Diari di Cineclub

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lunedì 31 gennaio 2011



UNA CRISI RIVOLUZIONARIA CHE SEGNERA' IL FUTURO DEL MEDIO ORIENTE

                                          di Leonardo Mazzei


Il regime Mubarak allo sbando, ma per ora non molla - La più grande rivolta dell'Egitto moderno - Il ruolo decisivo dell'esercito - L'alternativa americana è tra il perdere l'Egitto e il perdere la faccia


Mubarak per ora non se ne va. Se ne vanno i familiari, tra i quali il figlio Gamal già indicato come successore del raìs. Se ne vanno pezzi grossi del potere economico nazionale. Non è difficile immaginare chi poteva essere a bordo dei 19 jet privati decollati ieri pomeriggio dall'aeroporto del Cairo con direzione Dubai. Come non è difficile immaginare chi siano le migliaia di persone che affollano questa mattina lo stesso aeroporto in attesa di imbarcarsi verso gli Emirati, l'Arabia Saudita, la Giordania: pezzi della casta dominante che con Mubarak si è arricchita e che hanno compreso che ora è meglio cambiare aria. Se ne è andato anche il personale dell'ambasciata israeliana: ragioni di sicurezza, ma anche la percezione della possibilità di profondi cambiamenti politici.
, per ora, cerca di resistere. Il nuovo esecutivo varato ieri è in sostanza un governo militare. Alla Difesa è stato nominato il capo di Stato maggiore Sami Anan, agli Interni il generale Ahssan Abdel Rahman, mentre il capo dei servizi segreti, Omar Suleiman, è diventato vicepresidente, una carica da sempre vacante nell'era Mubarak.
E' del tutto escluso che questo rimpasto governativo possa anche solo frenare per un po' la protesta popolare che dilaga nel paese. L'Egitto è veramente un paese in fiamme. Non solo il Cairo, Alessandria, Suez, ma anche numerosi centri minori compresi quelli della penisola del Sinai sono in rivolta. La polizia spesso sbanda e retrocede - lo si è visto ieri al Cairo - e non sono pochi gli episodi di poliziotti e soldati che fraternizzano con i manifestanti. Lo stato in cui versano complessivamente le forze di sicurezza è messo in luce dall'evasione in massa avvenuta stanotte nel gigantesco carcere di Wadi Natrun, dove migliaia di detenuti - tra di loro 34 esponenti dei Fratelli Musulmani, di cui 7 arrestati proprio nei giorni scorsi - sono riusciti a fuggire dopo aver messo fuori combattimento le guardie carcerarie.

Che cos'è questa se non una vera crisi rivoluzionaria?

Certo, come tutte le crisi rivoluzionarie, il suo esito è tutt'altro che scontato. Ma la partita è questa, altro che semplice riaggiustamento, magari pilotato da Washington come qualcuno vorrebbe dedurre dalle carte di WikiLeaks. Carte che ci "rivelano" fatti in realtà ovvi, e cioè che, già negli anni scorsi, gli Usa nel mentre appoggiavano in ogni modo Mubarak non si dimenticavano di andare a dare un'occhiata tra i movimenti di opposizione, cercando magari di infiltrarli e se possibile influenzarli. Questa attività, che per una superpotenza come gli Usa è solo ordinaria amministrazione, ci viene venduta da qualcuno - vedi la Repubblica - come l'ennesima "rivoluzione colorata". Che questa tesi sia semplicemente ridicola ed insostenibile è attestato dal fatto che, fino ad ora, neppure i più cretini tra i complottisti - a differenza di quanto avvenuto per la Tunisia - hanno ritenuto di doverla rilanciare.
Ovviamente - lo abbiamo scritto venerdì sera - gli Stati Uniti hanno un piano B: la sostituzione del dittatore egiziano con un governo in grado di fare alcune concessioni "democratiche", ma sempre ferreamente controllato dall'esercito e chiuso alle vere forze di opposizione, in primo luogo i Fratelli Musulmani e Kifaya. Se il dittatore egiziano sarà costretto a mollare, cosa che riteniamo pressoché certa, gli Usa giocheranno quella carta. Ma si tratterà appunto di una carta, non certo dell'esito scontato di un movimento popolare originato da ben precise cause politiche e sociali, altro che "rivoluzione colorata"!
Funzionerà quella carta? Pensiamo di no. Ma questo riguarda una fase successiva, talmente incerta che ad oggi non solo gli Usa, ma anche i regimi più marcatamente filo-occidentali della regione, continuano a sostenere Mubarak, al punto che lo stesso El Baradei è stato costretto a radicalizzare le sue prese di posizione, parlando addirittura di "intifada". Ed è interessante notare chi si è premurato, in queste ore di fuoco, di andare a portare la propria solidarietà al despota del Cairo. Oltre allo scontato sostegno dei monarchi Abdullah (Arabia Saudita) ed Abdallah (Giordania) è arrivato quello del sempre più filo-occidentale Gheddafi. Ma il messaggio più vergognoso è stato quello del Quisling Abu Mazen che «ha telefonato al leader egiziano Hosni Mubarak per esprimere "la sua solidarietà con l'Egitto e l'impegno alla sua sicurezza e stabilità"». (Adnkronos 29 gennaio)
Il fatto è che, al pari della rivolta tunisina e delle forti proteste popolari in corso in diversi altri paesi della regione, la sollevazione egiziana nasce da precise ragioni sociali e politiche. Le ragioni sociali sono riconducibili ad una situazione di grande povertà, acutizzata dalla crisi globale e dalla parziale chiusura del tradizionale sbocco rappresentato dai flussi migratori. E' una povertà, ed una mancanza di prospettive, che oggi colpisce in particolare le masse giovanili, in paesi dove la fascia di età tra i 15 ed i 30 anni rappresenta circa il 30% della popolazione. Ma è una povertà che grida vendetta anche per le enormi diseguaglianze sociali, favorite oltretutto da un sistema fiscale che colpisce quasi esclusivamente i consumi, e dall'arricchimento della casta che si raccoglie attorno ai regimi, ai cui vertici (vedi il caso dell'oro trafugato dalla famiglia Ben Ali in Tunisia) si accumulano spesso enormi ricchezze.
Non fosse che per questo motivo, le ragioni sociali della rivolta si incrociano subito con quelle politiche. Ma se la rimozione del tiranno diventa giocoforza l'obiettivo immediato, non si pensi che questo ricambio possa arrestare la spinta oggettivamente rivoluzionaria che erutta dal profondo delle società del Nord Africa e del mondo arabo in generale. C'è infatti un altro motivo che rende oggi più coraggiose e determinate le masse di questa parte del mondo. Il motivo risiede in quella che possiamo definire come "crisi di comando" della superpotenza americana. In difficoltà in Afghanistan, ancora impegnata in Iraq, affaticata dalla crisi economica, indebolita dalla potenza economica cinese, l'America di Obama affanna. Minaccia come sempre (si pensi all'Iran ed al Libano), ma le sue minacce spaventano meno di un tempo. Una differenza che dà forza alle proteste ed alla loro radicalizzazione in senso non solo antimperialista, ma anche anticapitalista.
Non abbiamo la sfera di cristallo e dunque non possiamo prevedere gli sviluppi immediati della situazione egiziana. Alcune cose possiamo però già dirle. In primo luogo, lo ripetiamo, che siamo di fronte ad una vera crisi rivoluzionaria, in grado di estendere quel "contagio" tunisino da cui la stessa opposizione egiziana ha tratto forza. In secondo luogo, che quella in corso è la più grande rivolta dell'Egitto moderno, che non potrà che concludersi con grandi cambiamenti politici e forse sociali. In terzo luogo, che si profilano all'orizzonte notevoli mutamenti geopolitici, e che le Resistenze (a partire da quella palestinese) ne usciranno comunque rafforzate. In quarto luogo, che il Re è nudo, dove per Re non intendiamo qui il raìs del Cairo, bensì l'imperatore che siede a Washington.
Obama (di cui è bene non dimenticarsi le ipocrite aperture all'Islam del giugno 2009 - vedi "Dio ci guarda", ma lui spera di non essere visto), è di fronte ad un bivio: perdere l'Egitto, o sostenere un governo comunque dominato dai militari che tutto potrà fare fuorché concedere elezioni politiche davvero libere e democratiche. Detto in altre parole: o perdere l'Egitto, o perdere la faccia. Non abbiamo dubbi su quale sarà la scelta dell'amministrazione americana, ma il Medio Oriente sta cambiando sotto i nostri i nostri occhi ed il sistema di dominio dell'area messo in piedi dal duo Usa-Israele ormai non regge più.

 30 Gennaio 2011
dal sito  http://www.campoantimperialista.it/index.php?option=com_content&view=frontpage&Itemid=1

domenica 30 gennaio 2011


SHAKESPEARE, L’INDIVIDUO MODERNO E IL REALISMO POLITICO

                                 di Michele Nobile


Questo non è un testo compiuto ma una miscellanea di citazioni, appunti e spunti di riflessione, grosso modo strutturati secondo un filo logico, principalmente tratti e a partire da: Harold Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, 2001; Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, 1975, I vol.; Northrop Frye, Tempo che opprime, tempo che redime. Riflessioni sul teatro di Shakespeare, il Mulino, 1986. Per le opere di Shakespeare: Teatro completo di William Shakespeare, collezione I meridiani, Mondadori, in particolare vol. III, I drammi dialettici, e vol. IV, Le tragedie.


1. Bloom e l’invenzione shakespiriana dell’individuo moderno.


Scrive Bloom:

«Quel che Shakespeare inventa sono i modi per rappresentare i cambiamenti umani, alterazioni che non sono provocate solo dai difetti o dal deterioramento, ma che sono influenzate anche dalla volontà e dalle vulnerabilità temporali della volontà» (Harold Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, Rizzoli, Milano 2001, p. 18).
E più avanti: «La personalità come la intendiamo noi è un’invenzione shakesperiana e non rappresenta solo la maggiore originalità del drammaturgo, ma anche la vera causa della sua perenne pervasività». E’ questa la ragione per cui «Se esiste un autore che è diventato un dio mortale, deve essere Shakespeare» (ibidem, pp. 21 e 20).
Dunque, se Shakespeare ha qualcosa di «divino» è nell’«invenzione» di quel che si intende per «individualità moderna», per «individuo moderno»; più precisamente, si può dire che Shakespeare non ha creato questo tipo di individuo, essendo esso risultato di un processo storico lungo e complesso, ma è stato il primo a dargli piena voce e sostanza, a mostrane grandezza e abissi, e, con ciò, a farlo vivere nell’immaginazione collettiva. Questione cruciale è la storicità di Shakespeare: se ha un qualche senso indicare in Omero, Dante e Shakespeare i tre «massimi» della letteratura mondiale (o, meglio, europea) è perché ciascuno ha dato vita ad opere ed a «personaggi» che sono manifestazioni non di una «poesia eterna» ma che sono grandi proprio perché «datati». Si tratta di opere e «personaggi» che sono espressioni «massime» del loro tempo determinato, della loro epoca storica.
Ma cosa è la «personalità moderna»? Bloom cita Hegel: i personaggi shakesperiani sono «liberi artefici di se stessi» (Hegel) (p. 22); Falstaff e Amleto sono personaggi carismatici: «i vitalisti eroici sono più grandi della vita: sono la grandezza della vita» (p. 20), essi trascendono l’opera, vivono di vita propria. E questo è più che mai vero per Amleto, «la più importante rappresentazione occidentale dell’intellettuale»; «qualcosa di unico nella letteratura occidentale di fantasia», una di quelle «invenzioni letterarie che si sono trasformate in miti indipendenti» (ibidem, pp. 265, 266). Il carisma di Amleto è tale che egli, «primo e unico, compete con re Davide e con il Gesù di san Marco per conquistarsi il titolo di carismatico dei carismatici. Amleto è il «centro dei centri». Perché?

Perché «Amleto e l’autocoscienza occidentale sono la stessa cosa più o meno dagli ultimi due secoli di sensibilità romantica»; veneriamo in lui una «autocoscienza quasi infinita» (ibidem, pp. 306, 307).

