sabato 19 febbraio 2011
EGITTO: LA RIVOLUZIONE E' SOLO INIZIATA!
di Roberto Sarti
Mubarak se n'è andato! La mobilitazione di massa in 18 giorni ha travolto ogni cosa. É stata più forte dei palazzi del potere capitalista e degli intrighi dell’imperialismo. Il crollo della dittatura in Egitto è un altro tassello della rivoluzione araba, che è solo all’inizio.
Quando il Raisha tenuto il suo discorso, Giovedì sera 10 febbraio, era il suo ultimo tentativo di resistere al potere. Questa mossa, a molti apparsa come disperata, si basava però su alcune certezze, l’appoggio delle borghesie arabe, tra cui il regime saudita, e il calcolo che sia l’amministrazione americana che le Forze armate continuassero a rimanere divise al loro interno rispetto agli scenari futuri e quindi si trovassero costrette a puntare sul vecchio Presidente per portare avanti la “transizione ordinata”.
Non aveva fatto i conti con gli effetti provocati dal suo discorso televisivo che, se dapprima ha provocato sconcerto, subito dopo ha generato una rabbia furiosa che ha abbattuto ogni ostacolo.
Nei giorni immediatamente precedenti alla caduta di Mubarak, nuovi settori sociali avevano cominciato ad aderire alla protesta e, da martedì scorso, la classe operaia è entrata direttamente sulla scena della lotta.
Che la classe operaia stia giocando un ruolo chiave nelle mobilitazioni attuali non è un abbaglio dei marxisti, ma una constatazione dei giornali borghesi più seri. Come scrive il quotidiano britannico The Guardian:
“Mentre i media hanno raccontato come i nuovi strumenti di mobilitazione siano stati i social network come twitter e facebook, è stata la classe operaia vecchio stile che ha permesso ai movimenti prodemocrazia di fiorire”. http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2011/feb/10/trade-unions-egypt-tunisia
La scintilla è stata innescata dallo stesso Mubarak, certo in maniera inconsapevole, quando ha annunciato l'aumento del 15% delle pensioni e dei salari dei dipendenti pubblici.
In una situazione normale questa concessione sarebbe bastata a placare gli animi, ma in una rivoluzione ha ottenuto proprio l'effetto contrario. Gli scioperi hanno coinvolto tutti i settori: dai lavoratori del Porto e del Canale di Suez agli insegnanti, dai 62mila dipendenti del trasporto pubblico del Cairo fino ai 24mila lavoratori della fabbrica tessile Misr di Mahallah.
Un possibile blocco del canale di Suez ad opera delle maestranze avrebbe potuto costituire un colpo pesante ai commerci internazionali.
Ricordiamo che gli scioperi in Egitto non sono comunque una novità: dal 2004 al 2008 più di un milione e settecentomila lavoratori hanno partecipato a 1900 scioperi e altre forme di protesta, in quella che è stata la più grande ondata di scioperi nel paese degli ultimi 50 anni.
L'entrata in scena della classe operaia come forza organizzata nella rivoluzione del 25 gennaio ha cambiato completamente lo scenario e reso impraticabile ogni ulteriore ritardo rispetto alla rimozione del raìs.
La transizione doveva essere rapida dati anche gli sviluppi all'interno delle Forze armate, profondamente intaccate dalle proteste. Nelle piazze si moltiplicavano i casi di fraternizzazione delle truppe e degli strati più bassi degli ufficiali con le masse. Quando a migliaia nella giornata di venerdì i rivoltosi si sono mossi da Piazza Tahrir verso il Palazzo presidenziale, i carri armati quasi accompagnavano la marcia festosa.
Nessuna mediazione era più possibile, quindi via Mubarak e via anche Omar Suleiman, vicepresidente, potente capo dei Servizi segreti e fedele alleato di Washington. Tutto il potere è passato alla giunta militare, come la piazza aveva chiesto a gran voce. Su questo aspetto la vittoria dei manifestanti non poteva essere più netta, ed infatti il tripudio di Piazza Tahrir è stato semplicemente incontenibile.
Obama non è stato affatto l'artefice di questa “rivoluzione democratica”, anzi. Dapprima l'ha subita e poi ha cercata di cavalcarla. Quando Washington chiedeva una “transizione ordinata” incitava al mantenimento dello status quo, e quindi incitava Mubarak e il suo entourage a restare. Il terrore di fronte alle masse ingovernabili del Cairo era ben visibile sulle facce di Obama e della Clinton.
A dispetto di tutti gli scettici, gli avvenimenti egiziani, e quelli tunisini prima, dimostrano che quando milioni di persone si mobilitano e scendono in lotta, niente e nessuno li può fermare, né gli apparati repressivi, né la diplomazia delle gradi potenze.
Tuttavia la rivoluzione è non è affatto terminata, anzi è solo iniziata.
