LA GUERRA DI PETRO
di Andrea Ferrario
Una ricostruzione degli sviluppi militari in Ucraina dall’operazione russa in Crimea e nell’Ucraina orientale fino a oggi, con una particolare attenzione per la fallimentare strategia di Poroshenko e dei vertici militari ucraini. Le conseguenze della disfatta sono in questi giorni oggetto di svariati commenti degli osservatori, di cui presentiamo una selezione nella seconda parte di questo articolo.
La scelta fatta dal presidente ucraino Petro Poroshenko poco dopo la sua entrata in carica di percorrere la via di un’azione militare a tutto campo in risposta alle azioni dei separatisti del Donbass si è rivelata un completo disastro, sia sul piano dei combattimenti sia su quello politico e umanitario. Prima di passare nei prossimi giorni ad analizzare altri aspetti del conflitto in Ucraina, che sta vivendo evidentemente un suo momento cruciale, tra le altre cose con la firma ieri di una tregua tra Kiev e le “repubbliche popolari”, ci sembra utile ripercorrere l’evoluzione nel tempo dell’opzione militare percorsa da Kiev in seguito
Marzo: la Crimea e l’impreparazione dell’esercito ucraino
Dopo la fine di Maidan (22 febbraio) e la fuga in Russia di Yanukovich la situazione in Ucraina ha dovuto fare i conti pressoché immediatamente con l’opzione militare. Solo quattro giorni dopo tale data, cioè nella notte tra il 26 e il 27 febbraio, la Russia è intervenuta militarmente in Crimea attraverso gli “omini verdi” (soldati e mezzi militari di Mosca senza insegne, come poi confermato dallo stesso Putin che allora invece negava ogni coinvolgimento della Russia). Con un referendum organizzato in fretta e furia e senza alcun controllo democratico, la Crimea è stata poi annessa da Mosca in un paio di settimane, il 16 marzo. Allora non vi era stata alcuna reazione da parte dell’esercito ucraino, che non aveva opposto resistenza e si era in pratica ritirato dalla regione nel giro di pochi giorni. Sono circolate svariate interpretazioni dietrologiche di questo comportamento di Kiev, mai comunque supportate da seri indizi. Rimane il fatto che il governo ucraino non era assolutamente in grado di rispondere all’inattesa e perfettamente organizzata azione di Mosca. Da una parte c’era un grande vuoto politico, dovuto alla caduta del regime e alla presenza di un governo insediatosi solo da alcuni giorni. Dall’altra l’esercito ucraino non disponeva certo della capacità di fronteggiare l’operazione russa: il regime di Yanukovich infatti negli anni aveva scelto di rafforzare gli organi repressivi interni (tutti pesantemente infiltrati dalla Russia, in particolare la SBU, i servizi di sicurezza) a scapito dell’esercito – come scrive “Le Monde” del 6 settembre, “solo il 10% degli 800.000 uomini delle forze armate ucraine era pronto al combattimento prima del conflitto [...] e solo 500 uomini erano immediatamente ‘utilizzabili’ nel momento in cui i primi gruppi armati hanno fatto la loro comparsa nell’Est del paese”. Infine, l’Ucraina non ha ricevuto alcun sostegno concreto da parte dell’Occidente a livello militare o diplomatico.