Qui, con delle buone ragioni, l’individualità moderna è caratterizzata romanticamente dalla Sehnsucht, dalla combinazione tra la brama, la smania (Sucht) e l’anelare, il desiderare ardentemente (Sehnen), il cercare (Suchen): dalla ricerca del desiderio, dal desiderio infinito, con una nota di nostalgia e struggimento; da una coscienza che non si quieta mai. Come quella di Faust, altra grandissima individualità moderna. Questa è una coscienza che si espande tendenzialmente all’infinito, quasi a conquistare e a far proprio il mondo, misurando questa infinitezza con i limiti del mondo, con l’ordine sociale e i costumi che la limitano, la vincolano, la reprimono mentre, nello stesso tempo, scava in se stessa. Quindi una «coscienza infelice», che è pure in conflitto con se stessa, che è dilemmatica, che si sdoppia: «essere o non essere». Come Amleto nel film di Branagh, si guarda allo specchio, stiletto in mano.
Si può considerare la cosa anche da un altro punto di vista, interrogandosi su cosa è la modernità e quindi, da qui, risalire alla individualità. Una definizione possibile:

«Tutte le stabili e irruginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall'età si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci» (Karl Marx e Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista).

Qui Marx e Engels parlano dell’espansione mondiale del capitalismo e dell’evaporazione dei valori e dei rapporti sociali tradizionali e del continuo auto-rivoluzionamento, pur nella essenziale persistenza, del capitalismo stesso. In questa ottica il farsi della modernità è, essenzialmente, il farsi del capitalismo. Che è conflitto, lotta, incertezza, svelamento e dubbio; la modernità è la coesistenza delle più grandi possibilità di liberazione umana e delle più innovative forme di sfruttamento e alienazione. Liberazione ed alienazione insieme: e da qui la lacerazione, il dubbio, la rassegnazione, come la lotta. Questi aspetti, articolati secondo i toni e le scelte più varie, si ritrovano in tutti i grandi intellettuali e scrittori moderni. Baudelaire: «tuffarci in fondo all'abisso, Inferno o Cielo, che importa?/ Per trovare il nuovo nel grembo dell'Ignoto!»; «Un'Idea, una Forma, un essere/ partito dall'azzurro e caduto/ in uno Stige limaccioso e plumbeo/ dove dal Cielo nessun occhio penetra».

2. Hauser: la disfatta della cavalleria e l’esperienza del realismo politico.


Per Hauser, Cervantes e Shakespeare sono i responsabili della «seconda disfatta della cavalleria»: perché «proclamano quel che la realtà rivela ad ogni passo: la cavalleria sopravvive a se stessa e la sua forza etica si è ridotta a mera finzione» (Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, 1975, I vol., p. 427). La novità di Cervantes non è nella denuncia dell’anacronismo e nell’ironia, ma nell’ «accusa contro la prosaica, deludente realtà». Che Don Chisciotte attribuisca l’inconciliabilità dei suoi ideali con il mondo a un sortilegio gettato sulla realtà (...) significa soltanto ch’egli dormiva mentre l’intero mondo si veniva trasformando, sì che il mondo dei suoi sogni gli appare l’unico vero, e stregato invece e pieno di demoni maligni quello reale» (ibidem, p. 429).
Se Cervantes è meno favorevole di Shakespeare all’ideale cavalleresco, ma Shakespeare è più duro di quanto lo sia Cervantes nei confronti della cavalleria come classe sociale. Il principio dell’ordine, dell’autorità e della sicurezza, componenti della visione borghese del mondo, spiegano la devozione di Shakespeare alla monarchia, antitesi del caos. Il suo atteggiamento nei confronti del “popolo”, incolto, immaturo, incostante, corrisponde a quello degli umanisti.
Ma il fatto che esprima una visione così tragica, pur in un’epoca di ascesa nazionale e di floridezza economica, rivela un forte senso di responsabilità sociale e la convinzione che anche allora non tutto era per il meglio (analogia con Balzac).

Hauser divide la carriera di Shakespeare in fasi, basandosi sul ceto che privilegia nel pubblico.

1) fase in cui lavora per gli ambienti di corte, affidando la propria fama alla forma epica.
2) le nuove opere non hanno più il tono dell’idillio, classicheggiante, ma rispondono pur sempre al gusto dell’alta società: scene grandiose di vita politica che esaltano la monarchia, commedie romantiche e ottimistiche.
3) verso l’inizio del secolo si allontana dall’eufuismo e dalle commedie romantiche, ma pare straniato anche dalle classi medie. Nelle grandi tragedie non si rivolge a un ceto particolare ma al grande pubblico (ibidem, p. 441).
4) poi la fase della rassegnazione e dell’acquetamento; sempre più lontano dalla borghesia; predominano i motivi romantico-fiabeschi.
Interessi e inclinazioni lo univano alla borghesia ed alla nobiltà imborghesita, ceti progressisti rispetto all’antica nobiltà feudale. Della nobiltà non approvava lo sfrenato edonismo, il culto dell’eroe, l’individualismo selvaggio.

Ma all’inizio del XVII, nel pieno della maturità e del successo, la sua visione del mondo muta radicalmente e, con essa, il giudizio sulla situazione sociale ed i ceti: perde ogni fiducia nell’assolutismo machiavellico e nell’economia di profitto. D’ora in poi simpatizza per il personaggio sconfitto nella vita pubblica, per l’uomo politicamente inetto e sfortunato, più che per l’uomo fortunato o il vincitore. Per Hauser ciò non può spiegarsi come un mutamento di stato d’animo o una revisione puramente intellettuale: «il pessimismo shakesperiano ha una portata che trascende l’individuo e reca i segni di una tragedia storica» (ibidem, p. 438). Se è come scrive Hauser, allora nel definirsi dell’individualità moderna la «tragedia» storica dell’assolutismo inglese ha una funzione fondamentale.
Secondo Hauser la forma del teatro elisabettiano, oltre al suo contenuto e alle sue tendenze, nasce dall’esperienza del realismo politico, dal dualismo di idea e mondo. Che non è cosa nuova. Ma nel medioevo il contrasto tra mondo e oltremondo non genera alcun tragico dissidio: il santo si ritira dal mondo, si prepara a vivere in Dio; c’è distanza da Dio, ma nessun conflitto è possibile con Lui. Solo l’età del realismo politico scopre la forma del dramma tragico, trasferendo il conflitto dall’azione entro l’anima dell’eroe. Solo un’epoca che comprende la problematica dell’agire realistico può attribuire valore morale alla condotta che ottempera alle esigenze del mondo anche se sacrifica l’ideale (Hauser). Se si considerano caratteristiche peculiari del Barocco pathos, irruenza, esagerazione, è facile fare di Shakespeare un poeta Barocco. Ma per Hauser non è un artista barocco (analogia con Michelangelo).
Nonostante le enormi differenze di metodo, interessi e strumenti interpretativi, è interessante che tra Hauser e Frye esista una convergenza sostanziale intorno alla questione del realismo politico, che è poi il problema Machiavelli. E’ estremamente significativo che il fiorentino e l’inglese, pur «rappresentandola» diversamente, condividano una visione del mondo simile. Ma in fondo è abbastanza «naturale»: uno ha «inventato il pensiero politico-sociale moderno, l’altro la moderna individualità. E il «machiavellismo» pone interrogativi angoscianti all’individualità.

3. Frye: le caratteristiche della «tragedia sociale» e Machiavelli.

Per Frye in Shakespeare e contemporanei vi sono tre generi di struttura tragica:

1) la tragedia sociale: ispirata alla storia e alla caduta dei potenti (Giulio Cesare, Amleto, Macbeth); 
2) la tragedia dell’amore contrastato, del conflitto passione/dovere, tra interessi personali e sociali;
3) la tragedia dell’isolamento dalla società, nella quale l’eroe cerca una propria identità individuale.

Nella tragedia sociale si distinguono tre gruppi di personaggi:

1) la figura dell’ordine: Giulio Cesare, Duncan in Macbeth, il padre di Amleto;
2) la figura del ribelle o usurpatore: Bruto in Giulio Cesare, Macbeth, Claudio in Amleto.
3) La figura o il gruppo che incarna la nemesi: Antonio e Ottaviano, Malcolm e Macduff, Amleto. Vendicatore, ha anche il compito di restaurare l’ordine.

Le tragedie di Shakespeare mostrano il governante (la figura dell’ordine) sotto due aspetti simbolici:

a) il governante deposto o assassinato: Cesare, Duncan, il padre di Amleto, Riccardo II, Lear che cede il trono. Rappresenta un’identità sociale perduta.

b) il governante in atto, l’uomo di successo: Ottaviano, Enrico V, Enrico VIII, Giulio Cesare nei primi due atti. Questa figura è insieme Apollo e Dioniso, domina sull’ordine della natura così come sull’eroica energia della fortuna. Il leader controlla un mondo in cui la realtà è anche apparenza, cioè illusione (Northrop Frye, Tempo che opprime, tempo che redime. Riflessioni sul teatro di Shakespeare, il Mulino, 1986, pp. 42-43).

- le stelle come simbolo dell’ordine; ogni vera manifestazione del sovrannaturale in Shakespeare è connessa all’uccisione di personaggi rappresentanti l’ordine.

Alla fine della tragedia i superstiti stipulano, o si accingono a farlo, un contratto sociale fra persone più ordinarie, per ridurre al minimo le tragedie del futuro: Fortebraccio (Amleto) e Malcolm; meno faide dopo la morte di Romeo e Giulietta; ultimi versi di re Lear «Il più vecchio ha patito più di tutti, noi che siamo giovani/ non vedremo mai altrettanto, né vivremo così a lungo».

Due concetti basilari nella tragedia elisabettiana: a) l’ordine naturale: la visione «apollinea» di Nietzsche, il senso del finito e del limitato; b) la ruota della fortuna: il senso dell’infinita energia «dionisiaca» di Nietzsche.
La tragedia è tragica perché contiene il moto dell’anima che chiamiamo eroico: una capacità d’azione, di fare e soffrire superiore a quella dei comuni mortali. L’eroico dà il senso di qualcosa di infinito (buono o cattivo) imprigionato entro il finito; un’energia infinita che gravita verso la morte: mette a fuoco lo scontro tra l’energia eroica e la situazione umana. Nell’ironia la realtà delle cose non ha niente a che fare con i desideri al riguardo; nella tragedia si compie uno sforzo contro tale discrepanza, finendo in uno scacco, dopo di che viene a patti con l’ironia, ridimensionando le proprie esigenze.

Per Frye la base della visione tragica è l’essere nel tempo: il procedere a senso unico della vita, l’irripetibilità; la visione tragica considera la morte come evento che dà alla vita forma e senso. La tragedia ha dunque un carattere essenzialmente esistenziale e, direi, aperto alla ricerca: un sistema filosofico o religioso che risponde a tutte le domande può assegnare un posto alla tragedia, ma non potrà mai assimilare l’esperienza che si esprime nella tragedia, che sfugge a tutti gli schemi volti a cogliere l’essere mediante il pensiero anziché l’esistenza (ibidem, p. 16)

«La poesia ha bisogno di un’immagine; il teatro ha bisogno di un personaggio, e ciò che si esprime nella storia della caduta dei principi è il senso della perdita dell’identità sociale»; «La visione tragica comincia con l’essere nel tempo, e quel tempo è sempre un tempo dopo, posteriore a un tempo in cui si godeva di più la vita, ed era possibile attribuire maggiore importanza nella vita alle figure dei genitori» (mentre il principe caduto corrisponde al «padre primordiale») (ibidem, p. 42).
Quindi l’«essere nel tempo» che è proprio della tragedia implica sì il fatto biologico definitivo della morte, e di una morte non banale ma che «che dà alla vita forma e senso»; ma è il «tempo» della crisi dell’identità sociale, di un ordine, migliore, violato.
Nella tragedia elisabettiana sociale lo scontro tra energia eroica e condizione umana è più evidente che negli altri due generi. Ciò per la centralità della gerarchia basata sull’autorità personale. La situazione è pre-democratica: il re simboleggia gli ideali della disciplina sociale: ma non ne è l’incarnazione. Il re non è libero dalla ruota della fortuna né dalla natura umana più bassa (Frye): dunque questo non è il re dello speculum principis, lo «specchio del principe perfetto», medievale o degli umanisti quattrocenteschi. Piuttosto, anche il re virtuoso è vicino al principe di Machiavelli.