Le prime mosse del Consiglio militare supremo sono lontane dalle aspettative delle masse. Il vecchio governo dell'era Mubarak è rimasto sostanzialmente al suo posto. I militari hanno assicurato che rispetteranno tutti i trattati internazionali stipulati in precedenza, rassicurando così sia gli Usa che Israele. Il nuovo ministro delle Finanze, ha affermato che non ci saranno cambiamenti nella politica economica portata avanti dal suo ministero. “La priorità è quella di rispondere ai bisogni della popolazione. La seconda priorità – continua il ministro - è onorare gli impegni presi nei confronti delle istituzioni internazionali, come la banca mondiale e l'Fmi.” (Almasry Al Youm, edizione inglese, 13 febbraio)
Il dilemma sarà come fare a conciliare queste due priorità.
Oppure, come mettere d'accordo l'enorme desiderio di libertà delle masse con il permanere dello Stato d'Emergenza, che il consiglio militare non ha alcuna intenzione di togliere? E quando dalle carceri saranno liberati i prigionieri politici?
E ancora, quale sarà la risposta dei lavoratori in sciopero in tutta una serie di settori, davanti alla probabile decisione dei militari di proibire gli scioperi e le riunioni sindacali?
La giunta militare cerca di sfruttare l'enorme popolarità di cui gode di fronte alla massa della popolazione, grazie alla posizione prima di neutralità e poi di appoggio presa nei confronti del movimento rivoluzionario, per ristabilire “l'ordine” e combattere il caos e l'anarchia.
In assenza di un'alternativa, l'esercito ha preso il potere, ma lo ha fatto sulla base di un'ondata rivoluzionaria che non rifluirà affatto velocemente, e resterà vigile finchè i problemi centrali della popolazione non saranno risolti. I salari sono molto bassi, con la maggior parte dei dipendenti pubblici che ricevono circa 70 dollari al mese, mentre nel settore privato il salario medio è di circa 110 dollari. I tre quarti dei giovani, vero motore della rivoluzione, sono senza lavoro. Come possa l'economia di mercato, difesa dai nuovi uomini al potere e dai loro padrini a Washington, risolvere i problemi delle famiglie egiziane rimane un mistero.
I militari si troveranno a subire due pressioni opposte e contrastanti. Da una parte la volontà degli Usa, delle altre potenze occidentali e delle classi dominanti arabe, che desiderano un “ritorno alla normalità”. Dall'altra le masse rivoluzionarie, che esigono rapidamente cambiamenti di sostanza e che vogliono vigilare sull'operato dei militari.
Così, gli “irriducibili” che non volevano lasciare la Piazza simbolo, Tahrir, per vigilare sul mantenimento delle promesse fatte dai militari, sono stati scacciati con metodi piuttosto bruschi dalle forze dell'ordine. Divisioni crescenti si stanno aprendo anche nel “parlamento parallelo” la coalizione di forze che si è fatta portavoce della protesta. Al suo interno vi sono i Fratelli musulmani, una formazione totalmente integrata nel sistema che punta ad avere un ruolo di punta nella transizione “democratica”, ma anche le forze più radicali, come il “movimento 6 aprile “ e i sindacati indipendenti che hanno convocato una manifestazione per il prossimio venerdì, per celebrare la vittoria ma anche per non abbassare la guardia rispetto al nuovo potere militare.
In questo senso si può veramente dire che con la caduta di Mubarak si è conclusa una prima fase della rivoluzione e se ne è aperta un'altra, che sarà influenzata dalle ripercussioni che avranno le mobilitazioni negli altri Paesi arabi, dalla Giordania allo Yemen, dal Marocco all'Algeria, senza dimenticarci della Tunisia che ha aperto i fuochi di questa meravigliosa rivoluzione panaraba.
Da qualche parte Questo movimento è stato paragonato alle rivoluzioni del 1848 in Europa, che segnarono la definitiva consacrazione della borghesia sulla scena politica. L'analogia, tuttavia, è scorretta: i Paesi arabi hanno già avuto il loro 1848, la loro “rivoluzione nazionale”. Più precisamente l'Egitto lo ha vissuto nel 1952, con l'ascesa al potere di Nasser. In tutti questi paesi le borghesie nazionali hanno clamorosamente fallito l'obiettivo di garantire una reale indipendenza nazionale e uno sviluppo dei rispettivi paesi.
Oggi è iniziata una nuova rivoluzione araba, dove la classe operaia è, in tutti i Paesi, la vera forza motrice della rivoluzione. Se, fin dall'inizio, le rivendicazioni delle rivoluzioni tunisina ed egiziana sono state di natura democratica, tese a conquistare diritti civili negati, ben presto esse si sono intrecciate con rivendicazioni sociali e rivoluzionarie. I settori più avanzati del movimento stanno ponendo la questione dell'esproprio delle proprietà di Mubarak e della cricca al potere con lui per trent'anni. Le forze di sinistra che si stanno riorganizzando, dovrebbero affiancare l'esproprio delle multinazionali che hanno sostenuto la dittatura. Lo slogan “rivoluzione fino alla vittoria” deve riempirsi di questi contenuti. Il nuovo “panarabismo” potrà imporsi solo se sarà chiaramente rivoluzionario e anticapitalista.
14 Febbraio 2011
dal sito http://www.marxismo.net/
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