domenica 6 febbraio 2011
LA RIVOLUZIONE EGIZIANA
di Marco Ferrando
La rivoluzione egiziana è in pieno corso. Il suo impatto è enorme per il Medio Oriente, e di riflesso, per l'intero scenario internazionale. Scrivo queste righe in un momento cruciale dello scontro in atto tra rivoluzione e controrivoluzione in piazza Tahrir al Cairo: il cui esito sarà decisivo sulla direzione di marcia degli avvenimenti. Ma è necessario già oggi formulare una prima analisi, seppur provvisoria, della situazione e definire la nostra posizione generale.
Da 11 giorni una gigantesca sollevazione popolare attraversa l'Egitto. A Il Cairo, Alessandria, Suez, e in decine di altre città, larga parte della società egiziana si è levata contro un regime dispotico trentennale, ponendolo con le spalle al muro.
Questa sollevazione è stata indubbiamente innescata dalla rivoluzione tunisina. Ma le fascine dell'esplosione si erano accumulate per lungo tempo nelle pieghe della società egiziana.
LE BASI SOCIALI DELLA RIVOLUZIONE. E DEL REGIME
Il capitalismo egiziano, sotto il profilo strettamente economico, non è affatto in crisi: al punto che negli anni della grande crisi capitalistica mondiale (2007-2009) l'Egitto ha continuato a registrare tassi di crescita del PIL assai elevati ( tra il 5% e il 7%). Ma questo sviluppo capitalistico è stato trascinato (e distorto) dai massicci investimenti imperialisti legati alle privatizzazioni del regime e alle delocalizzazioni produttive; si è appoggiato sul supersfruttamento della classe operaia e sulla miseria crescente di grandi masse, urbane e rurali; si è combinato con l'arricchimento sfarzoso di una casta di regime parassitaria, nutrita dalle tangenti occidentali e dalle donazioni americane. Un proletariato immiserito e al tempo stesso sempre più esteso e concentrato ( a partire dall'industria) a fronte di una borghesia nazionale subalterna all'imperialismo e infeudata al regime: queste le classi fondamentali della società egiziana. In mezzo una vasta massa piccolo borghese irrequieta, frustrata nelle sue aspirazioni sociali dai clientelismi sfacciati del regime; un consistente settore di pubblico impiego statale relativamente “privilegiato”; un'ampia area diseredata di sottoproletariato urbano. Il tutto in una Paese in cui oltre il 60% degli abitanti ha meno di 30 anni: ciò che rappresenta un enorme bacino di energie fresche, non rassegnate, non comprimibili all'infinito.
Sarebbe sbagliato pensare che il regime di Mubarak non disponesse ( e non disponga) di una sua base sociale di sostegno. L'apparato poliziesco del regime ha una consistenza enorme ( tra forze regolari, forze irregolari, relativi parentati). Il settore pubblico impiegatizio è largamente selezionato con criteri clientelari ed è dipendente dal regime. L'economia turistica vede una forte presenza di fiduciari di corte, e raccoglie attorno a sé una miriade di interessi particolari in qualche modo “nutriti” e controllati da Mubarak. La vasta campagna egiziana è culturalmente arretratissima, e da sempre subalterna al governo.( Non a caso la base sociale della massa reazionaria che oggi Mubarak ha scagliato contro la rivoluzione è popolata da tali soggetti).
Ma la parte maggioritaria della società egiziana era da tempo ostile al regime, a partire dalle grandi città e dalla giovane generazione. Il proletariato di fabbrica, l'enorme riserva della disoccupazione intellettuale, vasti settori della piccola borghesia cittadina e delle masse più povere della popolazione, hanno composto progressivamente il blocco sociale dell'opposizione a Mubarak. Con una particolare concentrazione nel Nord dell'Egitto. E con un ruolo propulsivo e crescente della classe operaia industriale.
