Diari di Cineclub

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martedì 30 agosto 2011

L’UTOPIA ROSSA DI VICTOR SERGE di Roberto Massari



L’UTOPIA ROSSA DI VICTOR SERGE


di Roberto Massari

Problème essentiel: il faut prendre parti, il y a toujours une vérité
à chercher, à trouver, à défendre, une vérité qui oblige, impérative.
Ni action ni pensée valable sans intransigeance.
L’intransigeance c’est la fermeté, c’est l’être. Comment la concilier
avec le respect de l’être différent, de la pensée différente [...].
J’aperçois une solution. L’intransigeance combative, contrôlée
par une rigueur aussi objective que possible et par une règle absolue
de respect d’autrui - de respect de l‘ennemi même...

(V. Serge, Carnets, 24 ottobre 1944)*

C’è un Victor Serge anarchico che, reduce dal carcere e dall’internamento, raggiunge il movimento rivoluzionario nella Russia del 1919, divenendo il Serge «bolscevico» che nell’estate del 1920 scrive un panegirico molto poco libertario del processo ivi in corso:

«Chi dice rivoluzione dice violenza. Ogni violenza è dittatoriale. Ogni violenza impone una volontà che spezza le resistenze... Ammetto di non concepire che si possa essere rivoluzionari (se non in modo puramente individualistico) senza riconoscere la necessità della dittatura del proletariato... Pena la morte, pena cioè l’essere immediatamente messi a morte dalla vittoria di una dittatura reazionaria, bisognerà che i rivoluzionari instaurino subito la dittatura» (1) .

E c’è un Victor Serge - sfuggito eccezionalmente allo sterminio dei vecchi bolscevichi, dopo un triennio d’internamento siberiano (Orenburg negli Urali), esule in Messico e conquistato ormai all’idea che sia indispensabile una sintesi rivoluzionaria di pensiero marxista e libertario - che scrive nell’estate del 1947, a pochi mesi dalla morte:

«Il totalitarismo, così come si è instaurato in Urss, nel Terzo Reich e debolmente abbozzato nell’Italia fascista e altrove, è un regime caratterizzato dallo sfruttamento dispotico del lavoro, dalla collettivizzazione della produzione, dal monopolio burocratico e poliziesco (meglio sarebbe dire terroristico) del potere, dal pensiero asservito, dal mito del capo-simbolo...
In questo senso, la rivoluzione proletaria non è più, ai miei occhi, il nostro fine; la rivoluzione che intendiamo servire non può essere che socialista, nel senso umanistico del temine, e più esattamente socialisteggiante, democraticamente, libertariamente compiuta» (2).

In mezzo ci sono le grandi vicende del Novecento (burrascoso dopoguerra, Rivoluzione russa, ascesa dello stalinismo, tentativi insurrezionali in vari Paesi, fronti popolari, guerra civile in Spagna, patto Hitler-Stalin, Seconda guerra mondiale, spartizione del mondo in due blocchi, sconfitta storica del movimento operaio organizzato) vissute in prima persona da un grande scrittore belga-russo, naturalizzato... apolide.

1. Un primo aspetto appassionante dell’opera è dato per l’appunto dal fatto che l’Autore parla a noi, all’umanità e alla Storia (con la maiuscola) dall’interno di quei grandi avvenimenti - o da sopra le loro macerie, come si potrebbe dire, via via che si dipana il filo della narrazione. Le grandi tragedie del Novecento sono «raccontate» da un interprete diretto, attore partecipante, spirito critico, poliglotta, marxista libertario, indomabile e incorruttibile, rivoluzionario umanista che della ricerca della verità ha fatto una ragione di vita, oltre che di lotta sociale, di riflessione politica, insomma di vita lucidamente e rivoluzionariamente vissuta.
Nell’avvicinarsi al testo anche il lettore alle prime armi con questi temi sarà consapevole che il più pesante (decisivo) di quegli avvenimenti - ma il più entusiasmante agli inizi e il più disastroso nel precoce e tragico epilogo - fu la Rivoluzione russa: dal crollo dell’Impero zarista alla rivoluzione popolare di febbraio 1917, dalla conquista soviettista del potere da parte dei lavoratori al trionfo della dittatura burocratica del partito unico: fino all’instaurazione del dispotismo autocratico di un Capo onnipotente - affetto per giunta da gravi psicopatie - passando per il massacro della vecchia guardia interna al movimento dei soviet (anarchici, socialrivoluzionari, menscevichi di sinistra, bolscevichi, opposizione operaia, liberi pensatori ecc.), il ricorso al lavoro coatto e schiavistico (3), la distruzione di qualsiasi possibilità di dissenso e delle principali conquiste operaie, la liquidazione di ogni forma d’autorganizzazione contadina, lo sterminio di intere popolazioni o etnie, l’olocausto complessivo di quindici/venti milioni di cittadini perlopiù sovietici nelle orrende ramificazioni del Gulag. Un crimine contro il popolo russo, contro i popoli dell’Urss, contro il movimento operaio internazionale, contro la dignità umana, contro le sue leggi e le sue più antiche conquiste culturali che si può riassumere solo nella definizione di sistematico «crimine contro l’Umanità», a tutt’oggi imbattuto a) per estensione nel Pianeta, b) per quantità delle vittime e c) per durata nel tempo.