Aprile: le occupazioni e i primi insuccessi dell’ATO
In breve tempo, a inizio aprile, si è aperto un altro capitolo militare. Nel fine settimana del 6-7 settembre con azioni perfettamente sincronizzate squadre di qualche decina o centinaia di uomini locali, in alcuni casi armati in altri no, hanno occupato gli edifici amministrativi dei principali centri urbani dell’Est del paese, in particolare a Lugansk, Donetsk e Kharkov. Solo in quest’ultima città le forze di sicurezza ucraine hanno effettuato un rapido sgombro, astenendosi dall’intervenire altrove. Appena una settimana dopo, il 12-13 settembre, altri “omini verdi” anonimi provenienti dalla Crimea (più tardi sarà chiarito che si trattava di gruppi di militari di Mosca comandati da un ex agente dei servizi segreti russi, il moscovita Igor Strelkov) hanno occupato militarmente con azioni lampo una decina di centri abitati dalle dimensioni comprese tra poco meno o poco più di 100.000 abitanti, come in particolare Slavyansk. In alcuni casi vi è stata un’opposizione spontanea da parte di settori degli abitanti locali (come a Krasny Liman, a Kramatorsk e nella stessa Slavyansk), subito soffocata con metodi violenti e instaurando poi un regime di terrore contro gli oppositori. Nei giorni successivi il governo di Kiev ha avviato la cosiddetta “operazione antiterroristica” (ATO). In un primo momento ha cercato di “liberare” alcuni dei centri minori che erano stati occupati militarmente dai russi (con il supporto di membri della nomenklatura locale), ma l’insuccesso è stato totale. A fine aprile, per esempio, un convoglio dell’ATO entrato a Kramatorsk si è fermato “passando dalla parte” dei separatisti. In realtà, come è emerso dopo, due comandanti che gestivano l’operazione avevano preorganizzato la teatrale resa e i soldati non sono passati dalla parte dei separatisti, bensì sono semplicemente stati contenti di tornare alle loro caserme senza avere dovuto combattere. Si è trattato comunque di un episodio umiliante per il governo ucraino.
Maggio: il salto di qualità a livello militare
A maggio la situazione si è ulteriormente evoluta. I separatisti si sono meglio organizzati sul terreno, hanno cominciato ad apparire uomini armati anche nei grandi centri urbani e hanno dimostrato di disporre di armamenti sempre migliori abbattendo svariati elicotteri dell’esercito ucraino. L’ATO (che fino a giugno è stata gestita pressoché in toto dal Ministero degli interni guidato dal “duro” Arsen Avakov) ha cominciato da parte sua a integrare i cosiddetti “battaglioni privati”, cioè battaglioni di volontari finanziati da oligarchi e altri businessmen, in alcuni casi con l’appoggio di neofascisti, e ha progressivamente ampliato il teatro delle proprie operazioni. La qualità delle sue azioni tuttavia non è cambiata, come testimonia il tragico caso di Volnovakh, dove per un’ingenuità dei comandanti e dei soldati semplici il 22 maggio sono stati uccisi in un’imboscata 17 uomini di Kiev. Il vero salto di qualità nel conflitto lo si è avuto però il 26 maggio, il giorno dopo le elezioni presidenziali che hanno portato Poroshenko ai vertici dello stato. I separatisti hanno tentato di conquistare militarmente l’aeroporto di Donetsk e l’esercito ucraino ha risposto per la prima volta utilizzando aerei, infliggendo dure perdite ai ribelli, tra le cui fila per la prima volta sono apparsi pubblicamente molti “volontari” provenienti dalla Federazione Russa. Qualche giorno dopo i separatisti hanno cominciato ad attaccare il confine con la Russia nei pressi della città di Lugansk con l’obiettivo di aprire un corridoio diretto di rifornimenti. E’ in quei giorni che il conflitto è passato dalla serie di occupazioni e dai tentativi di controrisposta delle forze ucraine a una vera e propria guerra con uso di mezzi pesanti e dell’aviazione. Ed è nello stesso periodo che intorno a Slavyansk è stato stretto un vero e proprio assedio.
Giugno: arriva Poroshenko e l’ATO diventa operazione a tutto campo
Poroshenko è stato eletto al primo turno delle presidenziali con un ampio mandato. Visto il degenerare della situazione sul terreno molti ucraini hanno deciso di concentrare il voto su di lui sperando di riempire così il vuoto di potere successivo a Maidan, portando alla guida dello stato un uomo in grado di fronteggiare Putin. In realtà il termine “fronteggiare” non implica per forza l’opzione militare, dato che Poroshenko da questo punto di vista non sembrava avere un profilo idoneo. Si tratta infatti di un oligarca attivo nel settore alimentare e dei media che, come molti suoi colleghi, ha cambiato più volte colore politico. In particolare, il fatto che sia stato per un certo periodo ministro sotto Yanukovich e sia stato quindi più volte in visita al Cremlino aveva fatto pensare a molti (compreso il sottoscritto) che sarebbe stato l’uomo maggiormente adatto a un compromesso con la Russia. Poroshenko si è invece mosso diversamente, dando nuovo impulso all’ATO, nominando uomini a lui molto vicini ai vertici dell’esercito e del ministero della difesa e scegliendo l’opzione militare, in un primo momento svariati successi. A metà giugno è stata infatti riconquistata pressoché senza colpo ferire la città di Mariupol e alla fine dello stesso mese c’è stata una breve tregua che però, ampiamente violata da entrambe le parti, il presidente ha deciso di non prorogare.