IL RUOLO DEL PROLETARIATO
A partire dal 2007 iniziava in Egitto la più grande ascesa di scioperi operai dagli anni '40. Il progressivo aumento dei prezzi dei generi alimentari( legato indirettamente alla crisi internazionale) assieme alla prolungata compressione dei salari ( quale condizione degli investimenti imperialisti e dunque delle relative tangenti di regime) ha spinto il moltiplicarsi delle lotte salariali nelle fabbriche. La spinta salariale è stata tanto pressante che persino il sindacato ufficiale legato al regime ha dovuto ripetutamente intercedere presso Mubarak per chiedere l'aumento dei minimi salariali al fine di “evitare agitazioni”( l'ultima intercessione ufficiale è, significativamente, del 14 Gennaio). Il regime ha sempre risposto o con concessioni irrisorie ( ultimamente il salario minimo è stato lievemente accresciuto) o molto più spesso col piombo: tra il 2006 e il 2010 sono centinaia gli operai assassinati dalla polizia nel corso di scioperi. Ma ciò non ha fermato le lotte, le ha semmai radicalizzate ed estese. Proprio il 2010 ha visto una ripresa massiccia degli scioperi nelle aziende meccaniche, nelle fabbriche tessili, nelle raffinerie, moltiplicando gli scontri non solo col padronato, spesso straniero, ma con l'apparato poliziesco al suo servizio. La classe operaia egiziana ha dunque rappresentato nell'ultimo quinquennio la principale forza sociale di opposizione a Mubarak, non solo nei fatti ma nella stessa percezione di vasti strati popolari e settori intellettuali della gioventù. Non a caso il movimento “6 Aprile”- nato in ricordo degli operai uccisi in uno sciopero del 2008- è stato, tra i giovani, il principale riferimento dell'esplosione popolare del 25 Gennaio 2010.
LA CENTRALITA DELLE RIVENDICAZIONI POLITICHE.
RUOLO E CONTRADDIZIONI DELL'ESERCITO
Lo scontro tra lotte economiche, repressione statale, sordità di regime, ha favorito sempre più l'affacciarsi, tra le masse, di rivendicazioni politiche. Che sono oggi dominanti nella rivoluzione.
Più ancora che in Tunisia, la rivendicazione unificante della rivolta è direttamente politica : “Via Mubarak, diritti, libertà”. Il fronte sociale della sollevazione di massa è vastissimo e socialmente molto composito. Ma ogni soggetto traduce le proprie diverse ragioni sociali nella comune volontà di cacciare il regime. “Via Mubarak” è una rivendicazione preliminare, assoluta, non negoziabile, nel senso comune di vaste masse. E' stata questa radicalità il carburante della resistenza alla polizia, e della occupazione di massa e ad oltranza di strade e di piazze, che ha tagliato gli spazi di manovra del regime. E proprio questa radicalità ha spostato in avanti la frontiera dello scontro, ponendo tutto il fronte avversario di fronte ad un problema nuovo: non come evitare una rivoluzione, ma come risponderle.
La risposta repressiva del regime, nei primi giorni della sollevazione, è fallita. Ha provocato quasi 300 morti nelle strade, ma non ha fermato la rivolta. E' accaduto l'opposto. E' la dilagante rivolta di massa che ha liquidato la carta poliziesca, costringendo Mubarak a ritirare la polizia nelle caserme, e ad affidarsi alla Forze Armate come custodi del “coprifuoco”. Ma anche la carta militare si è rivelata spuntata. Una massa di popolo rivelatasi capace di respingere l'urto poliziesco, e incoraggiata dal suo stesso successo, ha prima respinto l'invito militare a ritornare nelle case, e poi ha avvolto e circondato le truppe con la carica del proprio entusiasmo: sino a produrre innumerevoli casi di fraternizzazione coi soldati. É questo un punto decisivo di svolta. Mubarak si era affidato ai comandi militari come soluzione estrema contro la rivoluzione. Ma la rivoluzione ha privato i comandi militari di una base certa d'appoggio, convincendoli che la loro truppa non è più impiegabile contro il popolo: se non al rischio di spezzare l'esercito e di radicalizzare la rivoluzione oltre la soglia di ogni possibile controllo. Da qui il distacco di larga parte della gerarchia militare da Mubarak e l'”apertura” formale alle ragioni della rivolta: è il modo con cui l'esercito borghese d'Egitto, foraggiato e armato dall'imperialismo, prova a candidarsi a risolutore della crisi e a guida della transizione postMubarak. L'imperialismo USA, non a caso, punta proprio sull'esercito per pilotare una soluzione della crisi che preservi il controllo imperialista sull'Egitto e la continuità della sua politica estera filosionista.