2. Un secondo aspetto è di natura teorica. Per il regime staliniano Serge elabora il concetto di totalitarismo, ne analizza le origini (4) e la diffusione internazionale, arrivando a considerarlo un’autentica impresa criminale (anche se «politica«) di una casta burocratica estranea al movimento operaio. Non impiega la definizione di «crimine contro l’Umanità» (che in dottrina acquisirà personalità giuridica dopo la Seconda guerra mondiale, riferita inizialmente ai soli crimini del nazismo); ma al di là della terminologia appare inequivocabile la sostanza di tutti i suoi scritti finalizzati alla denuncia della barbarie instauratasi sulle conquiste della Rivoluzione d’Ottobre - e le Memorie contengono solo una minima parte, anche se la più importante, di
questo immenso lavoro di denuncia. Fiero di essere stato il primo ad applicare il termine «totalitario» al regime dell’Urss (5) (accomunandolo in tale definizione al nazismo e alle diseguali esperienze di fascismo), arriva a dichiarare - unico tra gli intellettuali direttamente coinvolti nella Rivoluzione (e fin dentro gli anni ‘30!) - che il regime dell’Urss, nato dalla conquista operaia del potere, non aveva più alcun legame sociale, politico o ideologico con quell’atto storico e meno che mai con un processo per quanto deforme di costruzione del socialismo.

«Da tutto ciò si trae una conclusione indiscutibile, e cioè che la lotta tra le opposizioni e la burocrazia non pone più di fronte differenti tendenze del movimento operaio, ma è diventata una lotta di classe. Su questo punto non è permesso farsi alcuna illusione: per riconquistare il diritto di pensare e di agire, la classe operaia sovietica dovrà sostenere ancora lotte non meno crudeli di quelle che sostenne un tempo contro il vecchio regime» (Seize fusillés, settembre 1936).

Nemmeno il più grande teorico della critica all’Urss staliniana - Trotsky, con la Rivoluzione tradita o gli ultimi scritti nella raccolta In difesa del marxismo - aveva osato o era arrivato mentalmente a compiere un simile passo, avendo conservato sino alla fine l’infondata speranza che le origini rivoluzionarie del regime in qualche modo si sarebbero potute manifestare nuovamente in un qualche àmbito della vita sociale (e di conseguenza in qualche settore dell’apparato), o nel recupero delle proprie tradizioni da parte del movimento operaio, o sotto il peso degli avvenimenti - in primo luogo la guerra prossima e inevitabile, di cui il Vecchio (come fraternamente viene sempre chiamato nelle Memorie) riuscì a vedere l’inizio, ma non a coglierne tutte le implicazioni.
Serge invece vide oltre l’inizio della guerra e descrisse lo sconvolgimento sociale e psicologico di un mondo che crollava, insieme all’esodo dei profughi e dei «politici», tra i quali egli stesso, con nomi celebri della cultura «alternativa» del tempo (da Breton a Benjamin). E coglie in pieno le implicazioni del patto Hitler-Stalin, trovando naturale che i due principali totalitarismi si alleassero, ma preannunciando - anch’egli senza essere ascoltato - che Hitler avrebbe rivolto prima o poi le armi contro l’Urss. Nelle Memorie Serge mostra le essenziali somiglianze politiche e ideologiche tra i due regimi totalitari e condanna il famigerato Patto in termini di «acquiescenza dell’Urss allo scatenamento della guerra» (p. 295), ma altrove (6) afferma con chiarezza ciò che ancor oggi non si può dire troppo apertamente o scrivere nei libri di storia (per accordo tacito fra gli Alleati vincitori intercorso alla fine della Guerra e ancora vigente): e cioè che la deflagrazione del conflitto fu resa possibile proprio dall’alleanza di Stalin con Hitler. Una responsabilità storica criminale e gigantesca dei due massimi totalitarismi, per la quale proprio il popolo sovietico ha dovuto pagare il prezzo più alto con l’invasione nazista (Operazione Barbarossa, giugno 1941), con l’impreparazione politica e psicologica alla svolta di Hitler, con la morte di oltre venti milioni tra soldati e civili - e, aggiungiamo noi, col successivo riconsolidamento del regime staliniano intorno al forte sentimento nazionalista di guerra e alla macabra euforia per la vittoria militare sul precedente alleato. Tragedie che per molto tempo non si sono potute dire ufficialmente, ma che Serge scriveva nelle sue memorie in epoche in cui tali verità si pagavano con la vita.

