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martedì 8 dicembre 2020

"SERIAL FILLER" E LA RINASCITA DELLA NARRATIVA DISTOPICA di Stefano Macera










"SERIAL FILLER"

E LA RINASCITA DELLA NARRATIVA DISTOPICA

di Stefano Macera


La drammatica fase che stiamo vivendo ha inciso anche sulla produzione letteraria, portando con sé il ritorno alla narrativa distopica. Lo testimonia Serial Filler. Cronaca di un pandemonio (Scatole parlanti, 2020), primo romanzo di Daniela Maurizi, da tempo impegnata in varie pratiche della scrittura, dal racconto breve alla filastrocca sino alla canzone cantautorale.

Si tratta di un’opera che ha preso forma nei mesi in cui, per contrastare la pandemia in atto, in Italia è stato imposto un confinamento sociale collettivo. Questa esperienza senza precedenti, tale da generare un autentico cortocircuito spazio-temporale, ha creato anche le condizioni per una meditazione a tutto campo sul presente. Il romanzo in questione ne è totalmente impregnato, tanto da non poter essere ridotto a semplice libro sulla pandemia. Certo, vi ritroviamo temi discussi in questi mesi, come il sentimento di paura generalizzato e le nuove tipologie di controllo sociale, instaurate approfittando della grave emergenza sanitaria. Ma vi è anche dell’altro, a cominciare da una seria interrogazione sul nostro rapporto con la natura e sui vari, inquietanti mutamenti che segnano la contemporaneità. Per esempio quelli che riguardano il corpo, che non sono mai neutri, neanche quando si presentano sotto la semplice forma di filler, sostanze iniettate sottopelle per riempire le rughe del viso. La pandemia e il conseguente lockdown sono dunque intesi come momenti di precipitazione di molte delle contraddizioni del nostro mondo e il romanzo, conseguentemente, si muove su almeno due piani. Il primo è una sorta di trasfigurazione di quello che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, restituito attraverso una cronaca stravolta e placidamente allucinata, peraltro spostata nel lontano 2048. Il secondo livello si risolve nel tentativo di mettere a fuoco la direzione che stiamo intraprendendo, perlopiù macchinalmente, come agiti da un meccanismo che ci sovrasta.

Di fatto, le pagine di Serial filler  si sottraggono sempre al laccio della mera attualità, riuscendo così a collegarsi compiutamente a una nobile tradizione letteraria, richiamata nella prefazione dalla scrittrice, commediografa e attrice Enza Li Gioi. Quella delle tante narrazioni distopiche che, in passato, “hanno preannunciato modificazioni sociali poi realizzatesi”. Un traguardo raggiunto da autori che al proprio sguardo non ponevano limiti, sottoponendo ai lettori non l’esito di un’indagine giornalistica, ma le conseguenze dell’urto personale con una realtà che gli altri non potevano o non volevano vedere.  Il grande paradosso di questo tipo di narrativa – che non si racchiude in un genere e può assumere mille forme – è quello di svolgere una missione pubblica senza pretendere di essere “oggettiva”. Immergendoci nella lettura della creazione di Daniela Maurizi, registriamo una salutare conferma di questo approccio. Evidenziata nella stessa caratterizzazione delle due coppie di protagonisti del libro. La prima è costituita dai coniugi von Eyck, Bérénice e Mikael, che proprio in virtù di una vita consumata ai margini del consesso sociale, non partecipano del clima di paura instauratosi in seguito alla diffusione del virus qui detto Bill48. Bérénice, voce narrante di alcuni capitoli, è in realtà l’alter ego dell’autrice, che somatizzerà in modo paranormale e del tutto personale l'insicurezza che sta travolgendo tutti. Mikael è invece lo scienziato che ha deliberatamente rinunciato alla carriera: il suo spirito di ricerca, perciò, non si traduce nel dispensare verità assolute, pratica in cui i suoi colleghi hanno da tempo soppiantato i preti, bensì nell’usare metodi scientifici per mettere in discussione le comunicazioni ufficiali. La seconda coppia è costituita dai due biologi a cui è stato ufficialmente affidato il compito di liberare il mondo dalla minaccia del virus: Willy e Marika. Il primo in un ruolo simile si è pensato sin dall’infanzia, quando sognava di fare il pompiere. Marika, invece, essendo passata per una vita piena di ferite e di psicoterapie, trova nello studio dei microrganismi una sorta di rifugio, un modo per non pensare all’umana natura, che talvolta annoia. In modo trasparente, questi personaggi rappresentano principi opposti ed è attorno a loro che si dispone la narrazione, che riserva diverse sorprese. Ad esempio di natura stilistica: senza mai abbracciare un registro letterario troppo elevato, l’autrice gioca felicemente con i linguaggi più diversi, inclusi quelli specialistici. Persino i termini anatomici, richiamati nella descrizione dei mutamenti che si producono in  Bérénice, partecipano di un vero e proprio gusto ludico, probabilmente legato alla passione per la filastrocca, veicolo d’ogni possibile funambolismo verbale. Ma in molti momenti, dal divertissement si passa ad altro, persino a un’ironia che lambisce la dissacrazione. Si pensi alla descrizione degli espedienti usati per uscire di casa durante il confinamento: “non avendo né soldi né voglia di acquistare o affittare un cane, usavo mio padre, che in quanto ultra ottantenne poteva ragionevolmente aver bisogno di un accompagnatore per fare la spesa, e che io in quanto figlia avevo ancora il diritto di accompagnare fuori, ma solo dopo che avesse fatto la pipì a casa, perché in strada non era consentito”. In sostanza, con modalità proprie si esplora quel vasto territorio dell’umorismo che, nel corso del XX secolo, ha fornito agli scrittori più di un’arma per difendersi dall’aggressiva banalità del senso comune. In linea con tendenze più attuali potrebbe risultare lo sfrenato citazionismo, ma se i richiami artistici, letterari e cinematografici sono tanti, noi riscontriamo una specificità. Oggi, lo scrittore in cerca di successo riempie i suoi testi di citazioni per strizzare l’occhio a un pubblico preciso, ponendo in essere una pratica che, spesso, si collega al tentativo d’individuare nicchie di mercato. Daniela Maurizi, invece, attraverso le citazioni vivifica il pantheon culturale di riferimento senza preoccuparsi ch’esso sia o meno condiviso da chi legge. Diverso dal consueto è anche l’uso, non abbondante ma significativo, delle parolacce. Esse non rimandano né al velleitario tentativo di rompere con i codici accademici né alla ricognizione di realtà degradate propria della letteratura impegnata: più che altro, sono una parte importante del linguaggio quotidiano. D’altronde, i modi di esprimersi ordinari, se ben usati, sono i più adatti a render conto delle esperienze fuori dal comune. Quelle, cioè, che ci mettono continuamente alla prova, spingendoci a superare i nostri limiti. Per i coniugi von Eyck, individualisti per vocazione, ciò coincide con il prendersi cura degli altri, come mai avevano fatto prima. Ad esempio, dopo averlo medicato, adottano un cane gravemente ferito, che oltre a introdurre una variabile in un ménage molto esclusivo, svolgerà anche un ruolo di messaggero profetico. L’apertura al prossimo è confermata pure dal rapporto che si crea tra Bérénice e un bambino del vicinato, Elia.