LA DISPERAZIONE CONTRORIVOLUZIONARIA DI MUBARAK
Scaricato dall'esercito, e messo alle corde dalla rivoluzione, Mubarak ha giocato il 3 e 4 Febbraio la carta disperata di un tentativo controrivoluzionario. Se non per capovolgere la situazione, quantomeno per condizionare ( o spaccare) l'esercito e aprire uno spazio negoziale per la propria sopravvivenza politica. L'aggressione squadrista alla piazza Tahrir aveva esattamente questo significato: mobilitare settori sociali realmente legati a Mubarak, sotto la direzione e regia di ambienti polizieschi e di quadri di partito, per risollevare le sorti del regime.
Impressionante per la sua imprevista consistenza e determinazione militare, l'aggressione reazionaria ha tuttavia mancato il suo obiettivo. Non solo la piazza della rivoluzione ha resistito e non è stata sgomberata, ma i comandi militari, dopo un iniziale incertezza, hanno rifiutato l'appoggio alla reazione e a Mubarak. Con l'esplicito consenso di un governo USA che ritiene irreversibile la caduta del regime, e non vuole gettarsi in avventure senza speranza proprio per potersi garantire il controllo politico della successione.
IL RUOLO DEL FRONTE DEMOCRATICO,
DEI FRATELLI MUSULMANI, DELLE “SINISTRE” EGIZIANE
Contenere la rivoluzione egiziana nei limiti della continuità dell'ordine borghese e del controllo imperialista: questa è la parola d'ordine della borghesia egiziana , del suo apparato militare, dell'amministrazione americana.
Non è un compito facile. Sia per la radicalizzazione in atto delle grandi masse, spinte in avanti dal proprio stesso coraggio. Sia per il fatto che trent'anni di regime ( e la continuità in varie forme di un controllo militare sulla vita politica e civile dal 1952) hanno emarginato o dissolto le vecchie forze politiche borghesi e i loro strumenti di controllo “democratico” sulle masse. Ma questo è il tentativo in atto.
Il “Comitato delle opposizioni” che si è creato è parte di questo progetto. Ne fanno parte tutte le forze politiche antiMubarak e tutte le correnti della rivolta. Con un equilibrio interno significativamente capovolto rispetto al loro ruolo nella rivoluzione e alla loro reale rappresentatività di massa. Il movimento “6 Aprile”, riferimento dell'insurrezione, vi ha una presenza poco più che simbolica. Mentre la parte dominante è occupata da un mosaico di piccole forze borghesi (.Associazione nazionale per il cambiamento, Wafd Party, Al Ghad party,.), assolutamente marginali nella rivoluzione, ma dotate di buoni rapporti con le gerarchie militari e/o con l'imperialismo. La figura centrale di El Baradei, quale portavoce ufficiale del comitato è emblematica: la rappresentanza della rivoluzione è affidata a un consumato diplomatico borghese, per lungo tempo collaboratore e amico di Mubarak, stabile frequentatore della Casa Bianca. Il programma del Comitato non è meno indicativo: un governo di Unità Nazionale, concordato con l'esercito, che promuova elezioni politiche, ristabilisca l'ordine, garantisca l'imperialismo, i suoi profitti e i suoi interessi strategici in Medio Oriente. Il negoziato in corso con Suleiman ( vicepresidente nominato da Mubarak e capo da 40 anni dei servizi segreti egiziani) per concordare “una via d'uscita onorevole” del Rais in cambio del ritorno alla pace sociale, sta dentro questa cornice.
Questa operazione sconta diverse difficoltà di ordine interno: nel rapporto con le forze del vecchio regime, che restano assai consistenti nell'apparato statale; nell'equilibrio tra forze politiche civili e vertici militari; nel braccio di ferro tra le stesse rappresentanze politiche borghesi. Ma al momento “tiene”.