Luglio: l’illusione di una vittoria vicina
Il 5 luglio è giunta l’inattesa caduta di Slavyansk, vera e propria roccaforte dei separatisti e in particolare della loro ala militare. I filorussi hanno improvvisamente abbandonato la città praticamente senza sparare e senza essere oggetto di fuoco, particolari che fanno pensare a un accordo tra le parti. Come si è rivelato poi per le forze ucraine si è trattato di una micidiale trappola. I separatisti non si sono limitati a spostarsi nelle città vicine, ma hanno ripiegato fino a Donetsk lasciando liberi molti altri centri che occupavano, seguiti dalle forze di Kiev che alla fine hanno circondato anche la “capitale” del Donbass. Più a est, l’esercito ucraino avanzava in contemporanea verso Lugansk, stringendola in un assedio non completo, visto che i separatisti sono riusciti a mantenere un fondamentale corridoio con il vicino confine russo. Kiev riusciva a riconquistare numerosi punti di confine con la Russia, che però poi avrebbe nuovamente da lì a poco. Per breve tempo l’esercito ucraino è riuscito anche a tagliare il corridoio tra Donetsk e Lugansk, anche se in modo sempre molto instabile. Luglio e agosto sono stati i mesi in cui nel resto dell’Ucraina si è diffusa una vera e propria “euforia patriottica” in un primo momento limitata a settori del tutto minoritari ma che poi, sapientemente alimentata ad arte con toni isterici sia dai grandi media che dai politici, ha ottenuto un’adesione di massa. In quel momento sembrava a portata di mano una “liberazione” per via militare dell’Ucraina orientale, l’impressione era che sarebbe bastato attendere la caduta di Donetsk e di Lugansk ormai assediate e soggette a crescenti bombardamenti. Inoltre a Slavyansk e Mariupol la popolazione non si era assolutamente mobilitata contro gli “invasori” di Kiev che ne avevano ripreso il controllo, anzi, aveva in larga parte accolto con favore la fine dei combattimenti e delle angherie dei separatisti.
Agosto: la disfatta
In realtà è stato in questo momento che, come dice il senno di poi, è iniziata la disfatta di Kiev. Conquistare Donetsk e Lugansk per via militare era impensabile, ma nonostante questo l’esercito ucraino le ha assediate lasciando sguarniti altri fronti, sia a sud che a nord. Il controllo dei punti di frontiera, comunque presto riperso, si è rivelato più un successo di immagine che altro, visto che nei lunghi spazi non controllati (e non controllabili se non con un enorme numero di uomini di cui Kiev non dispone) lungo un confine interamente “piatto” continuavano a transitare armi e uomini provenienti dalla Russia. L’inutile assedio di Donetsk e Lugansk si trasformava in un’operazione criminale con bombardamenti discriminati e privi di razionalità militare che causano moltissime vittime tra la popolazione civile (anche se a Lugansk vi è una chiara corresponsabilità criminale dei separatisti, conseguente sia ai combattimenti tra diverse loro fazioni per il controllo della città , che alla tattica dei separatisti di aumentare la portata della tragedia che a loro conveniva sia per motivi di immagine, sia per stringere attorno a sé una popolazioni altrimenti in massima parte indifferente). Il numero dei profughi ad agosto aumentava in modo esponenziale fino ad arrivare a centinaia di migliaia, senza contare che quelli rifugiatisi in altre aree dell’Ucraina sono stati oggetto di una campagna mediatica di disprezzo che ha aperto nuovi fossati per il futuro del paese. Inoltre, la scelta di fare un ampio ricorso ai “battaglioni privati” ha rinforzato sì a livello puramente numerico gli effettivi di cui disponeva Kiev, ma ne ha indebolito la capacità di controllo delle operazioni, oltre a metterla in balìa di progetti politici pericolosi come quelli dell’oligarca Igor Kolomoyskiy e dell’estrema destra. E infine l’errore più grosso: quello di ignorare che i separatisti erano sì pochi, divisi e isolati dalla popolazione, ma avevano alle loro spalle la potenza militare, logistica e di intelligence della Russia, di dimensioni infinitamente più grandi. Ignorarlo, tanto più quando l’Ucraina non era riuscita a ottenere alcun tipo di aiuto militare da parte dell’Occidente, è stato una vera e propria follia. Il risultato, dopo un’impasse militare a partire da fine luglio, è stato quello della disfatta degli ultimi giorni, con le ritirate precipitose e disastrose (anche in termini di vittime e di perdite di mezzi militari) da quasi tutti i fronti, con il contemporaneo intervento della Russia e l’apertura del fronte sud che, in presenza delle pietose condizioni materiali e psicologiche in cui si trova l’esercito ucraino, potrebbe arrivare in teoria a congiungersi con la Crimea e addirittura con la Transdnistria.