Considerazione interessante di Frye: Shakespeare ha capito meglio di Nietzsche l’ambiguità di Dioniso:

«Dioniso non ha mai avuto niente a che fare con la libertà, perché la sua funzione è appunto liberarci dal peso della libertà. L’ultima battuta della plebe sia in Giulio Cesare che in Coriolano è puro Dioniso: “Fatelo a pezzi!”» (ibidem, p. 28).

Per Frye la nostra (delle società capitalistiche liberaldemocratiche) è una situazione dionisiaca.

E arriviamo a Machiavelli. Per Frye Machiavelli diventò la bestia nera del teatro elisabettiano: aveva distrutto l’integrità eliminando la differenza tra la figura dell’ordine e la figura del ribelle (ibidem, p. 29).
Per Machiavelli (nel Principe) la stabilità sociale è legata alla personalità del governante. Questione della fedeltà alla persona, in Shakespeare: spiega tanti suicidi o tentati suicidi, come quello di Orazio, e il desiderio di vendetta, come quello di Antonio in Giulio Cesare (la cui forza Bruto non prevede). Nella tragedia elisabettiana la vendetta appare come un dovere morale (Otello; Amleto: non prova rimorso per Polonio e si rende conto che anche Laerte può voler vendicare il padre: «Poiché nell’immagine della mia causa, vedo rispecchiata la tua»). (ibidem, p. 36-37).
Nella tragedia elisabettiana l’uomo non può dirsi tale fino a quando non entra a far parte di un contratto sociale, diventa soggetto politico, suddito: il suo essere è agire nel mondo. Ne consegue che per il leader non esiste differenza tra realtà e apparenza; come diceva Machiavelli: che il principe appaia virtuoso. Il principe è figura drammatica come l’attore: deve non tanto essere, quanto apparire (Amleto chiede a Orazio di non suicidarsi, per raccontare la storia; Otello chiede che la si racconti; Cleopatra si suicida e Macbeth duella con Macduff perché sanno che per il sovrano l’io autentico e l’immagine pubblica coincidono) (ibidem, p. 38).
L’importanza della figura dell’ordine non consiste nell’essere assassinata, ma nell’essere stata assassinata: l’azione tragica inizia dopo la sua morte (anche Lear, abdicando si è ucciso virtualmente). Si pone quindi una questione e una dialettica di potere de jure e potere de facto: il buon sovrano è quello che fa quel va fatto al tempo giusto, e che vince le battaglie (Enrico V); a differenza del giudice il sovrano non è mera incarnazione della legge, ma personalità: e nella tragedia l’elemento personale prevale sull’etica e la logica. Nelle tragedie e nei drammi storici di Shakespeare il mondo non è affatto governato dalla saggezza, bensì dalla volontà delle persone. Nelle figure dell’ordine il diritto segue alla forza: senza potere né ordine né giustizia (ibidem, p. 40).

sabato 29 gennaio 2011








L’ULTIMA BATTAGLIA DI TROTSKY

di Roberto Massari







Pubblichiamo la seconda ed ultima parte de "LA FONDAZIONE DELLA QUARTA INTERNAZIONALE"  tratta dal libro di Roberto Massari "Trotsky"-ErreEmme ediz.1990-
La prima parte è stata pubblicata il 27 gennaio.


SECONDA PARTE

A settembre del 1938 la Quarta internazionale non nacque né male né bene.
Nacque così come poteva nascere un progetto internazionalistico e rivoluzionario in quell’anno di passaggio, dati quei rapporti di forza, quelle energie disponibili e quella drammatica congiuntura politica. Si può discutere se quattro anni prima vi sarebbero state condizioni più favorevoli. Così a noi sembra, per esempio, anche se non tanto favorevoli da eliminare i principali svantaggi. Si sarebbero evitate le debolezze più appariscenti, ma ovviamente non possiamo sapere per quanto tempo e fino a che punto. Del resto, quale marxista avrebbe potuto ipotecare il futuro nel 1934 o nel 1938 (od anche oggigiorno), garantendo il tipo di condizioni prevalenti di lì in poi? Vi sarebbero state, invece, delle condizioni certamente diverse, e tra queste si sarebbe dovuto includere anche l’eventuale “non-fondazione” del 1938, con tutte le conseguenze negative connesse.
E’ evidente quindi che la discussione va posta su un altro piano. Quale rapporto esisteva nella mente di Trotsky –e dato il metodo del personaggio, anche nella realtà oggettiva da lui analizzata- tra la situazione mondiale e i compiti che un ersatz (un surrogato) di Internazionale vi avrebbe dovuto svolgere? In pratica, perché Trotsky decideva di procedere ad una “proclamazione” della Qi, prima che fossero soddisfatte le condizioni che egli stesso aveva stabilito come minime e irrinunciabili per un’Internazionale degna del nome?

Sulla scia della migliore tradizione marxista, Trotsky non concepì mai l’internazionalismo (e quindi anche l’appartenenza ad una organizzazione internazionale) come un “dovere”, un principio astratto ricavabile dalle leggi storiche della lotta di classe mondiale.
Certo in lui, come nei suoi grandi predecessori, esisteva lo “spirito internazionalistico”, -una formazione culturale cosmopolita, un istintivo rifiuto del nazionalismo, una pratica ininterrotta di milizia politica in esilio, in carcere, in giro per l’Europa (e per Trotsky, anche negli Usa)- che analogamente si era manifestato in altre grandi personalità come Lenin, Rosa Luxemburg, Parvus, Rakovskij ecc. Ma trattandosi di rivoluzionari di professione, il dato culturale non poteva che sottendere quello politico. E su tale piano ci si imbatte nelle motivazioni internazionalistiche di un’intera generazione.
La rottura della Seconda internazionale e il passaggio alla Terza, cui Trotsky contribuì potentemente, non avvenne per astratte ragioni di principio, né per la “scoperta” dell’opportunismo socialdemocratico (che i marxisti più lucidi avevano cominciato a denunciare per lo meno dagli inizi del secolo), e nemmeno per la “scoperta” che tra il Programma minimo e il massimo vi fosse quello transitorio. Tutto ciò era più o meno chiaro agli occhi della sinistra marxista, e le polemiche del tempo, prima del 1917, riguardavano già concretamente le conseguenze pratiche di tale intuizioni. Anche il famigerato “tradimento” della socialdemocrazia, all’alba della Prima guerra mondiale, non costituì una vera e propria svolta nell’analisi politica e teorica dell’avanguardia marxista, come se questa si fosse improvvisamente resa conto dell’esistenza del socialpatriottismo.
Costituì invece, una profonda svolta nelle condizioni politiche concrete di svolgimento dell’agitazione, paese per paese. La lotta alla guerra si trasformò in uno strumento di chiarificazione politica, di radicalizzazione, di differenziazione in seno alle masse lavoratrici e quindi, in ultima istanza, di raggruppamento nella nuova Internazionale (la Terza).
Quando Trotsky ritenne matura la situazione per una nuova internazionale (la Quarta), fece un ragionamento analogo, ritenendolo giustificato storicamente solo dopo il 30 gennaio 1933, quando si era visto Hitler assumere la guide della Cancelleria, praticamente senza colpo ferire, aiutato oggettivamente dalla politica del “terzo periodo” del Comintern. Nella primavera e poi a luglio dello stesso anno, Trotsky ritenne che le condizioni per una nuova Internazionale emergessero da quella sconfitta del movimento operaio e lo ribadì definitivamente ad ottobre, convincendosi che la nuova Internazionale avrebbe dovuto costituirsi in sezione anche nell’Urss. Tutto ciò non fu frutto di indignazione morale davanti al nuovo “tradimento” –come pure sarebbe stato legittimo- né della “scoperta” che ormai in Urss non esisteva più la dittatura del proletariato, ma la dittatura di una burocrazia sul proletariato, fondata socialmente su alcune conquiste di quest’ultimo.
Era il frutto dell’analisi delle nuove condizioni politiche determinate dalla sconfitta del movimento operaio –e quindi secondo Trotsky, anche del Comintern- nella questione tedesca. Si dimentica spesso, a questo riguardo, che all’epoca Trotsky parlava ancora solo di incoscienza, di incapacità suicida del Comintern davanti al nazismo e non ancora di esplicita scelta di campo, di volontà controrivoluzionaria, come farà invece all’epoca dei Fronti popolari, dopo la Spagna soprattutto.
Nel 1933 non vi era stata quindi una vera e propria svolta nell’analisi strutturale dello stalinismo, come si ripete spesso erroneamente. Vi era stata invece una verifica storica concreta di cosa lo stalinismo fosse effettivamente diventato dopo il 1928: vale a dire dopo l’instaurazione della sua dittatura totale e la rottura violenta, sul piano sociale, dell’alleanza operai-contadini. Trotsky prese atto lucidamente di tutto ciò, anche se con dei ritardi di analisi a questo riguardo, dei quali abbiamo già detto.
Rispetto alla decisione di dar vita alla Qi, non importa quindi sapere con quanti anni di anticipo sarebbe stato possibile prevedere le responsabilità del Comintern nella vittoria del nazismo, ma essenzialmente quali condizione nuove, nella realtà oggettiva e quindi anche negli occhi delle masse, quel tipo di vittoria del nazismo veniva a produrre. Tra queste condizioni, ovviamente, vi era l’allontanamento, per tutta una fase, della possibilità di portare a termine vittoriosamente dei processi rivoluzionari.
Ma le internazionali non si utilizzano solo per la conquista del potere, benché questa sia la loro prospettiva storica fondamentale. Le masse lavoratrici possono servirsene in certe epoche anche per altri obiettivi intermedi, determinati dalle esigenze che prevalgono ad un momento dato, a causa di determinate condizioni storiche. Nel 1933 queste esigenze erano già da tempo diventate essenzialmente difensive. Ancor di più dovevano esserlo dopo la vittoria di Hitler.
Trotsky analizzava realisticamente tutto ciò e vedeva la funzione concreta immediata di una nuova Internazionale nel bisogno, come ha ben sintetizzato Deutscher, di

arginare la ritirata e riorganizzare le forze per la difesa e la controffensiva” (Il profeta in esilio, p.277)

Aveva possibilità di successo un tale tentativo? Non era forse un’illusione competere con il forte apparato cominternista e con i partiti socialdemocratici nell’organizzare la “ritirata”? Non si correva il rischio in tal modo di favorire le tendenze già presenti spontaneamente tra le masse a cercare nei vecchi apparati –benché responsabili delle vittorie di Mussolini, Ciang Kai Shek e Hitler- un ultimo scoglio di classe, cui aggrapparsi per resistere alla tempesta?
Certo, tali pericoli esistevano, ed anzi, a posteriori, si sono dimostrati come la tendenza dominante nell’ambito del movimento operaio occidentale. E fu proprio l’impatto di questo riflesso difensivo delle masse che –insieme a fattori di altra natura- fece abbandonare allo stesso Comintern la teoria del “socialfascismo” e dell’ “offensiva” (per operare, come è noto, una sferzata di 180 gradi, verso la ricerca di alleanze con la borghesia nei fronti popolari).
Ma quali alternative si presentavano per l’Opposizione di sinistra internazionale, che non era abbastanza piccola nel 1933 per limitarsi a un puro lavoro di propaganda (come sarà invece dopo il ’38), né abbastanza grande per potere organizzare in prima persona, paese per paese, la “difensiva” e la “ritirata” in prima persona? Bisognava comunque tentare, nella consapevolezza di avere contro le condizioni immediate del lavoro politico, ma favorevole la tendenza storica all’accentuazione delle contraddizioni interimperialistiche (tra “democrazie” e fascismi) ed all’aggravamento della crisi dello stalinismo. La guerra mondiale era resto già iscritta nell’analisi delle tendenze di fondo, anche se essa non appariva immediatamente all’ordine del giorno.
Per l’assolvimento di questo genere di compiti –l’organizzazione della “ritirata”- la proclamazione della Qi sarebbe servita a poco. Occorrevano energie, quadri, apparati o, come dirà Trotsky più tardi, “schegge” dei vecchi apparati. Cruciale sarebbe stata in questo lavoro la raccolta di tutte le forze disponibili – in primo luogo quelle dei gruppi centristi di Spagna, Germania, Olanda, Francia ecc. – in una struttura di coordinamento, che permettesse delle esperienze in comune. Utile allo stesso scopo anche l’ “entrismo” negli apparati socialdemocratici, in Francia, negli Usa, ecc, dove si fosse potuto proseguire un certo lavoro di agitazione.
La Rivoluzione spagnola sconvolse tatticamente questi progetti, nel momento in cui confermava la profonda attualità storica della teoria della rivoluzione permanente. In Spagna occorreva assumere rapidamente un ruolo dirigente nell’ambito della guerra civile e contrapporsi da sinistra alla linea di collaborazione di classe (degli anarchici e staliniani inclusi). Il Poum riuscì a farlo più agevolmente, in una prima fase, per le sue caratteristiche “centriste”: ma per le stesse ragioni non fu in grado di capitalizzare politicamente il patrimonio accumulato. Il Movimento per la Qi, invece, nonostante la correttezza delle proprie posizioni, non riuscì a darsi una dimensione tattica adeguata e svolse quindi in Spagna un ruolo pressoché irrilevante.
Le contraddittorie vicende del Movimento in Francia, del resto, non facevano che confermare l’impossibilità di tradurre in pratica, in una linea d’azione precisa, l’obiettivo concreto (“difensivo” in una prima fase, ma poi di “offensiva” in concomitanza degli scioperi di massa) per il quale la Qi avrebbe dovuto organizzarsi a partire per lo meno dal 1933.
A ciò si potrebbero aggiungere numerosi altri fattori, che qui non citiamo per brevità, tra i quali non trascurabile lo sterminio fisico della sezione russa, che all’epoca era la sezione su cui Trotsky più contava e si illudeva, come dimostra, tra i tanti che si potrebbero citare, il seguente giudizio del 1936 (dal n.48 del Bollettino dell’Opposizione internazionale):

"Oggi la Quarta internazionale possiede già il suo nucleo più forte, più numeroso e più agguerrito nell’Urss."