E' emblematico al riguardo l'atteggiamento dei Fratelli Musulmani, corrente storica dell'islamismo reazionario. A differenza che in Tunisia i Fratelli Musulmani sono in Egitto una presenza reale e consolidata. Per molti aspetti sono l'unica presenza organizzata e radicata nell'opposizione politica al regime, a partire dal controllo di diversi ordini professionali delle classi medie e di strumenti di assistenza sociale. I Fratelli Musulmani sono stati sorpresi e scavalcati dalla rivolta di massa. Nei primi due giorni ( tranne che ad Alessandria) hanno scelto di starne fuori, non prevedendone la dinamica e non volendo correre “rischi”. Quando la rivoluzione è dilagata, hanno recuperato rapidamente una propria presenza. E ora puntano ad allargarla grazie alla propria forza organizzata. Ma resta il fatto che la rivoluzione si è sviluppata fuori dai loro canali, su un binario democratico e laico, non religioso. E la loro leadership, ad oggi, punta a conquistare un proprio spazio politico riconosciuto nel nuovo Egitto postMubarak, rinviando per ora la battaglia per il potere. Per questo ha accettato la guida di El Baradei e ogni giorno assicura l'imperialismo sui propri buoni propositi: sino a dichiararsi disponibile a rinunciare alla propria candidatura per le future elezioni presidenziali.
L'unità nazionale in embrione è dunque già costituita.
Nel nome della rivoluzione mira di fatto a liquidarla.
I partiti della “sinistra” in Egitto ( Kifaya e Tagammu, due diversi assemblaggi, eterogenei e rivali, di nasseriani, socialdemocratici, liberal progressisti e stalinisti) si subordinano a questa unità e a questo progetto, all'interno del Comitato delle opposizioni. Anch'essi pronti a negoziare con Suleiman ( e i Fratelli Musulmani)il futuro “democratico” dell'Egitto, come documentano le interviste dei loro dirigenti a Il Manifesto e Liberazione. Con la benedizione internazionale di Samir Amin, di Ramonet, dell'intellettualità democratica, della cosiddetta “Sinistra Europea”.
SOLO UN GOVERNO OPERAIO, POPOLARE,
DELLE MASSE POVERE, PUO' REALIZZARE
LE RIVENDICAZIONI DEMOCRATICHE DELLA RIVOLUZIONE
Ma tutte le rivendicazioni fondamentali della rivoluzione cozzano con ogni logica di unità nazionale. Le stesse rivendicazioni democratiche sono incompatibili con la salvaguardia dell'ordine borghese. Come in Tunisia questo è il nodo strategico.
La prima rivendicazione democratica è la distruzione del vecchio regime. Il regime di Mubarak non si riduce alla corte dei suoi diretti fiduciari, già in via di disgregazione. Comprende l'alta burocrazia dello Stato, centrale e periferica, ed in particolare l'apparato repressivo. L'apparato repressivo è enorme: la somma di polizia militare, guardia nazionale, polizia politica “in borghese” ( i famigerati “batagi”) conta centinaia di migliaia di uomini e compone l'ossatura portante dello Stato. L'esercito egiziano è il più consistente e potente del Medio Oriente arabo: e seleziona storicamente da 60 anni i quadri dirigenti ministeriali. Nessuna reale democrazia politica è compatibile con la preservazione di questo Stato, base d'appoggio del vecchio regime, e implicato nei suoi crimini. E viceversa ogni rivendicazione coerentemente democratica di “libertà”, a partire dalla rivendicazione di una libera Assemblea costituente autenticamente sovrana, passa per lo scioglimento degli apparati repressivi, la dissoluzione della casta militare degli ufficiali, lo sviluppo dell'armamento popolare.
Non si tratta di partire da zero. La rivoluzione ha scosso l'esercito egiziano, portando migliaia di soldati dalla parte della rivolta. Parallelamente in pochi giorni settori di massa hanno affrontato la prima esperienza di “autodifesa”, contro le provocazioni della polizia politica e dei suoi saccheggi. Le ronde di lavoratori e giovani “armate di fucili da caccia e di spranghe” e impegnate a garantire l'ordine della rivoluzione sono in definitiva una prima forma, per quanto embrionale, di milizia popolare. L'ambasciatore italiano a Il Cairo ha gridato “scandalo” di fronte a questa autorganizzazione della forza. In realtà il suo sviluppo è la condizione decisiva per la difendere e far avanzare la rivoluzione. Per approfondire le contraddizioni nell'esercito. Per “dissuadere” da ogni tentazione controrivoluzionaria. Lo sviluppo di comitati operai e popolari, eletti nei luoghi di lavoro e nei quartieri, e coordinati progressivamente su scala sempre più ampia, risponde a questa necessità.