Ecco come Pavel Felgengauer, sulle pagine di “Novaya Gazeta” , riassume gli ultimi sviluppi militari prima della tregua:
“Dopo che i separatisti hanno cominciato a disporre di una contraerea efficace, l’aviazione ucraina non ha più potuto intervenire nelle operazioni di combattimento. Ma le forze dell’ATO hanno continuato ostinatamente a battersi, ritrovandosi chiuse in anguste sacche che offrivano al nemico un’occasione praticamente già pronta per accerchiarle, strette come erano tra il confine russo e le forze delle autoproclamate repubbliche. La speranza ingenua delle forze ucraine era quella di trasformare questi corridoi in salde linee di assedio portando a termine i combattimenti su larga scala entro l’autunno. Dopo un ripetuto e sanguinoso assalto, il 18 agosto i combattenti dell’ATO hanno conquistato la cittadina di Ilovaysk, chiudendo di fatto l’anello dell’assedio di Donetsk. Ed è stato proprio in questo momento decisivo, il 24-25 agosto, che è cominciato un improvviso e potente contrattacco russo contro le retrovie e i fianchi di un nemico dalle forze ormai consumate. Reparti scelti delle truppe aerotrasportate, rafforzate da forze speciali, dall’artiglieria dell’esercito, da sistemi di fuoco a salva e da carri armati hanno inflitto nella regione di Ambrosevka e in corrispondenza della strategica altura di Saur-Mogila una totale disfatta al gruppo operativo “Sud” (settore “B”) dell’esercito ucraino. Stretti in una sacca e confusi dall’inatteso contrattacco, i battaglioni di volontari ucraini sono stati circondati a Ilovaysk. Qualcuno è riuscito a sfuggire all’accerchiamento scappando per la steppa. Altri si sono arresi e la maggior parte di loro (fino a 700 uomini) è stata scambiata praticamente subito con nove paracadutisti russi che erano stati catturati dagli ucraini all’inizio del contrattacco russo (probabilmente perdutisi nella steppa durante le operazioni di guerra). Le forze aerotrasportate della Russia per ora non prendono parte direttamente ai combattimenti nel Donbass, ma l’artiglieria e i sistemi di fuoco a salva garantiscono un assoluta superiorità di fuoco. Ci sono numerose testimonianze secondo cui sul Donbass volano droni russi di produzione israeliana Searcher. I droni consento di correggere con efficacia il tiro e di “vedere” la situazione operativa di giorno e di notte. Gli ucraini (e i separatisti) non dispongono di droni di questo tipo. Nel Donbass sono stati inviati gruppi di battaglioni tattici russi formati da soldati a contratto, anche se ci sono informazioni secondo cui una parte di questi soldati sono in realtà soldati di leva costretti a firmare un contratto, ma non importa, la Russia non dispone attualmente di soldati migliori da utilizzare. Al contrattacco naturalmente prendono parte anche forze dei separatisti, ma solo con un ruolo ausiliare: operazioni di accerchiamento, di pulizia del terreno, posti di blocco, “lavorazione” dei prigionieri ecc. Questi separatisti negli ultimi tre mesi hanno dimostrato di essere un’accozzaglia di uomini armati male organizzati, e il problema non consiste solo nella qualità dei combattenti, quanto soprattutto negli autoproclamati e incapaci comandanti, nonché nella piena assenza di ogni conoscenza di come funziona un comando militare. I separatisti non sono, e non saranno mai, capaci di organizzare autonomamente un’operazione di attacco a tutto campo. Naturalmente i dirigenti russi si battono il petto dichiarando che Mosca non partecipa in alcun