L’azione “difensiva” contro il dilagare del fascismo, che Trotsky vide a lungo come la minaccia più grave incombente sulla Francia, fu assolta, bene o male, dal Comintern alleato alla socialdemocrazia. E diede a quest’ultimo il prestigio per intervenire in Spagna (a soffocare la rivoluzione, ovviamente, ma non fu così che apparve l’intervento sovietico agli occhi del movimento internazionale, intossicato dalla propaganda demagogica dei vari partiti comunisti.
Tutto ciò trasformò le condizioni oggettive per la creazione di una nuova Internazionale, togliendole praticamente il terreno politico concreto più immediato. Le vicende del centrismo e del trotskismo di quei anni, si possono agevolmente spiegare alla luce di questo fenomeno macroscopico, molto più che sulla base delle debolezze personali, le meschinità di gruppo o le trame della Gpu. Tutti questi fattori esistettero, ovviamente, ma solo in funzione secondaria.
L’approssimarsi dell’ormai inevitabile guerra mondiale, poneva le condizioni per la creazione della Qi su un piano diverso. Occorreva in primo luogo darsi uno strumento efficiente che permettesse all’avanguardia di affrontare la nuova congiuntura politica determinata dalla guerra. L’ideale sarebbe stato, ovviamente, di poter costruire uno strumento che permettesse fin dall’inizio della guerra di organizzare un’agitazione antipatriottica, disfattista rivoluzionaria, nei modi e nelle forme che Trotsky aveva già indicato nel 1934.
La realtà oggettiva convinse Trotsky che l’obiettivo minimo ragionevolmente raggiungibile era di permettere ai quadri raccolti o semplicemente a parte di loro di sopravvivere. E di farlo abbastanza a lungo da poter entrare in scena in una congiuntura più favorevole, nel corso del conflitto mondiale, in modo da poter applicare finalmente il programma e sfruttare l’ersatz di organizzazione. Non fare questo, non riuscire a svolgere un ruolo nella guerra mondiale, subire questo nuovo grande massacro tra i lavoratori, significava per Trotsky arrendersi senza combattere davanti alla più grave delle sconfitte storiche del proletariato. Questa avrebbe potuto rimandare per decenni la possibilità del socialismo (come poi è avvenuto) o addirittura, come ebbe a dire lo stesso Trotsky in un passo già ricordato, forse anche per tutta un’epoca, se non per sempre.

La Qi andava costituita, quindi, di fretta e in corsa con i tempi della diplomazia occidentale, cui si aggiunse con la sua folle irrazionalità quella del Cremino. Occorreva tentare senza alcuna certezza di vittoria, anzi, come Trotsky ripeté per anni e fino alla morte, con sempre minori possibilità di vittoria immediata (checché egli abbia sussurrato in punto di morte a J.Hansen –secondo la leggenda- sulla “vittoria della Qi”. Sarebbe veramente strano, per un marxista che aveva vissuto consapevolmente per tutta la vita l’alternativa storica tra “socialismo o barbarie”, morire avendo sulle labbra la certezza della vittoria della Qi: di quell’ersatz, per giunta che così poco competente si era dimostrato anche nella difesa della sua incolumità fisica).
Che la questione delle guerra fosse al centro del progetto di “affrettata” proclamazione della Qi, si sembra assolutamente fuori discussione. Non solo per gli scritti abbondantissimi sulla questione, non solo per la struttura analitica stessa del pensiero che sta alla base del Programma di transizione –concepito, per inciso, proprio perché potesse essere un richiamo dei principi generali del marxismo rivoluzionario, tradotti in un programma d’azione immediato per l’Internazionale durante la guerra – ma per la drammatica accentuazione organizzativistica che caratterizza l’attività di Trotsky negli ultimi anni della sua vita.
A quasi mezzo secolo dal 1938 non si può non riconoscere che quel progetto fallì sul piano politico: fu cioè sconfitto dall’avversario e dalle forze schiaccianti da questi messe in moto. Trotsky se ne rese conto, ma alternative non se ne davano. Non sappiamo quanti già allora ne fossero consapevoli (e forse per questo reagirono con la demoralizzazione, le capitolazioni, il ritorno al privato). Ma ciò non significa che il tentativo non andasse fatto, né che il fallimento fosse scontato. La sopravvivenza dell’ersatz di Internazionale, per esempio, sarebbe stata in astratto anche possibile, soprattutto se Trotsky fosse rimasto in vita e avesse potuto costituire ancora per alcuni anni un punto stabile di riferimento. Proteggere la vita di Trotsky in Messico non era dopotutto un’impresa irrealizzabile. Ed a guerra conclusa chissà…
Di più allo studioso non è dato di fantasticare.

giovedì 27 gennaio 2011






     LA FONDAZIONE DELLA QUARTA INTERNAZIONALE


                                   di Roberto Massari

Pubblichiamo tratto dal suo libro "Trotsky"-ErreEmme ediz.1990- la prima parte di questo interessante studio. E' giusto ricordare per i lettori più giovani  che l'autore, che ringraziamo per la sua consueta disponibilità, oltre che editore ed autore di una trentina di libri è stato una delle figure storiche più significative del movimento trotskista internazionale. La seconda ed ultima parte verrà pubblicata nei prossimi giorni.


PRIMA PARTE

Il 3 settembre 1938 veniva fondata la Quarta internazionale. Un anno dopo, il 3 settembre 1939, iniziava ufficialmente il Secondo conflitto mondiale, con la dichiarazione di guerra del governo inglese e francese alla Germania nazista. Due giorni prima questa aveva invaso la Polonia, nel quadro degli accordi siglati con Stalin e sintetizzati nel famigerato “Protocollo segreto” del Patto Molotov-Von Ribbentrop.
La coincidenza temporale di quei due “3 settembre” non può non colpire l’immaginazione, giacché essi hanno rappresentato simbolicamente l’apice delle due correnti storiche principali che avevano scosso quella parte di secolo, dall’inizio della Prima guerra mondiale in poi: la guerra e la rivoluzione. Ma in quella coincidenza vi era anche un collegamento materiale ben più sostanzioso che aveva unito le due correnti storiche citate, e che era stato tradizionalmente espresso nella propaganda del movimento operaio con la formula: “O la rivoluzione impedirà la guerra, o la guerra produrrà la rivoluzione”.
Le cose come è noto, sono andate in maniera molto diversa. La fondazione della Qi non riuscì a impedire la guerra, né la guerra si poté trasformare in rivoluzione vittoriosa. Si è prodotta invece una terza variante storica, contraria a tutte le previsioni precedenti, e che è quella che stiamo ancora vivendo: una questione complicatissima, che ci si consentirà di accantonare per il momento. E questo anche per poter affrontare con maggiore calma i problemi di terminologia e di analogia storica, nel quadro di una discussione sul fatto se sia esistita effettivamente una “Quarta internazionale” e quale ruolo eventualmente essa abbia avuto. In certi ambienti politici, il tema suscita polemiche appassionate ancora oggigiorno.
Un paio di premesse metodologiche.
L’ "Internazionale" non è la sola forma di organizzazione sovranazionale di cui ha potuto disporre il movimento operaio nella sua esperienza storica. La forma “Internazionale” cioè, non esaurisce tutte le forme di espressione dell’internazionalismo proletario: alcune di queste possono esistere autonomamente nei periodi di non-esistenza dell’Internazionale, oppure a fianco di quest’ultima. Una Tendenza internazionale, una Frazione, un Blocco continentale, un Ufficio estero di collegamento, una Sinistra zimmerwaldiana ecc.
Tutti esempi di esperienze vissute dal movimento operaio.
Anzi, si potrebbe dire che l’avanguardia di quest’ultimo si è sempre posta dal punto di vista di una tendenza internazionale, senza ciò abbia fatto di essa automaticamente un’ “Internazionale”. Della differenza tra i due livelli era ben consapevole Trotsky, quando decideva di fondare la Qi, formalizzando il rapporto col gruppo di compagni che gli erano rimasti intorno, e questo, tra l’altro, in un momento in cui le energie e le possibilità internazionali erano molto inferiori a quanto era stato disponibile per il suo movimento nei dieci anni precedenti. Ne era stato consapevole anche Marx, che nello sciogliere l’Ail (1) non abbandonava per questo il lavoro internazionale, e ne era stato consapevole Lenin che aveva impiegato un certo numero di anni –e che anni!- tra la rottura con la Seconda e la creazione della Terza internazionale.
Deve essere anche chiaro che quando si parla di “Internazionali”, non si adotta un criterio nominalistico –vale a dire quali organizzazioni si siano così autodefinite- ma effettivo, storicamente fondato, materialistico. L’Ail di Marx, Bakunin ecc. è certamente esistita, ma solo fino a quando ha assolto alla funzione unitaria per la quale era stata creata. E la si considera comunemente sciolta all’Aia, nel settembre del 1872, anche se essa ha continuato formalmente ad esistere, riunendosi subito dopo a Saint-Imier, l’anno dopo a Ginevra, l’anno ancora dopo a Bruxelles e così via.
All’Internazionale di Saint-Imier (anarchica) non mancava certo una rappresentanza significativa tra i lavoratori europei: essa semplicemente assolveva ormai a dei compiti diversi, che i marxisti dell’epoca considerarono negativi per il movimento operaio.
E questi ultimi, del resto, mantennero in vita formalmente la propria Internazionale fino al Congresso di Filadelfia del 1876: un fatto questo per lo più ignorato, visto che il vero scioglimento si considera avvenuto all’Aia. Traversie analoghe –ma in contesti diversi- si potrebbero ricostruire per la Seconda internazionale (oggi “Internazionale socialista”, ma che per il movimento comunista ha cessato di esistere il 4 agosto del 1914) e per la Terza internazionale (sciolta ufficialmente nel 1943, in realtà sopravissuta nella disciplina ferrea dei partiti comunisti staliniani, ma dal punto di vista dell’originario programma rivoluzionario inesistente per lo meno dalla fine del 1923).
Lo stesso dicasi, infine per la Quarta internazionale. Vi sono molte organizzazioni oggi nel mondo che si richiamano al patrimonio teorico di Trotsky e che si autodefiniscono “Qi”. Ma ciò non implica necessariamente che una in particolare di loro sia la “Qi”, né che tutte insieme queste organizzazioni (grandi o piccole, a seconda dei paesi), costituiscano l’eredità della vecchia Qi o l’embrione della nuova. Le autoinvestiture non hanno senso. Tutto va misurato sui parametri della dialettica storica, in particolare della lotta di classe su scala mondiale, cui spetta il giudizio, in ultima analisi, sulla maggiore o sulla minore positività di certi strumenti, sulla loro maggiore o minore utilizzabilità, anche parziale al limite.
Sul piano delle analogie storiche, del resto, un’analisi della Qi fondata da Trotsky, non andrebbe molto lontana. Al di là dell’esigenza storicamente giustificata di lottare per il socialismo e organizzare allo scopo internazionalmente l’avanguardia, Trotsky non indicò mai altre analogie possibili e di sostanza con le Internazionali precedenti. Alcuni suoi seguaci (Naville, per es. o Schachtman) rispondevano a chi era contrario alla fondazione della Qi nel 1938 (i polacchi tra gli altri), tentando delle disperate analogie con le Internazionali precedenti, in particolare con la Terza. Ma cadevano facilmente in contraddizione, visto che tutti gli aspetti più caratteristici di quell’esperienza apparivano rovesciati all’atto della nuova fondazione: l’ascesa rivoluzionaria del ’19 era un sogno nel ’38; le scissioni dalla Seconda alla Terza furono in alcuni casi effettive, quelle dalla terza alla quarta inesistenti; la rappresentatività del primo Stato operaio era all’opposto del clima dei processi di Mosca; la vasta leva di agitatori celebri della terza non era confrontabile col piccolo gruppo di propagandisti per lo più sconosciuti della Quarta; ecc.
Tutte differenze che erano ben presenti allo spirito di Trotsky, che non tentò mai di mascherare il bisogno della nuova organizzazione, sotto il velo delle analogie storiche. Egli le attribuiva, infatti, semplicemente una nuova funzione, legate alla drammatica immediatezza della vicenda politica (la guerra). E solo al fine di sfruttare tale contingenza decideva di dar vita organizzativamente alla nuova Internazionale, formalizzando i rapporti con quanto restava del “Movimento per la Qi”, residuo a sua volta di quei raggruppamenti di compagni che avevano costituito alla fine degli anni ’20 l’Opposizione di sinistra internazionale. La “proclamazione ufficiale “sarebbe dovuta servire, nel progetto di Trotsky, a serrare meglio le file, a risolvere la mole disastrosa di problemi organizzativi e soprattutto ad affrontare il periodo della guerra mondiale. Vale a dire un periodo in cui sarebbero diventati schiaccianti le pressioni dello sciovinismo nazionalistico ed in cui invece avrebbe acquistato un valore programmatico anche la sola sopravvivenza di un centro internazionale, che si ponesse al di sopra di tutti i paesi belligeranti, per la sua propaganda, le parole d’ordine, il suo esempio ecc.
Per valutare l’effettiva esistenza organizzativa della Qi nel 1938, all’atto della sua fondazione, si possono adottare vari criteri di analisi, per lo più empirici e nessuno di essi realmente decisivo.