Lo stesso vale sul terreno economico sociale.
Le rivendicazioni sociali delle masse egiziane sono destinate ad assumere un peso centrale nella fase successiva alla caduta di Mubarak. Rimosso l'odiato Rais, milioni di lavoratori, di giovani, di disoccupati affacceranno le proprie richieste di riscatto dalla miseria e dallo sfruttamento. E' la legge di ogni rivoluzione. E tutte queste richieste chiameranno in causa la natura stessa della società egiziana e la sua subordinazione all'imperialismo. Tutte le rivendicazioni di forti aumenti salariali, di un salario minimo decente, di un salario per i disoccupati che cercano lavoro, di un sistema elementare di sicurezza sociale- richieste presenti in forme diverse dall'inizio della rivoluzione e ancor prima- mettono in discussione i due pilastri di fondo su cui si regge l'ordine dominante in Egitto: i favori compiacenti alle imprese egiziane e straniere ( che prosperano sui salari da fame degli operai) e il pagamento del debito estero a vantaggio delle banche straniere ( in primo luogo francesi, inglesi, italiane). Per questo lo sviluppo della lotta di classe non riguarda solo il terreno sindacale ( e innanzitutto le libertà sindacali) ma la struttura stessa del capitalismo egiziano e i suoi rapporti internazionali. La rivendicazione della nazionalizzazione delle grandi imprese e delle banche, senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori; la richiesta dell'abolizione del debito estero del Paese verso le banche, sono dunque il portato naturale delle domande sociali dei lavoratori egiziani.
Infine la rivoluzione egiziana è inseparabile dal quadro internazionale, innanzitutto medio orientale. Scardinare l'esercito borghese egiziano- compito elementare come abbiamo visto di una semplice rivoluzione democratica- significa alterare l'intero equilibrio politico e militare in Medio Oriente, e dunque entrare in collisione con l'imperialismo e il sionismo. Ciò vuol dire una cosa sola: la rivoluzione egiziana non può chiudersi in un orizzonte nazionale. Nata dalla rivoluzione di Tunisi, la rivoluzione egiziana non può fermarsi a Il Cairo. Il suo destino si gioca sullo scacchiere internazionale, a partire dal movimento di riscatto della nazione araba e di emancipazione del popolo palestinese. Impugnare questa bandiera, appellarsi apertamente alla sollevazione dei popoli arabi contro i propri oppressori, contro l'imperialismo, contro lo Stato sionista, rappresenterebbe uno straordinario rafforzamento della rivoluzione egiziana e un avanzamento di tutte le sue rivendicazioni. Non a caso il governo sionista e i regimi arabi ( inclusa la corrotta ANP) hanno dissentito stizziti dalla cauta ( e obbligata) dissociazione USA da Mubarak. Temono che possa incoraggiare di fatto al di là delle intenzioni una ulteriore propagazione della rivoluzione in terra araba. Per la stessa ragione la rottura radicale del popolo egiziano con la politica estera di Mubarak, la conseguente rottura con Israele, l'aperto sostegno alla rivoluzione araba e al diritto di piena autodeterminazione del popolo palestinese, sono un compimento obbligato della stessa rivoluzione democratica. E al tempo stesso l'apertura di un nuovo scenario internazionale.
Solo un governo dei lavoratori, dei contadini, delle masse povere di Egitto può realizzare questo programma e questa politica.
Questa è la conclusione inevitabile dell'analisi di classe della rivoluzione egiziana e della sua dinamica: contro tutte le posizioni che, nella sinistra egiziana e internazionale, si limitano a rivendicare un generico Egitto “democratico”, magari in alleanza con la borghesia nazionale“liberale” e sotto la supervisione del “democratico” governo Usa. Questa posizione è ereditata, in particolare, dalla tradizione stalinista, che proprio in terra araba ha dato storicamente il peggio di sé ( riconoscimento staliniano dello Stato sionista, integrazione nel regime Baathista in Siria, tradimento della rivoluzione socialista in Irak negli anni '50 in nome della subordinazione al nazionalismo cosiddetto “democratico”..) contribuendo oltretutto a spianare la strada all'integralismo religioso islamico.
