei territori prescelti […] per gestire le attività criminali."
Venendo a noi, quello che finora non siamo riusciti a decifrare è proprio il parere di quelli lì, vale a dire delle comunità di stranieri residenti nel quartiere. Il giorno dopo l’assemblea di via Filarete decidiamo quindi di farci un giro in zona per scambiare due chiacchiere con commercianti, gestori di bar, di alimentari, di phone center, tutti a conduzione straniera. Sono la grande maggioranza degli esercizi del quartiere e per forza di cose abbiamo una certa consuetudine con frutterie bangla, casalinghi cinesi e minimarket dell’Est Europa: il nostro percorso prevede quindi un bar di via di Torpignattara gestito da bengalesi (dove prendiamo un succo di guava); un ristorantino senegalese dalle parti di via della Marranella (dove ci facciamo preparare un ottimo mafe); un minimarket rumeno su via Casilina (dove proviamo delle salsicce carnati cabanos); un ristorante cinese ancora sulla Casilina (dove gustiamo due polpettine di polpo); un bar eritreo di nuovo alla Marranella (dove ci servono una Amber Beer etiopie e dove ci dilunghiamo con un avventore della Guinea in disquisizioni sul rap dell’Africa Occidentale); infine, una frutteria ancora una volta bangalese, in cui il proprietario ci racconta del suo gruppo death metal, i Motherland, così chiamato in ricordo del Paese d’origine da tanto tempo abbandonato. Ah, qui ci limitiamo a una Nastro Azzurro da 33cl (ormai eravamo sazi).
La prima domanda che a tutti poniamo, è la stessa: come ti trovi a Torpignattara? E la risposta è, tendenzialmente, sempre uguale: bene, più o meno. Certo, il quartiere è sporco, servito male, illuminato peggio. Certo, c’è la crisi, i soldi sono pochi, i negozi chiudono. Certo, ogni tanto scoppia un litigio, una rissa, qualche volta pure i coltelli. Certo, ogni tanto gli italiani si lasciano andare a commenti razzisti. Però insomma, si tira avanti. I romani sono simpatici. Gli abitanti del quartiere sono accoglienti. Quasi tutti. Va bene, qualcuno no. Qualcuno è proprio testa di cazzo, anche. Ogni tanto nei discorsi affiorano latenti tensioni interetniche: il nostro amico bangla-metal, si lamenta dell’atteggiamento aggressivo dei marocchini; un rumeno ci indica i bangla del bar davanti e ci dice che “puzzano”. Ma subito commenti del genere vengono tenuti a bada da un’infinita fila di rettifiche e precisazioni: i bangla puzzeranno pure, ma sono lavoratori seri, si danno da fare, e poi che vuoi farci, sono poveri, stanno messi male, vivono in quindici in appartamenti di 50 metri quadri e gli italiani che gli affittano casa se ne fregano. Le risse: soliti scazzi tra ubriachi. Torpignattara sporca: non è che il resto di Roma sia messa granché meglio. I commenti razzisti: roba da poveracci per i quali il mondo di riduce al loro quartiere, il posto più lontano dove sono stati è la Puglia ma giusto per andarci al mare, a gente così che gli vuoi dire?
Non sarà il ritratto bucolico della serena convivenza tra culture, ma più o meno è una prospettiva ottimista. Un pizzico rassegnata (la crisi, la congenita stronzaggine di taluni rappresentanti della razza umana), ma senza punte di acredine o risentimento. Solo che abbiamo come l’impressione che i nostri interlocutori si trattengano, che tanto equilibrio nei giudizi sia frutto più di convenienza che di convinzione. Quindi decidiamo di fare un salto alla moschea di via Serbelloni e parlare con l’imam locale: è il principale riferimento religioso della comunità musulmana (bengalese ma non solo) e magari ha una visione più complessiva dei rapporti nel quartiere.
Lui si chiama Rahman Mizanur e viene ovviamente dal Bangladesh (ci informa anzi che i bengalesi a Torpignattara sono circa 8.000, una cifra che se confermata equivarrebbe a circa un quinto della popolazione totale). La sua moschea è una specie di ex garage sistemato alla bell’e meglio, e da qualche tempo c’è chi suggerisce (anche tra la popolazione “autoctona”) la costruzione in quartiere di una vera moschea, ma l'imam non ci spera granché e in fondo va bene così.
Per quanto anche lui si affretti a sottolineare la convivenza pacifica con la stragrande maggioranza del quartiere, bastano poche domande per fargli snocciolare una lunga serie di piccoli soprusi, angherie, condomini che gettano sassi dai balconi, ragazzini di sedici anni che prendono a botte i frequentatori della preghiera all’alba. Ogni tanto, qualcuno di questi episodi viene denunciato. La più parte delle volte, no. Attribuisce il montante sentimento razzista alla crisi, alla mancanza di lavoro, alla povertà diffusa. È preoccupato dalle voci sull’ISIS che recluterebbe miliziani in zona, perché non vorrebbe ritrovarsi nella stessa situazione del dopo 11 settembre, quando fu aggredito da un gruppo di giovani che lo chiamavano “Bin Laden”. È cosciente di una certa islamofobia strisciante, ma per lui cristiani, induisti, musulmani eccetera sono “tutti uguali”, in passato ha collaborato con un prete cattolico in zona Esquilino, ha organizzato una raccolta fondi per i terremotati dell’Aquila, insomma, vuole stare tranquillo e spera che stiano tranquilli pure gli altri. Sa che in zona si sono tenute assemblee diciamo così “accese”. Sa anche che un’altra assemblea è prevista per la sera del 17 settembre. È stata indetta del Comitato di Quartiere Torpignattara “storico”, e per tutto il giorno su via Casilina e dintorni si rincorrono voci da resa dei conti, da scontro finale, per certi versi anche da ultima spiaggia. Ovviamente, noi prevediamo di andarci. E infatti il 17 sera ci andiamo.