In primo luogo, lo stato delle forze effettive.
Scarse o meno che scarse. Spesso esistenti solo sulla carta od esagerate a fini propagandistici, quando non più banalmente per dei ritardi nella registrazione delle perdite. Nei verbali del Congresso di fondazione veniva dato per es., la cifra del tutto illusoria di 2.500 militanti per la sezione americana (il Socialist Workers Party, l’unica superiore a mille). Si trattava in realtà di un ricordo del passato, dell’epoca d’oro della ribellione dei teamsters. Testimonianze più accurate e più credibili (citate per es. da Deutscher) parlano di meno di mille militanti. Dei 200 tedeschi, 120 venivano dati come prigionieri, mostrando così la scarsa attendibilità di un dato già molto modesto: Dell’Italia non si dava alcuna indicazione quantitativa, ma realisticamente non si sarebbe oltrepassata la soglia di qualche simpatizzante e del militante effettivo “Blasco” (Pietro Tresso). Per qualche altro paese la cifra si aggirava sotto ai cento militanti, con l’eccezione del Belgio, la Francia, la Polonia e l’Inghilterra. Discutibili invece i 150-200 della Cecoslovacchia, data l’assenza anche di un solo delegato ceco a causa delle divergenze politiche esistenti. In Urss, la sezione più antica e più forte, nonostante le illusioni dell’epoca, sappiamo oggi con certezza che non era sopravissuto praticamente nessun quadro (pur permanendo delle correnti diffuse di simpatia). L’unico delegato presente “Etienne” (Mark Zborowskij) era un agente della Gpu staliniana, responsabile dell’uccisione di quadri valorosi come Klement, Leon Sodov, Ignace Reiss e chissà quanti altri. (2)

Gruppi di orientamento vicino a Trotsky, ma definiti “centristi” nella loro linea di fondo, come il Poum spagnolo, il Psop francese di Marceau Privert o il gruppo olandese di Sneevliet (Rsp, poi Rsap) (3) -gli unici ancora a conservare un minimo di base organizzativa in Europa- non facevano parte della nuova organizzazione. Anzi, i primi due, invitati come osservatori, non furono ammessi fisicamente alla riunione, per ragioni di vigilanza contro la Gpu che già aveva ucciso Klement, l’organizzatore del Congresso. Inutile aggiungere che la Gpu era invece pienamente rappresentata dal delegato russo Etienne (quasi un plenipotenziario organizzativo del movimento insieme a Leon Sedov e parzialmente anche dopo la morte di questi). E ciò mentre l’amante dell’osservatrice americana Sylvia Agelof, ammessa al Congresso –il famigerato Jacques Mornard, alias Jacson, alias Ramòn Mercader, futuro assassino di Trotsky- si aggirava all’esterno della casa dei Rosmer, attendendo che i lavori finissero.
Un altro criterio empirico, per valutare l’effettiva rappresentatività di quel Congresso, potrebbero essere l’analisi dei delegati.
Furono 21 o 22, e il loro successivo itinerario è facilmente sintetizzabile per gruppi. Premettendo, tuttavia che con qualche rara eccezione, nessuno di loro –anche quando si trattava di personalità valorose, di grande ricchezza morale ed intellettuale- aveva accumulato o conservato un patrimonio di prestigio all’interno del proprio movimento operaio, tale da poterli far apparire come punti effettivi di riferimento nella lotta di classe dei rispettivi paesi.

1) Il gruppo dei delegati in disaccordo sulla creazione della Qi. Oltre al francese Craipeau che riciteremo, vi erano i due polacchi –Stephen e Karl- che difendevano la posizione ben nota di Deutscher, contraria alla fondazione della Qi.
2) Il gruppo che ad un anno dal Congresso si schiererà con Schachtman e abbandonerà con questi il movimento. Oltre a Schachtman stesso che presiedette la riunione, vi erano N.Gould (Usa), Lebrun (Brasile) e C.L.R. James (Indie occidentale).
3) Il gruppo dei francesi, che durante e dopo la guerra uscirà con motivazioni diverse dall’organizzazione: tra questi P.Naville (principale relatore), J.Rous, Y.Craipeau, Boitel e il futuro gollista D.Rousset.
4) I delegati che abbandoneranno l’attività politica o le file della sinistra: Summer (Inghilterra), Johre e O.Fischer (Germania) che arriverà a definire l’Urss some uno Stato “fascista”
5) Quelli che verranno uccisi durante la guerra dal nazismo o dallo stalinismo M.Hic (Francia), L.Lesoil (Belgio), P.Tresso (Italia).

Di Busson (Grecia) ignoriamo il destino, né conosciamo l’identità di un delegato. Di Etienne abbiamo già detto. Resterebbero ancora J.P.Cannon (Usa) e il greco M.Raptis (Meglio conosciuto come “Pablo”, ancora oggi attivo (4) . gli unici due che, con alterne vicende, avrebbero continuato a lottare nel movimento di Trotsky anche nel dopoguerra.
Vi è poi il criterio della scarsa rappresentatività politica dei dirigenti delle sezioni della Qi dell’epoca, con eccezioni come Tresso, Cannon e il vietnamita Ta Thu Thau. Del resto non sfuggi allo stesso Trotsky che le condizioni generali del Movimento risentivano della lunga serie di sconfitte e della lunga catena di persecuzioni che il marxismo rivoluzionario aveva incontrato nel decennio precedente.
Per quanto riguardava le singole sezioni, Trotsky era arrivato alla conclusione che gli unici quadri dirigenti sui quali si potesse fare affidamento, erano quelli del Swp. E a lungo si batté perché alcuni di questi si trasferissero stabilmente dagli Usa in Francia e lì controllassero di persona la situazione, preparando il terreno per le attività da svolgere con l’inizio della guerra.

Se la guerra inizia ora -confidava Trotsky ad aprile del 1939 a James- e sembra che ora inizierà, nel primo mese perderemo due terzi di ciò che abbiamo al momento in Francia. Essi saranno dispersi”.

E nella stessa occasione che Trotsky tracciò il celebre ritratto di Pierre Naville –considerandolo giustamente come l’emblema di tutta una generazione rivoluzionaria- e in cui dimostrò di non nutrire alcuna illusione sul futuro, ma anche di non volersi arrendere di fronte ai compiti del presente:

Abbiamo compagni che sono venuti a noi, come Naville ed altri, quindici o sedici o più anni fa, quando erano dei giovani. Ora sono persone mature e nella loro esistenza cosciente hanno avuti solo colpi, sconfitte, e sconfitte terribili su scala internazionale e si sono più o meno familiarizzati con questa situazione. Essi apprezzano altamente la correttezza delle loro concezioni e sono in grado di fare delle analisi, ma non hanno mai avuto la capacità di penetrare, di lavorare con le masse e non l’hanno acquistata”.  (5)

La guerra sarebbe dovuta diventare, secondo Trotsky la scuola … di guerra, per questi giovani intellettualmente capaci e teoricamente preparati, ma solo a condizione che fosse concesse loro la possibilità di superare l’impatto iniziale, quel “primo mese” in cui il grosso delle forze si sarebbero disperse, finendo inevitabilmente nell’isolamento, sotto le armi o altrove.
Sempre da James, interlocutore di Trotsky (“Crux”) in questa celebre conversazione, siamo informati che al Congresso di fondazione si era preso atto di tali debolezze, in rapporto essenzialmente alla sezione francese e che

Blasco (Tresso) affermò che i compagni erano in grado di analizzare la situazione politica, ma non avevano la capacità di intervenire attivamente nella lotta delle masse” (ibid., p.248)

E non è un caso che su tale questione James citasse il parere di Tresso visto che tra i presenti al Congresso, insieme a Cannon, era l’unico proveniente dal vertice di un apparato comunista occidentale, che avesse compiuto un’esperienza effettiva di lotta di massa, prima e dopo la scissione dal Psi . (6)
La discussione sulla Francia, inoltre aveva sollevato un aspetto negativo, ma molto significativo e mai sottolineato a sufficienza: il fatto che l’indebolimento della sezione francese si era verificato in concomitanza con una forte ascesa della lotta operaia in quel paese. Negli anni, per giunta, in cui l’intensità delle lotte interne al “trotskismo” francese (a volte vere e proprie “beghe” personalistiche) raggiungeva livelli di scontro frazionistico senza precedenti. (7) Non potendosi spiegare tale indebolimento con la situazione oggettivamente favorevole, non restava per l’appunto altro che procedere ad un esame più approfondito dei quadri, della loro personalità e formazione: prodotti anche questi di una situazione oggettiva sfavorevole, ma in una forma più indiretta e in un arco storico più ampio del quadriennio che va dal 1934 al 1938.
Su un altro piano, vale a dire la presenza organizzata della Qi nei paesi coloniali, Trotsky aveva formulato un criterio fondamentale per stabilire l’esistenza effettiva di un’Internazionale fondata sui principi della rivoluzione permanente. Ed al riguardo aveva espresso indirettamente una profonda autocritica, polemizzando con il “Bureau di Londra” (il blocco in cui erano confluite alcune delle organizzazioni centriste che Trotsky aveva sperato di attrarre nel progetto della Qi), quando aveva affermato:

Può considerarsi come una legge che l’organizzazione rivoluzionaria che nella nostra epoca imperialista è incapace di affondare le proprie radici nelle colonie è condannata a vegetare miseramente” (10 ottobre 1938)

Nell’aprile del 1939, scrivendo alla direzione del Swp, Trotsky forniva la seguente descrizione dello stato organizzativo della Qi, in termini che non richiedono commenti ulteriori per avere un quadro della situazione reale ad otto mesi dal Congresso di fondazione:

Dalla morte di Klement non abbiamo un Segretariato internazionale. Naville è ora il segretario, ma si trova in minoranza nel Si sulla questione più grave ed importante: la questione francese. Sembra che egli semplicemente non convochi il Si. Il suo atteggiamento, come in ogni situazione critica, è di resistenza passiva nei confronti della sezione francese così come del Si.
Allo stesso tempo, propongo il rafforzamento del Comitato panamericano, non solo come Comitato panamericano, ma come un sostituto ufficiale del Si durante il periodo transitorio. E’ necessario introdurre compagni molto autorevoli nel Cpa, per pubblicare un bollettino quindicinale a nome del Cpa, non solo in spagnolo, ma in inglese e se possibile in francese. Questa attività sarà una prova generale per il tempo di guerra in Europa” (22 aprile 1939, Writings 1938-39, p.314, corsivo nostro).