La relazione con gli altri è costantemente analizzata nel corso della narrazione, come in una velata critica del proprio individualismo, che se permette di sottrarsi al conformismo di massa nello stesso tempo fa perdere preziose dimensioni della vita. Ma la riflessione si dispiega a tutto campo, concernendo anche il rapporto con la natura prima. La quale, a causa di una quarantena che nel libro si svolge per ben due anni, si riprende la scena anche in forme minacciose, assumendo le sembianze di agguerrite cornacchie. Tuttavia, se la natura non è un Eden nemmeno la si può pensare come un inferno e occorre anzi “fare giustizia di un’antica tradizione ottocentesca che contrapponeva la natura violenta e cattiva all’uomo”. Tali calibrate parole non possono far dimenticare che il romanzo offre forse il suo meglio nella minuziosa descrizione del funzionamento di una società distopica, in cui le nostre sorti sono completamente affidate a un Dipartimento Mondiale del Benessere, che ci libera da ogni preoccupazione e addirittura da qualsiasi pensiero. Sono di una certa suggestione i droni che dall’alto distribuiscono il cibo ai reclusi della quarantena, ma un’invenzione ancor più centrata è quella del solo “ente di trasmissione dei dati ufficiali a scala mondiale (…) la University Of Research (UOR)”. Un luogo da cui “usciva la classe dirigente del futuro: soldatini da piazzare nei punti strategici di una scacchiera che avvolgeva come una tovaglia a quadretti l’intero pianeta”. Questo brano rimanda all’aspetto probabilmente più amato dai consumatori di narrativa distopica, che non cercano solo uno sguardo critico sulla realtà, perché concepiscono come un’arte quasi fine a sé stessa la ricostruzione meticolosa di terrificanti società del futuro. Serial Filler può soddisfare questa esigenza, rivelando invece minore incisività nella  parte, per così dire, complottistica, che si presta a riserve ancor più di ordine letterario che di natura contenutistica. E’ vero, dal nostro punto di vista andrebbe rigettato ogni cospirazionismo, perché in ultima analisi il sistema economico dominante, il capitalismo, le sue maggiori malefatte le compie alla luce del giorno, semplicemente distraendo l’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Il rischio di chi va a caccia di retroscena è proprio quello di perdere di vista i “normali” processi di sfruttamento degli esseri umani e di devastazione della natura. Però, il romanzo non è la mera traduzione letteraria delle teorie della cospirazione che sono emerse nel corso della pandemia, quindi il punto è un altro. Nel riferire di poteri forti che non agiscono alla luce del sole vi è forse un eccesso di spiegazioni.

Per dire, nei libri di genere spionistico talvolta le losche trame di chi comanda sono risolte in cenni sparpagliati che, a leggerli bene, nemmeno seguono una logica coerente. Molti critici se ne lamentano, ma gli scrittori del ramo, da vecchie volpi quali sono, sanno che dettagliare troppo spezza l’atmosfera e rallenta l’azione. Insomma, il complotto nitidamente restituito non ha lo stesso, perverso fascino del suo esito: la città del futuro, dove gli esseri umani sono annichiliti e asserviti. In ogni caso, se sul versante complottistico sembrano emergere delle ingenuità, su altri fronti colpiscono l’abilità e la scaltrezza. Pensiamo in particolare a come viene dominata la pratica del “romanzo nel romanzo”, che spesso porta con sé stridori e una certa macchinosità. Per evitare questi limiti, si ricorre a un brillante escamotage narrativo che non anticipiamo ma che abbiamo trovato brillante, perché permette di non intaccare la fluidità del racconto e conferisce al tutto una maggiore unitarietà. Accorgimenti a parte, va peraltro detto che, nel corso della lettura, mai reca fastidio il continuo passaggio dai capitoli narrati in prima persona (incentrati sui von Eyck) a quelli affidati a un secondo narratore misterioso, che si rivela solo nel finale.

Anche questo è un merito della forza comunicativa d’una lingua che, più che quotidiana, si potrebbe definire domestica e che l’autrice sa piegare alle più varie esigenze espressive.




                      Serial Filler - Scatole Parlanti

 










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