Sconfiggere questa posizione è fondamentale per il futuro della rivoluzione egiziana. Anche al fine di prevenire il rischio di uno sviluppo dei Fratelli musulmani: che un domani potrebbero dirottare verso il panislamismo masse deluse e tradite, come è avvenuto altrove ( Palestina inclusa). Lo stesso tragico epilogo della rivoluzione iraniana del 1979 - dove il partito stalinista Tudeh con la sua politica subalterna ha favorito l'avvento di un regime teocratico sanguinario- è un ammonimento prezioso per i lavoratori egiziani.
LA NECESSITA' DEL PARTITO RIVOLUZIONARIO
Ma lo sviluppo anticapitalista e antimperialista della rivoluzione egiziana è tutt'altro che facile e scontato.
A differenza di tanti cantori del movimentismo e dello spontaneismo di massa, sappiamo bene che nessuna rivoluzione, neppure la più grande, può realizzare sino in fondo i propri scopi senza una direzione politica marxista e rivoluzionaria che si ponga all'altezza delle sue necessità: e che sappia elevare a queste necessità la coscienza politica delle masse e della loro stessa avanguardia.
E' questo oggi il lato più debole della rivoluzione egiziana.
La debolezza non sta nelle masse. Le masse egiziane hanno dato e stanno dando un esempio classico di generosità rivoluzionaria e di coraggio. Il peso sociale della classe operaia egiziana è enorme. Si tratta del proletariato più consistente di tutto il Medio Oriente arabo. La sua combattività è in crescita da anni. Il suo ruolo centrale nella propulsione della rivoluzione è indubbio. Ma la forza oggettiva non basta se non si accompagna alla organizzazione e alla coscienza. La classe operaia e le masse egiziane sono andate molto più in là della propria organizzazione e della propria coscienza. Questa è, ad oggi, la grandezza e il limite della rivoluzione egiziana.
L'organizzazione di massa del proletariato egiziano è molto più arretrata di quella del proletariato tunisino. In Tunisia il sindacato UGTT è stato il canale unificante della mobilitazione popolare. In Egitto una mobilitazione di massa sicuramente ancor più imponente non ha avuto a disposizione un'organizzazione di massa proletaria. Non poteva esserlo per sua natura il sindacato di regime, né potevano esserlo per la loro debolezza i piccoli sindacati indipendenti. Il ruolo giocato a livello operaio, persino nella proclamazione dello sciopero generale, dal movimento 6 Aprile- tramite internet- misura indirettamente il limite della direzione proletaria.
A questo si accompagna inevitabilmente un quadro molto contraddittorio della coscienza di massa. L'illusione diffusa nell'esercito è al riguardo emblematica. La stessa massa che rifiuta l'invito dell'esercito a rispettare il coprifuoco e che provvede alle prime forme di autodifesa, è quella che ancora vede l'esercito come “protettore” della rivoluzione, con una buona dose di ingenuità. E' un sentimento spontaneo alimentato dalle contraddizioni tra polizia ed esercito, dalla tradizione nazionalista, ma soprattutto da una consapevolezza ancora incerta della propria forza, e dunque dall'esigenza di affidarsi in qualche modo ad una forza statale che sia di garanzia e di “legittimazione” della rivoluzione. Proprio questa illusione è usata cinicamente dai vertici militari, dai partiti borghesi, dall'imperialismo, come base di manovra per l'operazione di unità nazionale contro la rivoluzione.
La costruzione di un partito rivoluzionario in Egitto che, controcorrente, sviluppi tra le masse e nella rivoluzione una coscienza politica rivoluzionaria, è dunque la necessità prioritaria posta dagli avvenimenti. In Egitto c'è traccia di una presenza trotskista, sia pur limitata, e di una tradizione marxista rivoluzionaria. Come PCL, ci stiamo attivando nella ricerca di interlocutori. Tutti i contatti e i canali disponibili, diretti o indiretti, per questo difficile lavoro vanno perseguiti dal CRQI e dalle sue sezioni.
CON I LAVORATORI EGIZIANI CONTRO L'IMPERIALISMO ITALIANO
La rivoluzione egiziana è terreno di battaglia politica anche in Italia.