Tre mesi dopo, tuttavia proprio alla vigilia di quella guerra tanto lucidamente prevista, la situazione era ulteriormente peggiorata. Scrivendo a Cannon il 26 luglio. Trotsky segnalava l’esistenza di una situazione disastrosa come la seguente:

La nostra organizzazione internazionale ha praticamente cessato di esistere dopo l’assassinio di Klement: niente bollettini, nessun servizio stampa, niente lettere circolari – nulla.
Dopo il tuo ritorno da Parigi ho proposto che il Comitato panamericano funzionasse temporaneamente come un sostituto del Segretariato internazionale. Ho proposto che pubblicassero almeno un bollettino al mese in inglese e spagnolo. La cosa è stata accettata in via di principio dal Comitato nazionale, ma praticamente non è stato fatto nulla dopo questa decisione.
Il Cpa è un mito. Solo dopo molta insistenza dall’estero è stato possibile ricevere una risposta politica del Cpa. Sembra che non vi siano riunioni regolari, né decisioni, verbali regolari ecc. Chi è il segretario responsabile del Comitato? Sembra che nessuno sia responsabile di alcunché. Nella lettera del compagno G. (A.Goldman) da Parigi non vedo alcun progetto di pubblicare il bollettino internazionale ecc.” (Writings 1939-40, New York 1973, p.35, corsivo nostro).

E’ evidente il tono amareggiato di Trotsky nella constatazione del dissolvimento organizzativo del movimento internazionale. La lettera si conclude comunque proprio con un rilancio di misure organizzative, per tentare di smuovere la situazione: ben cinque proposte concrete (e minimali), accompagnate dall’avviso in cui meglio si compendia il tentativo disperato in cui Trotsky sente coinvolto se stesso e il piccolo movimento da lui creato:

Non abbiamo il diritto di perdere altro tempo sul terreno internazionale”.

Trotsky morì un anno dopo (21 agosto 1940) nella piena consapevolezza che il programma rivoluzionario, del proprio movimento non aveva assunto ancora una veste organizzativa: che la Qi, in quanto organizzazione, esisteva solo sulla carta e che la fondazione reale doveva ancora avvenire. La disastrosa scissione di Burnham e Schachtman negli Usa, la sezione che Trotsky considerava il gioiello del movimento, e sui cui molto contava per un raddrizzamento delle sezioni europee (quella francese in pratica), lo avrebbe convinto definitivamente dell’impossibilità di riuscire a creare un’organizzazione internazionale in tempo per gli inizi della guerra. Il fatto che egli abbia lottato tenacemente, sino alle ultime ore, contro i seguaci di Schachtman in America e per cercare di recuperare il terreno e il tempo perduto sul piano dell’organizzazione internazionale, ha fatto credere ad alcuni che quell’organizzazione esistesse effettivamente ad agosto del 1940 o negli anni successivi. Eppure costoro, in quanto “posteri”, disporrebbero di un criterio “organizzativo” negativo in più, rispetto a quelli già noti, per valutare l’effettiva esistenza della Qi: la morte di Trotsky, per l’appunto, è ciò che essa rappresentò per il movimento rivoluzionario mondiale e per la Qi in particolare.
E’ ancora una volta la questione tanto dibattuta “del ruolo della personalità nella storia”, su cui vale la pena di cedere la parola allo stesso Trotsky che ha scritto al riguardo le osservazioni più sensate e realistiche. In forma più o meno diretta egli ha affrontato spesso la questione del proprio ruolo nel Movimento per la Qi e più in generale nella formazione di una nuova leva rivoluzionaria, unendo l’inevitabile modestia del personaggio (una modestia di cui l’esempio più alto è dato dalla penombra addirittura eccessiva in cui il Trotsky storiografo ha tenuto il Trotsky dirigente politico, nella sua Storia della Rivoluzione russa) alla integrale lucidità del marxista.
Il 20 febbraio 1935, all’apice di una fase ancora tutto sommata positiva per il Movimento per la Qi, Trotsky annotava sul proprio Diario alcune considerazioni sulle ragioni politiche che di lì in poi avrebbero consigliato a Stalin di ucciderlo o farlo uccidere. E questo prima dei processi di Mosca, prima della caccia al “trotskista” in Spagna e forse, chissà, prima che lo stesso Stalin vedesse chiaramente le ragioni per cui era diventato ormai indispensabile uccidere Trotsky.

Stalin –profetizzava l’esule per l’ennesima volta e purtroppo a ragione- ricorrerebbe a un atto terroristico in due casi: una minaccia di guerra, o un grave indebolimento della sua posizione personale. Certo non sarebbe da escludere un terzo caso, o magari un quarto … Che ripercussioni sulla Quarta internazionale avrebbe un atto simile, è difficile dire; comunque, riuscirebbe fatale alla Terza …Vedremo. E, se non noi, altri vedranno”.

Trotsky era consapevole che lo sviluppo storico, nel bene e nel male, lo aveva portato a occupare un ruolo decisivo centrale (come era accaduto con Lenin, da Trotsky ricordato in un'altra occasione) e quindi la questione della sua morte veniva ad assumere per la prima volta nella storia un ruolo essenziale. Tanto essenziale da farne dipendere il destino della Terza internazionale e –si evince bene dal testo- anche quello della Quarta, per la quale la sua morte sarebbe potuta risultare “fatale”. Le riflessioni proseguirono, e il 25 marzo il Diario registra una presa di posizione netta da parte di Trotsky sull’argomento:

Non possiamo quindi parlare dell’ “indispensabilità” della mia opera, nemmeno per il periodo 1917-1921. Ma oggi essa è indispensabile nel senso pieno del termine. Non v’è ombra di arroganza, in questa pretesa. Il crollo delle due Internazionali ha posto alla storia un problema che nessuno dei loro dirigenti è in alcun modo preparato a risolvere. Le vicende del mio destino personale mi hanno posto di fronte a questo stesso problema armandomi di una vasta esperienza per affrontarlo. All’infuori di me, non v’è nessuno per compiere la missione di armare del metodo rivoluzionario una generazione nuova, passando sopra i dirigenti della Seconda e Terza internazionale. E io concordo pienamente con Lenin (o meglio con Turgenev) che il peggior vizio è di aver superato i 55 anni! Mi occorre, per rassicurare la successione, un altro quinquennio al minimo di lavoro incessante”. (8)


Lo storico meticoloso potrebbe osservare che il 21 agosto del 1940 il quinquennio era già scaduto, ma la “successione” ancora ben lungi dall’essere assicurata.
Volendo riassumere la sequenza cronologica della “nascita” e della rapida estinzione della Qi fondata da Trotsky, si potrebbero fissare i limiti seguenti: 1) A settembre del 1938 essa nasceva ufficialmente, con molti anni di ritardo rispetto alle necessità oggettive, nella fase calante del Movimento per la Qi, in un contesto internazionale sfavorevolissimo. Agguerrita dal punto di vista teorico e programmatico, essa risultava pressoché inesistente nel mondo e molto debole nei suoi quadri dirigenti. 2) Nel corso del 1939 essa scompariva al livello di Segretariato internazionale, nonostante la battaglia compiuta da Trotsky anche su questo piano. 3) Tra il 1939 e il 1940 la scissione di Schatchman sconvolgeva negli Usa l’unica sezione dotata di un certo seguito di massa e in ogni caso l’unica su cui Trotsky faceva realmente affidamento. 4) Ad agosto del 1940, nel momento più alto dell’alleanza tra Hitler e Stalin, veniva ucciso Trotsky, l’unico quadro sopravvissuto della vecchia guardia secondinternazionalistica e l’unico in grado, nelle sue stesse parole, di formare una nuova generazione rivoluzionaria. Anche l’unico –aggiungiamo noi- che avrebbe potuto rappresentare internazionalmente, agli occhi dei lavoratori, la continuità con l’Ottobre russo. 5) Nel 1941, a causa della repressione sciovinistica negli Usa e l’adozione del famigerato “Voorhis Act”, anche la sezione americana usciva pubblicamente dalla Qi, pur conservando rapporti fraterni con le altre organizzazioni trotskiste.

Nei primi decisivi anni del conflitto mondiale, pertanto la Qi apparve inesistente e con lei un qualsiasi punto di riferimento politico per un’agitazione, sia pure solo propagandistica, delle posizioni internazionalistiche espresse sulla guerra dal Movimento per la Qi, per lo meno fin dal 1934. Un dramma politico, quindi, che nulla valse ad arrestare il fatto che nell’ultima fase della guerra alcuni militanti singoli o piccoli gruppi, tentassero, paese per paese, di tradurre in pratica le indicazioni di Trotsky. La storia di queste attività internazionalistiche è in gran parte da scrivere. (9) Testimonianza di vecchi militanti e ricerche storiografiche potranno portare alla luce pagine ignote di abnegazione ed eroismo, ma non potranno certo modificare il dato drammatico ed oggettivo dell’assenza di un punto di riferimento marxista e rivoluzionario su scala internazionale, nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale.

Fin qui per rispondere a quanti hanno ritenuto nel passato di dover considerare la Qi come fondata, sic et simpliciter a settembre del 1938, e poi sopravvissuta, non si sa come né dove alla prova della guerra. Ma arrivati alla fine della nostra fatica, vorremo spendere qualche parola ancora per coloro che, sulla scia di Deutscher, Serge ed altri, ritennero che la Qi invece prematura e nata male fin dal 1938.
Resta cioè da chiedersi, volendo approfondire un minimo la questione, quali condizioni oggettive fossero mutate tra il 1933-34 e il 1938: nell’intervallo, quindi tra la decisione politica di creare la nuova Internazionale e la sua affrettata proclamazione nel 1938. (“Affrettata” va qui inteso in rapporto al programma di lavoro stabilito nel 1935, vale a dire rispetto al “quinquennio” citato, ma soprattutto rispetto alla mancata formazione di una nuova leva di quadri dirigenti che Trotsky giustamente, considerava una condizione irrinunciabile per l’esistenza della Qi e che egli stesso denunciava come ancora non raggiunta nel 1938, o peggio ancora nel 1939 o 1940).
Nel giudizio su tale questione è praticamente in ballo una valutazione storica conclusiva sugli ultimi anni di vita di Trotsky, un po’ come dire il punto d’arrivo della sua straordinaria parabola politica.

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NOTE
(1) Associazione internazionale dei lavoratori (Prima internazionale)

(2) Vi erano già stati dei tentativi di infiltrazione da parte di agenti staliniani nel Movimento per la Qi. Ma su "Etienne" Trotsky non volle dare ascolto alle numerose messe in guardia che ricevette da alcuni suoi seguaci.
Su tutto questo aspetto, oltre ai lavori di Broué, si veda la ricerca (in alcune parti discutibile, ma ugualmente sconvolgente) di G.Vereeken, La guépéou dans le mouvement trotskiste, Paris 1975) (N.d.A.)

(3) Poum (Partido Obrero de unificatiòn marxista)
Psop (Parti socialiste ouvrier et paysan)
Rsp  (Revolucionair socialistische partij)

(4) Pablo Michel (1911-1996), pseudonimo di Michelis N.Raptis, fu uno degli organizzatori della frazione Spartaco nel Pc greco. Rappresentò la sezione greca nel congresso di fondazione della Quarta internazionale. Dopo la Seconda guerra mondiale divenne il segretario della Qi  proponendo linee politiche considerate revisioniste dal trotskismo più ortodosso e provocando la scissione della Qi nel 1951. Militò attivamente in sostegno della Rivoluzione algerina e fu consigliere di Ben Bella. Si allontanò dalla Qi per rientrarvi poco prima della morte.