L’assemblea è partecipatissima e si apre con un dichiarazione che da sola ribalta gli umori largamente profusi nel corso dell’incontro del giorno prima: il “rifiuto di qualsiasi atteggiamento xenofobo, razzista, omofobo” da parte degli organizzatori e di conseguenza dei convenuti che accettano di partecipare al confronto. C’è anche una nutrita rappresentanza di cittadini immigrati, e l’età media dei partecipanti è sensibilmente più bassa di quella vista al Comitato Filarete. Riconosciamo diverse facce già presenti alla precedente assemblea, e ovviamente c’è anche il nostro amico portavoce dei Cittadini di Torpignattara. Quando la rappresentante del Comitato di Quartiere Torpignattara legge la dichiarazione iniziale, lui annuisce convinto: l’aveva già detto che non era razzista, no?
Chiaramente, non è che l’assemblea del 17 settembre sia una solenne dichiarazione di amore universale alla fine delle quale i convenuti vengono invitati a intonare un Om. I toni si fanno concitati quasi da subito, il “non sono razzista ma” echeggia alla grande, e una signora a un certo punto se la prende apertamente con la Pisacane, provocando la reazione infuriata delle mamme che in tale scuola lavorano. Però cavoli, restiamo ammirati dalla determinazione di certi interventi e, per una volta, dalla lucidità delle argomentazioni.
Quando Flavio, uno dei rappresentanti del Comitato Certosa, parla apertamente di “classismo” da parte delle istituzioni e del fatto che il Comune evidentemente non tiene nella stessa considerazione Torpignattara e Parioli (perlomeno fino a quando a Parioli non arriveranno i carri piombati suggeriti dalla signora del giorno prima, supponiamo), quando sempre Flavio ricorda le retate della polizia di Alemanno contro le prostitute facendo notare che in capo a un anno le prostitute sono triplicate, quando all’espressione “quartiere multietnico” accompagna la formula “tre marce in più”, insomma, quando Flavio chiude l’intervento scatta un boato di approvazione da stadio, sul serio. E quando ce ne andiamo dall’assemblea—la seconda in 24 ore, e un’altra è prevista per due giorni dopo—i commenti sono tutti ottimisti, felici; il senso più o meno è: Torpignattara sarà pure una bomba a orologeria ma non è detto che debba esplodere. Magari le lancette si inceppano. Magari da questo inconsulto coacervo di fasciomafiosi, criminalità, ammazzamenti, razzismo, scritte dell’ISIS e islamofobia alla fine viene fuori qualcosa di decente. Il modello-Pisacane è ancora il riferimento chiave, quello più citato, in poche parole quello su cui (quasi) tutti sperano. C’è quasi aria da
“lieto fine”, diciamo.
Poi venerdì mattina ci svegliamo, e troviamo il buon Tso che ci linka un articolo di giornale. Il titolo recita così: “Roma, ucciso a botte in una lite di strada.”
Il Messaggero riporta: “Un ragazzo pakistano di 28 anni è stato ucciso a pugni da un 17enne romano, nel quartiere di Torpignattara. Tutto per uno sputo. L’assassino è un minore: un ragazzino romano di 17 anni che risiede con la famiglia nella zona dove ha ucciso a pugni un pakistano di 28 anni, Khan Muhamad Shanzad, Khan Muhamad Shanzad.” Repubblica ci informa che per ora è “escluso il movente razziale.” Il romano diciassettenne autore del gesto, si verrà a sapere poi, sbi chiama Daniel.
La reazione del quartiere alla notizia vale da sola come riassunto di questa settimana di assemblee, incontri, tensioni, litigi, scontri: nelle stesse ore in cui le mamme della Pisacane organizzano un simbolico "abbraccio collettivo come risposta alle difficoltà che sta vivendo il quartiere," altri cittadini organizzano un sit in di risposta all'omicidio del ventottenne pakistano. Solo che gli striscioni, i cori, gli attestati d'affetto, non sono per la vittima. Sono per Daniel. Quello di venerdì scorso non è stato un omicidio: è stato "un incidente." Roba che capita. Uno striscione recita: "Una disgrazia non ti priverà della tua libertà - Forza Daniel." E per ribadire ancora una volta che, figuriamoci, qui non è di razzismo che si deve parlare, in cima allo striscione lo spray nero mette in chiaro: "No razzismo - No diversità." Sulla sinistra, una svastica viene barrata a mo' di divieto. Solo che la svastica è disegnata al contrario.
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Le foto sono di Niccolò Berretta
dal sito http://www.vice.com/it/
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