L'imperialismo italiano ha un ruolo di primo piano in Egitto. L'Italia è il principale paese esportatore nel Paese. Ma soprattutto detiene una posizione chiave nell'industria egiziana, nel settore costruzioni, nell'ambiente bancario. Le privatizzazioni di Mubarak sono state un ghiotto boccone per i capitalisti italiani. La banca di Alessandria, una delle maggiori dell'Egitto, è stata di fatto comprata da Banca Intesa. Interventi analoghi sono stati realizzati nel campo delle acciaierie, delle telecomunicazioni, nelle ferrovie e persino nelle poste. In altri termini lo stesso capitalismo italiano che vuole distruggere il contratto nazionale di lavoro in Italia, già utilizza centinaia di migliaia di proletari egiziani come bestie da soma pagate poche decine di euro e private di ogni reale diritto sindacale. Il sostegno alle lotte dei lavoratori egiziani contro gli sfruttatori italiani è dunque il primo dovere del movimento operaio del nostro paese.
Il PCL ha le mani pulite verso gli operaie egiziani. Lo stesso non possono dire altre sinistre italiane. Il più grande affare neocoloniale realizzato dai capitalisti italiani in Egitto è avvenuto nel 98 sotto il governo Prodi, sostenuto da tutte le sinistre ( dal PRC a Sinistra Critica). L'acquisto della Banca di Alessandria e di innumerevoli beni pubblici di quel paese avvenne a ridosso di un viaggio di Prodi in Egitto ( con tanto di centinaia di uomini d'affari al seguito e del caloroso abbraccio a Mubarak) negli stessi giorni in cui la polizia di regime sparava sugli operai egiziani in sciopero. Il nostro partito fu l'unico a sollevare lo scandalo nella stessa campagna elettorale del 98. Sarà bene ricordarlo.
UNA LEZIONE PREZIOSA PER LA RIVOLUZIONE IN ITALIA
Ma la rivoluzione egiziana è e sarà soprattutto un terreno di chiarificazione esemplare sulla prospettiva della rivoluzione in Italia e su scala internazionale.
Ancora una volta, come già in Tunisia, ma su scala molto più ampia, la rivoluzione di massa si presenta come eruzione concentrata e improvvisa, sorprendente per i suoi stessi protagonisti. Chi avesse previsto solo pochi mesi fa una rivoluzione di massa in Egitto sarebbe stato “preso per matto” nello stesso Egitto, non solo in Italia. Tutto ciò è una risposta di metodo ai tanti “scettici” sulle prospettive della rivoluzione. Le rivoluzioni non sono “impossibili” per il fatto che il popolo “non ha coscienza”: perchè le rivoluzioni non nascono dalla coscienza, ma dal bisogno, dall'odio verso l'oppressione,dal sentimento della ribellione. Questi sentimenti prorompono ciclicamente come un vulcano assopito, quando una combinazione imprevedibile di fattori li risveglia e li innesca. E questo accade anche quando la coscienza è arretrata e confusa, sotto il peso di eredità culturali e ideologiche negative o sotto l'influenza di partiti controrivoluzionari. Il problema per i rivoluzionari non è di interrogarsi amleticamente sulla “possibilità” di una rivoluzione. Ma di costruire il partito che possa prenderne la testa quando verrà. E che al tempo stesso lavori in ogni lotta al suo possibile innesco, e soprattutto allo sviluppo della sua coscienza e organizzazione: che è la condizione decisiva per la vittoria della rivoluzione socialista.
“Non abbiamo più paura” è l'esclamazione più frequente che i giornalisti borghesi raccolgono oggi in Egitto tra i giovani in rivolta. Questa frase è l' anatomia di una rivoluzione. Quando le masse perdono la paura nel potere, il potere cede. Perchè la forza più profonda del potere non sta nei mezzi militari, che pur sono il cuore dello Stato. Sta nella paura delle masse, nella loro abitudine alla rassegnazione, nell'immaginario diffuso di un potere “inespugnabile” e “onnipotente”. Combattere queste fantasticherie e chi le propaga, infondere nelle masse la coscienza della propria forza, è il primo compito elementare di un partito rivoluzionario. La rivoluzione egiziana è un contributo prezioso a questa nostra battaglia tra i lavoratori e i giovani in Italia. E dunque alla costruzione del Partito Comunista dei Lavoratori.
6 Febbraio 2011
dal sito http://www.pclavoratori.it/files/index.php?c3:o2044
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