(5) "Fighting against the stream", in L.Trotsky, Writings 1938-39, New York 1974, p.225. Nel 1931 aveva scritto a Naville: "Voi avete un senso tragico dell'organizzazione ...". Lo riporta lo stesso Naville nel suo libro-ritratto di memorie: Trotsky vivant, Paris 1962, p.88. (N.d.A)

(6) Sulla vita di Tresso si vedano i due saggi biografici di P.Casciola e G. Sermani, Vita di Blasco, Magrè di Schio, 1985, oltre ad A.Azzaroni, Blasco, Milano 1962, più ampio e documentato nell'edizione francese (Paris 1965), con prefazioni di P. Naville e I.Silone. (N.d.A)

(7) Si vedano gli apparati di note dei curatori all'edizione in Francia delle Oeuvres di Trotsky, e le due principali ricerche in volume: Yvan Craipeau, Le mouvement trotskyste en France, Paris 1971 e Jacques Roussel, Les enfants du prophète. Histoire du mouvement trotskiste en France, Paris 1972.

(8) Diario d'esilio, trad. di B.Maffi, Milano 1960 (1969), pp.45 e 73, corsivio nostro. (N.d.A)

(9) Per la Francia, comunque, si possono consultare i due lavori di Yvan Craipeau, Contre vens et marèes (1938-1945), Paris 1977 e La Libération confisquée (1944-1947), Paris 1978. Più in generale si dovrà fare riferimento alle ricerche dell' "Institut Leon Trotsky" (Paris, 29 rue Descartes), che dal gennaio 1979 ha iniziato a pubblicare i Cahiers omonimi. (N.d.A)

mercoledì 26 gennaio 2011

LETTERE





CINICA CRUDELTÀ’ E VENDETTA DELL’INGIUSTIZIA DI UNO STATO DI DIRITTO

di Giuseppe Fontana







dal Carcere di Badu' e Carros

CINICA CRUDELTÀ’ E VENDETTA DELL’INGIUSTIZIA DI UNO STATO DI DIRITTO E DI DEMOCRATICA CIVILTÀ, "IL “BEL PAESE"....


Qui, nel Supercarcere “Badù e Carros” di Nuoro, vi sono ristretti due persone che ho scelto come esempi per spiegare il titolo di questo messaggio-denuncia affinché chi legge possa conoscere e comprendere meglio lo Status Quo della Giustizia Italiana, i suoi meccanismi e quei principi Democratici sanciti dalla carta Costituzionale che dovrebbero essere le fondamenta della nostra Repubblica e che, invece, vengono disattese con spudorata protervia da un ormai più che palese potere fuorilegge e, naturalmente, criminogeno.

1° Esempio: una anziana detenuta di anni 74, Grazia Marine di Orgosolo, da sette anni sconta una lunga pena per concorso in sequestro di persona di cui si dichiara innocente da sempre; innocenza che un tribunale italiano con dei giudizi italiani le aveva riconosciuto, salvo poi essere condannata da un altro tribunale italiano e da giudici italiani e sempre, entrambi, rappresentanti la stessa giustizia e lo stesso codice penale...
Che ha ragione in questa schizofrenica in-giustizia !?! occorrerebbe un giudice Alieno, come minimo da Marte, per una sentenza imparziale.
In questo Paese si può al massimo ricorrere alla Suprema Corte ma basta consultare un po' il codice penale o di procedura penale, per rendersi conto che anche lì è peggio del Bar Sport di Luigino a Gallarate.
Ogni sezione pensa ed interpreta le leggi come crede e diversamente dalle altre sezioni.
La Sezione 1° assolve , La 2° condanna, La 3° riassolve e così via, fino a ritrovarci il codice penale pieno di sentenze che smentiscono se stesse !
Fatto è che la Signora Grazia Marini è in cella da 7 anni ad espiare la sua lunga pena.
Ma perché si mette in prigione la gente !? Si mette in prigione la gente, intanto, perché sono pericolosi, altrimenti, se non pericolose, vi sono delle sensate forme di pena alternative, parimenti efficaci e meno costose per lo stato e le tasche dei cittadini.
Per Esempio: gli arresti domiciliari; e poi, per rieducare e reinserire nella società il condannato, a questo serve la pena.
Così detta la Costituzione: Art.27 "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".
La Signora Marine ha 74 anni, è gravemente malata, con un rene, e poco funzionante, diabetica, si muove a fatica per un migliaio di altri problemi fisici, non sarebbe in grado neanche di schiacciare una mosca.
Perché la si tiene in cella a costi altissimi per i lavoratori, quando a questa età e nelle sue precarie condizioni di salute sarebbe sensato e giusto concederle gli arresti domiciliari, per altro in un Paesino facilmente controllabile !? in che cosa consiste il lungo poltrire di una donna anziana e malata in una costosa cella !?! nella rieducazione ???!!!
Dunque, l’unica cosa razionale che viene in mente, come risposta a tale trattamento, è la pena di morte, sadica, di una Giustizia vendicativa che si comporta con premeditata cinica crudeltà, peggio dei delinquenti che giudica e giustizia disumanamente, violando veementemente la Costituzione.
Purtroppo, la Signora Marine non è la Baronessa Vattelappesca né fa parte della casta degl’impunibili .
Dunque, può agonizzare e morire lentamente in una cella “rieducativa” dello Stato Democratico e di Diritto Italiano !

2° Esempio: Calogero Bellavia di anni, appena 21 (ne dimostra 16...) incensurato, è accusato di favoreggiamento personale, in quanto ha fatto da vivandiere ad un latitante; arrestato a Favara (AG) è stato spedito nel carcere di Piacenza e da Piacenza in questo Super carcere.
Questo ragazzino, è vero che ha sbagliato, e lui stesso lo ammette ed è pronto a beccarsi una punizione, ma non ha ucciso nessuno, non è un affiliato, non è pregiudicato ed è accusato di un reato non grave e tale da fargli girare le carceri d’Italia per finire in questo inferno di “Badù e Carros” insieme ai peggiori criminali (secondo il Ministero dell’ingiustizia ) d’Italia.
Perché questo ragazzino è stato spedito qui !? Perché lontanissimo dalla famiglia e non in un carcere più umanizzato, ove dovrebbe essere seguito da educatori psicologi e assistenti sociali, affinché questo ragazzino non venga contagiato dal crimine, non venga abbrutito ; non si deprima e non ingrossi il numero dei suicidi !
Perché il sistema penale e penitenziario si comporta così irresponsabilmente e spietatamente !?!

La risposta è scontata....alienazione e annichilimento ! Induzione alla devianza di Stato per avere una assicurata percentuale utile al regime criminogeno che con la devianza vi fa Business penitenziario e pretesto per leggi liberticide che impediscono alla società quelle garanzie Democratiche sancite dalla Costituzione che i signori dell’ingiustizia usano ormai come carta igienica !
E se non regge al trattamento d’imbarbarimento e si suicida, peggio per lui !
Tanto per gli addetti alla “rieducazione” si tratta di “fisiologica statistica”.....
E a proposito di statistica, ecco un po' di “numeri” del 2010: suicidi 75, tentati suicidi 1.134, atti di autolesionismo 5.603, aggressioni tra detenuti (a causa del sovraffollamento e del programma d’abbrutimento), 3.462- totale detenuti settantamila , capienza massima dei posti delle carceri d’Italia Quarantatremila....
Si tratta di “numeri”....come quelli abbattuti ogni giorno in Afghanistan e altrove da altri “numeri” alienati alla guerra per il bene e la Democrazia del Popolo in “rieducazione”....”numeri” per i quali si spende un minuto di cronaca per aggiornare la statistica o di ipocrita silenzio in onore dei “numeri” utili perduti....
Dietro questi “numeri” vi sono esseri umani individui, la cui tragedia familiare, intrisa di ingiustizia, povertà , odio, sofferenza, discriminazione, morte, fermenterà per decenni e secoli, generando altro odio e morte e degenerando milioni, miliardi, altri, di “numeri”...
“Numeri” lontani, come gli Afghani e come quelli rinchiusi come bestie nelle carceri di questo paese, tenuti chiusi e lontanissimi alla società; educata alla indifferenza irresponsabile che preferisce pagare, in silenzio, salute tasse, pur di non affrontare il problema, delegando ciecamente altri ad occuparsene, in qualche modo, con risultato di saltare in aria, da qualche parte, a causa dell’inkazzatura di un “numero”-kamikaze o di finire vittima di pallottole vaganti di folli “numeri” criminali usciti fuori dai centri di “rieducazione” italiani !
Le prigioni sono come i cessi dei locali pubblici, il loro stato riflette quello del loro locali...
Le cloacali carceri italiane riflettono la società, lo stato, il bel paese...!
La società ha il diritto dovere di pre-occuparsene con consapevole responsabile partecipazione.
Questo significa essere individui politici.....pertecipare !!
Spero che la signora marine e il piccolo calogero resistano e trovino uomini giusti.
Quei rari che controcorrente a questa ingiustizia, isolati ed esposti, in primis all’ostracismo dei propri colleghi, obbediscono alla costituzione e alla legge della propria coscienza e sottraggano queste ed altre persone all’assassina ingiustizia.
Ognuno di noi con il proprio comportamento, nel bene e nel male, determina lo status quo del nostro paese e del mondo...
Continuare a nascondere la “monnezza sotto terra” è un idiota suicidio di massa..
Raccoglieremo ciò che seminiamo...veleno !
Odio ! Morte !

Peppe Fontana
25 gennaio 2011


                IL SURREALE TRAMONTO
                DI SILVIO BERLUSCONI

                               di Leonardo Mazzei



Come l'impazzimento di un uomo rivela la crisi di un intero sistema politico


Scrivere di politica in questo inizio 2011 è diventato assai arduo. A che serve interrogarsi su strategie, tattiche, alleanze, programmi, se ad irrompere sulla scena sono i festini a "luci rosse", con il contorno di una prostituzione elevata nella circostanza ad una sorta di occasione di "promozione sociale" della donna?
Una settimana fa Berlusconi ha annunciato di avere una "fidanzata". In pochi giorni i quotidiani hanno fatto l'elenco di una ventina di "aspiranti" pronte a dire «Sono io!, ma aspettiamo che parli lui». Qui il problema non è la perdita di ogni riferimento etico e morale - fenomeno già consumatosi da tempo -, qui il problema è la perdita totale di ogni senso del ridicolo. Se così non fosse, mal si spiegherebbe un presidente del consiglio che di fronte all'attuale sfascio dichiara di "divertirsi".
Ma che rapporto c'è tra l'evidente impazzimento di un Paperone drogato dal successo e dal denaro ed il sistema politico che lo vede ancora al vertice? Non fosse per altro, questo rapporto è rivelato proprio dall'incapacità del sistema politico di liberarsi rapidamente del soggetto in questione. Se ne libererà - chi scrive è convinto che Berlusconi sia davvero alla fine - ma lo farà nel peggiore dei modi, avvitandosi su se stesso, rendendo ancora più putrescente un sistema politico marcio e corrotto.