3. Nelle Memorie, dell’uomo Stalin si parla poco e tardi. Ciò è dovuto al fatto che la sua presenza era stata secondaria e discreta in tutta la fase ascendente della Rivoluzione: il suo ruolo fu significativo solo a partire da momento in cui assunse il controllo del Partito bolscevico e dell’apparato statale dittatoriale (che con il Partito era identificato). Di lì in poi Serge tende a parlare soprattutto del regime che Stalin incarnò, trascurando l’individuo. Ma ciò non è vero per altre sue opere, tra le quali la più significativa al riguardo è certamente Portrait de Staline [Ritratto di Stalin, da noi pubblicato nel 1991 e più volte ristampato].
Il libro apparve nel 1940 e fu accolto male perché per la prima volta al mondo si presentava non solo la vera biografia del terribile georgiano - di un capo di stato che tutti i governi volevano tirare dalla propria parte (nazifascisti e «democratici») - ma anche un abbozzo di analisi delle sue motivazioni psicologiche più profonde. L’immagine che ne uscì corrispondeva perfettamente al quadro clinico di un individuo paranoico, ossessionato da complessi d’inferiorità e da pulsioni sadiche - aspetti notori della personalità malata di Stalin che da tempo sono moneta corrente nei libri pubblicati su di lui. Ma scrivere cose del genere nel 1940 e diffonderle negli anni successivi significava rischiare la vita, significava diventare un bersaglio (facile, per giunta) degli agenti assassini della Gpu/Nkvd che già avevano eliminato fisicamente molte note personalità antistaliniane, a volte per molto meno.
Ebbene, la terza ragione per cui ci si può appassionare alla lettura delle Memorie è che Serge, scrivendole, stava rischiando la propria vita, consapevole di poter fare la fine di Nin, Reiss, Blumkin, Sedov, Trotsky e molti altri (a tutti i quali rende commosso omaggio). Un senso di umile eroismo nell’isolamento, «circondato da oscure minacce» (presentimento a p.312), lontano dalle tribune e dai media, ma anche un appassionato attaccamento ai princìpi dell’umanismo rivoluzionario: stati d’animo conflittuali che condizionano il processo creativo della scrittura, difficili da comprendere se non si colloca storicamente il disumanismo del fenomeno staliniano - come le Memorie ci aiutano a fare con dovizia di particolari inediti (7).