modo ai combattimenti nel Donbass, come se i separatisti, per un miracolo mai visto prima nella storia mondiale, fossero riusciti a trasformarsi in un paio di giorni in un esercito regolare. Intanto gli uomini uccisi in questa guerra segreta e bugiarda vengono sepolti in segreto, come se fossero terroristi. [...] I separatisti sono ormai a solo una ventina di chilometri dal principale porto del sud, quello di Mariupol. Le forze ucraine si stanno ritirando da Lugansk verso Severskiy Donets e l’1 settembre hanno abbandonato l’aeroporto di Lugansk, che controllavano da maggio. In questo aeroporto ora potranno essere dislocate le “forze aree della Nuova Russia”, formate con gli aerei sottratti agli ucraini, che ora quindi non sono più in grado di organizzare attacchi efficaci”.
L’Ucraina si trova così ad affrontare l’autunno e l’inverno in una posizione disastrosa: esercito in rotta, separatisti appoggiati militarmente dalla Russia e che potrebbero spingersi al di là del Donbass, ampie aree del paese distrutte, un’economia al collasso e una situazione finanziaria da default, forniture di gas russo completamente sospese mentre ormai la stagione del riscaldamento è alle porte. L’ultimo sondaggio elettorale effettuato tra il 23 agosto e il 2 settembre dà sempre il partito di Poroshenko ampiamente primo (37% dei voti tra chi intende recarsi alle urne), seguito dal Partito Radicale (populisti di destra) di Lyashko (13,1%), dal partito “Posizione Civica” di Gritsenko (9,7%), da Ucraina Forte di Tigipko (7,8%), dal nuovo partito “Patrioti Ucraini” del premier Yatsenyuk (6,4%) e da Batkivshtina di Timoshenko (6,1%). Sotto la soglia del 5% tutti gli altri, dal Partito Comunista (4,6%), al Partito delle Regioni (3,8%) all’estrema destra di Svoboda (4,4%) e del Pravy Sektor (1,8%). Ma gli effetti della disfatta sul partito di Poroshenko si faranno evidentemente sentire più avanti.
Le valutazioni di alcuni osservatori
Sul tema della conduzione della guerra sul lato di Poroshenko e sulle possibili conseguenze della sua disfatta hanno scritto in questi giorni molti esperti – non sempre condividiamo le loro opinioni, ma ci sembra interessante comunque riportare una breve rassegna dei principali punti di vista formulati in questi giorni.
Sul sito di “BBC Russia” , Vladimir Pastukhov afferma che il presidente ucraino ha commesso il fondamentale errore di ritenere che i “fattori esterni” (per esempio le sanzioni di Usa e Ue) avrebbero portato Putin ad astenersi dall’intervenire direttamente in Ucraina, sottovalutando quindi la portata della strategia di Mosca. Inoltre, nel condurre l’operazione militare Poroshenko non si è mai curato di accompagnarla con qualche forma di piano concreto per il futuro del Donbass, perdendo così credibilità presso la popolazione locale. Secondo Pastukhov, Putin da parte sua conta sul fatto che nessun paese occidentale intende farsi coinvolgere seriamente in una guerra per l’Ucraina e ritiene che il repertorio di “sanzioni leggere”, quelle cioè che riescono a colpire la Russia in misura maggiore delle sue possibili ritorsioni, si sia ormai esaurito.
“La Russia”, scrive il commentatore della BBC, “non è l’Iran, è molto più grande e non è possibile ‘isolarla’. Ed è ancora più difficile farlo senza danni per l’economia globale, che si trova già sull’orlo di una crisi. L’Occidente sopravvaluta fortemente le proprie possibilità. E’ vero che l’economia russa è in stagnazione, ma può rimanere a galla ancora a lungo tempo”.