La riprova di quanto la politica istituzionale sia sempre più lontana dalle questioni reali, dalla vita quotidiana, dai problemi sociali, ci è data dallo stato comatoso in cui versa la cosiddetta opposizione parlamentare. Un'opposizione che non è letteralmente in grado di proporre alcunché. E non parliamo di proposte sulle grandi questioni politiche - figurarsi, quelle le hanno delegate da tempo a Washington, a Francoforte ed alle oligarchie finanziarie di riferimento. Il fatto è che non hanno proposte neppure su come chiudere davvero la partita con Silvio Berlusconi.
Dopo un anno di crisi progressiva del governo, le opposizioni non solo non sono ancora riuscite a disarcionarlo, ma continuano a non avere una rotta degna di questo nome. Ogni tanto evocano un nuovo governo, gridano all'"emergenza" per poi ritornare il giorno dopo alla routine parlamentare. E mentre il cosiddetto "Terzo Polo" non disdegna il "dialogo" con il governo dell'odiato tiranno, il Pd si dedica soprattutto alle divisioni interne, tanto più curiose in quanto fondate sul nulla.
E' in questo quadro che i sondaggi più recenti segnalano un Berlusconi sempre più censurato dagli italiani, ma non per questo sicuramente sconfitto in eventuali elezioni politiche. Personalmente sono invece convinto che la sconfitta vi sarebbe, eccome. Ma resta la grande passività delle masse, a far da cornice ad un tramonto inglorioso quanto surreale, che prelude ad albe incerte e ben poco radiose.
Sulla ragione di questa indifferenza fa riflettere quanto osservato da Francesco Verderami sul Corriere della Sera di ieri, secondo cui i "sismografi" dei sondaggisti hanno registrato più variazioni per il referendum di Mirafiori che per l'ennesima puttanopoli di Arcore. La cosa non stupisce affatto, perché se la passività sulle vicende governative è frutto - come esplicitamente segnalato dagli stessi istituti demoscopici - dell'assenza di un'"offerta" alternativa, la portata dell'attacco mosso da Marchionne all'insieme dei lavoratori di fabbrica è stata colta da milioni di persone.
Attenzione! Questo non significa che non sia in atto un forte calo di consensi per il governo. La cosa è talmente evidente che Berlusconi non solo non minaccia più il ricorso al voto, ma parla di questa eventualità come una specie di disastro nazionale. Tutto questo avviene, però, in un contesto spento, privo di vere passioni, che potrebbero accendersi invece solo nel momento in cui (come è avvenuto lo scorso 14 dicembre) le vicende politiche andassero ad incrociarsi direttamente con le grandi questioni sociali.

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Ad agosto abbiamo detto che con la crisi politica si sarebbe aperta l'«ora degli zombi». Eravamo stati facili profeti. Il fatto è, che proprio come in un film dell'orrore, questa ora sembra non finire più. Prendiamo quello che vorrebbe essere la novità della politica italiana: il gasatissimo "Terzo Polo". Di costoro è difficile dire se siano più presuntuosi o più insipienti. Di certo sono codardi assai. In questi mesi di pantano istituzionale non hanno avuto il coraggio di una proposta: Berlusconi deve andarsene, anzi no deve governare, ma se se ne va noi accettiamo qualsiasi altro premier, fosse pure Bonaiuti...
Una roba da ridere. Qualche giorno fa Casini ha informato il popolo italiano che - chissà perché - è l'ora di Letta, cioè dell'eminenza grigia del premier. Ma il più comico è stato l'imprevedibile Bocchino. Accusato anche da una parte dei suoi di essere una specie di ultras dell'antiberlusconismo, ha proposto che sia proprio il capo del governo ad indicare il nome del successore all'interno della triade Letta-Tremonti-Alfano. Pure Alfano!, niente male come ultras...
Parlare del Pd è come sparare sulla Croce Rossa. Bersani ha proposto già a fine agosto (vedi Ammucchiata nell'uliveto) uno schema plausibile di alleanze elettorali e di governo, ma da allora la confusione interna è solo aumentata. Primarie sì o primarie no, accordo con l'Udc (e magari Fli) oppure no, premere per le elezioni o starsene prudenti ad attendere gli eventi? Mai si è visto un partito di queste dimensioni, e di queste ambizioni, in una simile condizione di sbando.
Come è possibile tutto questo? Qual è la ragione vera di questa paralisi? Se siamo arrivati alla "mignottocrazia" - sia chiaro, in senso ben più ampio (basti pensare alla "normale" compra-vendita di parlamentari, ma non solo) di quello evocato dalle squallide vicende del premier - dovranno pur esserci delle ragioni un po' più profonde di quelle solitamente indicate da analisti pigri e desiderosi di non scavare troppo. Silvio Berlusconi è certamente il simbolo di questo degrado, ma ridurre tutto al Paperone nazionale sarebbe il peggiore degli errori, il non voler vedere il marcio che si è impadronito dell'Italia negli ultimi vent'anni. E non è che prima fossero rose e fiori...

              

Più volte abbiamo richiamato l'attenzione sul fatto che il "fenomeno" Berlusconi non è arrivato per caso. Se si è imposto è perché se ne erano create le condizioni sociali e culturali ancor prima che politiche. Proviamo allora ad elencare all'ingrosso i fattori di "lunga durata", perlomeno quelli più importanti, che hanno portato alla situazione attuale.
Negli anni Ottanta si impongono in Italia, ma dentro un trend che coinvolge tutto l'occidente, tre idee-forza che intendono rimodellare la politica (e dunque la democrazia) così come uscita dalla seconda guerra mondiale. Idee che si fondano sull'assopimento del conflitto di classe, sul prevalere di uno stile di vita fortemente individualista e sulla cancellazione di ogni spinta egualitaria. Tutti elementi che, sul versante potenzialmente antagonista, conducono al triste disincanto di una generazione perduta che finisce per chiedere solo "efficienza", rinnegando ogni impegno personale - non parliamo di militanza! - nell'ambito della politica.
Sinteticamente, le tre idee-forza sono:

1) Il presidenzialismo, l'idea di concentrare al massimo il potere esecutivo, rendendolo sempre più preponderante su quello legislativo. Di quello giudiziario allora si parlava meno, anche se la questione iniziava a porsi.

2) Il partito leggero, sulla base del modello americano. Un partito mera macchina elettorale, con la relativa de-ideologizzazione (altra parola chiave di quel periodo) e la conseguente personalizzazione della politica e della rappresentanza.

3) La politica-spettacolo, fondata su una sostanziale equivalenza programmatica e sulla intercambiabilità di un personale politico comunque asservito alle oligarchie dominanti.

Tutto ciò non poteva che condurre ad un preciso risultato: la riduzione della politica a mera amministrazione dell'esistente. Dove la scelta dell'amministratore (sia esso un sindaco, un presidente di Regione, od il capo del governo) avviene di norma in circoli ristrettissimi che non hanno poi grandi difficoltà, grazie ai partiti leggeri ed alla politica spettacolo, ad imporsi presso una platea elettorale sempre più fiacca ed inebetita.
Come si vede si tratta di un meccanismo lobbystico, dove i diversi centri di potere - a volte in aperto conflitto tra loro - cercano di trovare i necessari equilibri per tutelare i propri interessi e per garantirsi la riproduzione del proprio potere come classe dominante intesa in senso complessivo. In questo meccanismo relativamente complesso - ovviamente, e per fortuna, imperfetto come tutte le costruzioni politiche - il berlusconismo c'entra fino ad un certo punto. Il miliardario delle Tv ha infatti mezzi propri che gli consentono di saltare le normali intermediazioni. Ecco perché egli riesce addirittura a presentarsi come campione dell'antipolitica.
In un certo senso Berlusconi è stato da un lato una variabile non prevista nel sistema che si andava costruendo e, dall'altro, il massimo beneficiario dello stesso, ma soprattutto colui che ne ha esaltato le caratteristiche autoritarie ed antidemocratiche. In Italia il presidenzialismo non c'è ancora, ma presidenzialistico è lo stile impresso alla politica del governo. Il suo partito è così leggero da essere stato fondato con un semplice annuncio e senza un vero congresso. In quanto alla politica-spettacolo, basta accendere la tv per capire di cosa stiamo parlando.
Inutile ricordare che questo processo, avviatosi negli anni Ottanta, poteva andare a compimento solo nei Novanta, dopo la dissoluzione del blocco sovietico e della stessa Urss. Oggi, dopo circa un ventennio, se ne vedono dispiegati tutti gli effetti negativi. Abbiamo già detto che la politica si è ridotta, beninteso nel migliore dei casi, a mera amministrazione dell'esistente. Ne consegue che parlare di democrazia, sperando di rianimarla con la semplice cacciata di Berlusconi, o limitandosi ad evocare la Costituzione del 1948, è un esercizio del tutto illusorio se non proprio apertamente truffaldino.



Ed infatti, cosa propone in merito a tutto ciò il composito raggruppamento antiberlusconiano? Niente, esattamente niente. Per costoro si tratterebbe soltanto di allontanare con le buone o con le cattive il ridicolo tirannello che dal 1994 - sia pure a fasi alterne - è stato il vero simbolo della politica italiana.
Abbiamo già visto che anche su questo fronte - quello del disarcionamento del Cavaliere - gli antiberlusconiani sono assai inefficaci. Ma anche quando vi riusciranno, cosa che pensiamo non potrà tardare più di tanto, questo non porterà ad alcun vero cambiamento. La cosa più positiva, insieme alla cacciata dell'attuale capo del governo, sarà la morte dell'antiberlusconismo, che non potrà sopravvivere alla dipartita di colui che ne giustifica l'esistenza.
Per il resto tutto rimarrà inalterato: presidenzialismo, partito leggero all'americana, spettacolarizzazione della politica sono una triade che ben si sposa con la gestione oligarchica della società, specie ai tempi della grande crisi ed in vista di una stagione di enormi sacrifici per le masse popolari.
Certo, qualcosa diranno. Nei pensatoi delle classi dominanti che non si limitano a parlare delle conseguenze di "Ruby e le altre", si discute se la Seconda repubblica sia davvero mai nata. Affiora qualche rimpianto per la Prima, ma si lavora ad una Terza repubblica semplicemente concepita come completamento di una Seconda abortita chissà perché.

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Tutto faranno fuorché riconoscere la crisi della "democrazia occidentale", il suo svuotamento totale di fronte ad una classe dominante sempre più predatoria. Un processo di lunga durata, che nel nostro Paese ha avuto però una decorso più accelerato che altrove. Una peculiarità nazionale che non dipende solo dal berlusconismo, o dal provincialismo di chi ha voluto importare meccanismi classici del modello americano (si pensi alle primarie) pretendendo di impiantarli, senza neppure una vera discussione pubblica, nel corpo delle diverse tradizioni politiche nazionali. Una peculiarità che deriva anche dalla continua ricerca di legittimazione da parte di una "sinistra" che ha fatto del pentitismo la propria dimensione psicologica più autentica.
Tutto faranno fuorché riconoscere le mostruosità messe in campo dagli inizi degli anni Novanta: il maggioritario, il bipolarismo, l'elezione diretta dei capi degli esecutivi ai vari livelli. Al massimo adotteranno qualche misura di aggiustamento per fare spazio al "Terzo Polo", rispondendo ad una contingente esigenza tattica, ma rifiutando come la peste ogni riflessione sul disastro che hanno prodotto.
Tutto faranno fuorché venir meno all'esigenza di rispondere ai compiti assegnatigli dai centri decisivi del potere capitalistico nazionale ed internazionale (cioè americano ed europeo). Per dirla in altre parole, tutto faranno fuorché venir meno al marchionnismo, la vera linea guida bipartisan adottata dall'attuale classe politica italiana.

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Tocca dunque a chi non intende rassegnarsi all'esistente il compito di proporre un'alternativa all'attuale sistema politico. L'abbiamo già detto, ma giova ripeterlo: pensare di cambiarlo con la mera sostituzione del guidatore, o propugnando un semplice ritorno ai valori costituzionali, sarebbe il peggiore degli errori. Vorrebbe dire alimentare un'illusione che peraltro non illude più nessuno.
Di cosa si nutre, al contrario, quell'autentico esodo popolare dal sistema politico oligarchico rappresentato dall'astensionismo di massa, se non della consapevolezza della sua non riformabilità? E' chiaro allora che non basta proporre un programma economico-sociale alternativo. Questo è necessario, e nel nostro piccolo cerchiamo di contribuirvi, ma non è sufficiente. Occorre anche una proposta di radicale cambiamento del sistema politico. Un rovesciamento delle sue modalità di funzionamento che restituisca un senso alla parola democrazia.
Si discute se dovranno esservi o meno elezioni politiche. Si dibatte se e quale "riforma" dovrà essere messa all'ordine del giorno. Rattoppi di un sistema politico in realtà irriformabile. Meglio, molto meglio, iniziare a discutere di una vera svolta. Della necessità di un'assemblea costituente che guardi alla costruzione di una nuova repubblica. Quella vecchia ormai se ne è andata, e non per colpa del solo Berlusconi. Il quale, al più, gli ha dato soltanto il colpo di grazia.

23 gennaio 2011

dal sito http://www.campoantimperialista.it/index.php?option=com_content&view=frontpage&Itemid=1
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