4. Il riferimento all’esposizione mediatica (per l’epoca, cartacea e fotografica) ci porta a un quarto aspetto che dovrebbe motivarci a leggere e rileggere queste memorie, per valorizzare lo scrigno inesauribile di tesori ivi contenuti: vale a dire le molte pagine che Serge dedica ai comportamenti dell’intellighenzia letteraria - russa, francese, internazionale - considerandoli evidentemente una delle grandi «questioni» del suo tempo. Come dargli torto...
Addentrandoci in questo mondo incantato fatto di versi, romanzi, quadri e incantatori di professione, vediamo sfilare personaggi celebri o divenuti tali successivamente, figure di scrittori che Serge tratteggia lungamente o con pochi colpi di penna, evidenziandone le caratteristiche salienti in termini fisici e caratteriali. Di alcuni, con i quali ha avuto maggiore dimestichezza o possibilità di frequentazione, racconta episodi che avranno fatto la gioia degli studiosi nel ricostruire le loro biografie. A volte si tratta di scrittori entrati nella leggenda e sorge spontanea la gratitudine verso Serge che c’invita a condividere con lui queste sue irripetibili frequentazioni letterarie. Di molte, ha lasciato traccia anche negli articoli scritti per la rivista Clarté, poi raccolti dall’amico scrittore Henry Poulaille nel volume Littérature et Révolution, pubblicato a Parigi nel 1932.
Ci limiteremo ad estrapolare dei nomi da questa «carrellata» di celebrità letterarie e artistiche, suddividendole in tre categorie: a) i grandi scrittori russi (di vari orientamenti politici e ideologici), b) i grandi scrittori non-russi coinvolti più o meno direttamente nella ragnatela dello stalinismo (che se ne siano poi liberati o no), c) i grandi scrittori non-russi che con Serge hanno condiviso idee importanti, se non addirittura la militanza politica o l’esilio.
Nella prima categoria, tra i molti che andrebbero menzionati, vi sono N. Gumil’ëv, A. Lunacˇarskij, V. Sˇ klovskij, M. Gor’kij, A. Belyj, A. Blok, V. Ivanov, K. Fedin, V. Majakovskij, B. Pil’njak, F. Sologub, E. Zamjatin, B. Pasternak, I. Ehrenburg oltre a scrittori meno noti fuori della Russia, pittori futuristi, storici e filosofi come Ivanov-Razumnik o il noto fondatore dell’Istituto di studi su Marx ed Engels, D. Rjazanov, con cui Serge collaborò intensamente. Al grande poeta simbolista S. Esenin (suicidatosi nel 1925) Serge aveva dedicato un primo ampio lavoro nel 1931, pubblicato a parte. E hanno certamente una forte carica emotiva le pagine in cui si parla degli scrittori suicidi (magistrali quelle dedicate a Majakovskij, oltre che ad Esenin, A. Sobol’...) e più in generale la puntigliosa elencazione dei tanti suicidi compiuti in segno di protesta contro Stalin (A. Ioffe) o per disperazione.
Queste pagine fanno da contrappunto alle altrettanto lugubri elencazioni delle escuzioni degli intellettuali compiute dal regime ormai divenuto totalitario a tutti gli effetti: sono quasi tutti i nomi dell’elenco soprariportato, oltre ai molti meno noti, loro parenti ecc..
Nella seconda categoria ricordiamo solo nomi notissimi - G. Lukács A. Gramsci (frequentato a Vienna), H. Barbusse, R. Rolland, A. Malraux, A. Gide - tra i molti che compaiono e che a volte ebbero ruoli importanti nelle disavventure giudiziarie di Serge: è il caso, prima fra tutti, della personalità molto controversa di Romain Rolland.
Un discorso a parte andrebbe fatto per la tenacia con cui si denunciano più in generale le responsabilità dei membri dell’intellighenzia occidentale (8), colpevoli di pavido silenzio rispetto al dramma epocale che si svolgeva nel «Paese della grande menzogna» (A. Ciliga), e che si lasciarono avvolgere, più o meno consapevolmente, nelle spirali di questa cupa «mezzanotte nel secolo».
È la pavidità di un’intellighenzia «oscurantista» che non si volle mai schierare veramente con gli uni né con gli altri, ma fu sempre disponibile al gioco del potere:
essa ispira a Serge le sue pagine più belle sull’etica e la politica, in parte confluite nella polemica con il Trotsky de La loro morale e la nostra (9) (tradotta in francese dallo stesso Serge).
Nella terza categoria rientrano figure rappresentative della cultura più autentica e anticonformista prodotta fra le due guerre: nomi come J. Reed, E. Goldman, P. Istrati, M. Martinet, Saint-Exupéry, lo storico M. Dommanget, il pittore A. Masson, il drammaturgo E. Toller, A. Breton - ma la lista si allungherebbe se le Memorie non si fermassero al 1941.