Sul lato ucraino, prosegue, “la crisi economica si sta rivelando per Kiev un nemico non meno pericoloso della Russia”: è impossibile prevedere come il paese uscirà dal prossimo inverno e quale profilo politico e statale avrà. Pastukhov ritiene però che alla fine anche la Russia avrà la sua “primavera” a causa della sua debolezza interna e che l’Occidente, per ora ancora incapace di reagire, cambierà posizione. Mentre adesso continua a pensare che il regime di Putin rappresenti il minore dei mali, finché mantiene la stabilità all’interno di uno stato che copre un settimo della superficie terrestre mondiale, domani di fronte all’evoluzione della situazione nell’area ex sovietica potrebbe cambiare idea e cominciare a pensare che in realtà è il caos in Russia a essere il minore dei mali, trovando magari un consenso su questa visione anche in Asia.
Aleksey Makarkin, sul sito Slon , commenta la firma della recente tregua sottolineando che non è chiaro come ne verrà verificato il rispetto, né cosa esattamente possa essere definito una violazione della tregua: “Ora una parte del territorio è controllata dagli ucraini, un’altra dalle repubbliche, mentre ci sono territori in cui non ci sono forze armate. Cosa succederà se, per esempio, un rappresentante delle repubbliche dovesse arrivare in un centro abitato di questi territori per togliere la bandiera ucraina e sostituirla con la propria? Verrà considerata una violazione della tregua? E se le forze di polizia locali lo ostacoleranno? Oppure se invece passeranno dalla parte delle repubbliche? [...] E’ già stato sparso molto sangue e vi è una mancanza di fiducia tra le parti. Sarà difficile trovare una situazione di compromesso, la situazione è molto tesa, ma il conflitto deve essere risolto ora, prima dell’inverno, altrimenti in Ucraina ci sarà una catastrofe umanitaria”.
Viktor Gromov, sul sito Politcom , rileva che l’obiettivo minimo dichiarato dai separatisti è sempre stato quello di estromettere le forze ucraine dal Donbass, mentre quello massimo è la conquista di tutta l’Ucraina sud-orientale, che definiscono Nuova Russia.
“Ora”, scrive Gromov, “questi obiettivi sembrano del tutto realistici, se si tiene conto che l’esercito ucraino ha ormai esaurito le proprie capacità di combattimento. La perdita di fatto del Donbass per Poroshenko rappresenterebbe un’enorme sconfitta prima delle elezioni parlamentari. Continuare la campagna militare (magari con il sostegno dell’Occidente) gli avrebbe invece consentito di consolidare l’elettorato e di distrarre la sua attenzione dai sempre più gravi problemi socio-economici. Anche al maggiore rivale di Poroshenko, cioè Yuliya Timoshenko, la guerra è tornata utile, ma nel suo caso per discreditare e indebolire politicamente il presidente dopo la sua disfatta. Timoshenko probabilmente cercherà di presentarsi d’ora in avanti come salvatrice della nazione, mentre i membri dell’estrema destra presenti nei battaglioni di volontari potrebbero dirigere le proprie armi contro Kiev, accusando la dirigenza del paese di tradimento”.
Da parte sua il sito Gazeta.ru richiama l’attenzione su altre divisioni all’interno delle sfere del potere a Kiev, e più in particolare sul nucleo “patriottico” che si va formando intorno al ministro degli interni Arsen Avakov e al premier Yatsenyuk, i quali, grazie alle leve di cui dispongono all’interno dell’ATO, potrebbero mandare a monte ogni tregua, in modo aperto od occulto, soprattutto in vista delle elezioni. Secondo Gazeta.ru, i problemi principali per il futuro sono: “l’assenza di ogni visione coerente per il futuro dell’Ucraina orientale, la concentrazione di forze armate nella regione e i problemi relativi al controllo del rispetto degli accordi”. Inoltre, prosegue il sito, Mosca eserciterà pressioni sempre più forti su una Kiev in progressivo indebolimento, al fine di ottenere una concessione dopo l’altra, fino ad arrivare magari a un cambiamento di regime che porti alla guida dell’Ucraina uomini più graditi a Mosca.
6 settembre 2014
dal sito Crisi Globale
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