5. Vi sarebbero infine i riferimenti storici a centinaia di militanti politici, dai capi celeberrimi della Seconda e Terza internazionale, fino ai più oscuri militanti in Russia, in Francia, in Spagna e altrove. Questo tipo di carrellata è senz’altro unica nel suo genere, perché nell’arco di 42 anni, Serge (figlio a sua volta di emigrati politici, l’uno narodniko e l’altra spenceriana) ha attraversato l’intero ventaglio di organizzazioni che potremmo definire genericamente di «sinistra rivoluzionaria», acquisendo un’esperienza senza pari e una conoscenza straordinaria di tale mondo. Queste acquisizioni verranno tradotte in forma letteraria, partendo dall’adesione del quindicenne Kibal’cˇ icˇ alla Jeune garde socialiste d’Ixelles (1905) e al Parti ouvrier belge [Pob, il partito socialista belga] (1906), che lascia lo stesso anno per fondare, insieme ad anarchici e sindacalisti, il Grb: Groupe révolutionnaire de Bruxelles. La scelta anarchica si perfeziona con la collaborazione al Communiste, a La Guerre Sociale e col gruppo anarchico russo di Bruxelles. La milizia libertaria continua a Parigi, assumendo tinte di anarchismo individualistico, finché non viene coinvolto suo malgrado nel processo alla «banda Bonnot».
Terminati i 5 anni di reclusione (nel 1917), mantiene l’affiliazione anarchica e partecipa all’insurrezione di Barcellona (assumendo lo pseudonimo «Serge»). Internato in Francia, aderisce al Groupe révolutionnaire russe-juif (di tendenza anarchica, ma orientato in senso bolscevico).
A Pietrogrado nel 1919, aderisce al Pcr (Partito bolscevico) e lavora negli uffici dell’Internazionale comunista. Si dichiara ancora «antiautoritario», ma la sua posizione tende a diventare insostenibile: sull’eccidio di Kronsˇtadt del 1921 avrà una posizione ambigua, che abbandonerà in seguito per schierarsi idealmente con gli insorti.
Divenuto una firma nota nella stampa comunista dell’epoca, compie missioni politiche a Berlino e Vienna, entrando in contatto con le realtà militanti di quei Paesi. Schierato con la battaglia dell’Opposizione trotskista, collabora alla rivista Contre le courant. Espulso dal Partito nel 1928, diviene uno dei principali dirigenti dell’Opposizione a Leningrado. Espulso dall’Urss nel 1936, si lega al Poum spagnolo (Nin), ma partecipa anche al Movimento per la Quarta internazionale. Non farà parte della nuova organizzazione, in fraterna ma profonda polemica con Trotsky. Continuerà a richiamarsi al marxismo e alle migliori acquisizioni del
trotskismo, recuperando allo stesso tempo le matrici anarchiche della gioventù (10).
Ancora nel 1943, insieme a Pivert, Gorkin e rifugiati vari, milita nel Csim (Commissione socialista internazionale del Messico). Fino alla morte si manterrà coerentemente marxista libertario (11), ponendo particolare enfasi sulla democrazia e l’umanismo rivoluzionario.

6. La parte propositiva è forse la meno sviluppata nelle Memorie, non solo perché si fermano «alle soglie del Messico», ma per la posizione dominante, quasi schiacciante che vi occupa (a negativo) la degenerazione dell’Urss. Nelle pagine finali si può cogliere l’essenza del messaggio di Serge, ma per l’appunto di «essenza» si tratta, di concetti impliciti, inclusi tra le righe, non esplicitati organicamente. Come invece avviene in altre opere, anche di vari anni precedenti l’esilio messicano, a riprova di una lunga maturazione delle nuove posizioni di Serge che non avremo alcun problema a lasciar definire «utopiche» e «umanistiche», purché sia chiaro che di utopismo rivoluzionario si tratta, e di un umanismo rosso, combattivo e socialista.
Il «nuovo» itinerario del pensiero di Serge è già sintetizzato nella lettera citata a Magdeleine Paz del 1° febbraio 1933. Vi si afferma, sottolineandolo, che «Tutto è messo in questione». Occorre ripartire dall’inizio, superare le divisioni politiche, «istituire tra compagni delle più diverse tendenze una collaborazione realmente fraterna nella discussione e nell’azione». Dopo gli scempi compiuti dal Comintern, dopo il fallimento brutale del bolscevismo, a fronte di una corruzione morale crescente tra le file del movimento operaio, Serge indica tre questioni di principio («superiori a tutte le considerazioni di tattica»), irrinunciabili se si vuole ripartire dall’inizio:
 a) difesa e rispetto dell’essere umano in quanto essere umano (e non solo per la sua collocazione politica o sociale);
b) difesa della verità (in campo storico, letterario, informativo);
c) difesa della libertà di pensiero, di ricerca, di lotta delle idee.

Princìpi ribaditi in una lettera a Trotsky (18 marzo 1939) in cui propone un «riavvicinamento con tutte le correnti operaie di sinistra», per «una discussione libera e franca su tutto» e - cosa inaccettabile per il Vecchio (convertitosi da tempo al bolscevismo più rigido, gerarchico e fallimentare contro cui, invece, aveva brillantemente polemizzato in gioventù) - «la creazione di un Ufficio internazionale, di comitati», formati dai movimenti locali, con rinuncia «all’egemonia del bolscevismo-leninismo nel movimento operaio di sinistra, in vista della creazione di un’associazione internazionale che rifletta il contenuto ideologico effettivo degli strati progressisti della classe operaia»: formulato a positivo, è un netto rifiuto di proseguire sulla via del sostitutismo, del settarismo, della paralisi politica da piccolo gruppo.
In «Potenza e limiti del marxismo» (agosto-sett. 1938), Serge regola i conti con la sclerosi del marxismo indotta dalla degenerazione ideologica del bolscevismo (prima) e dello stalinismo (poi), accusando il marxismo contemporaneo di aver perso il rapporto con le realtà sociali, d’essersi concentrato «in modo anche puerile» su problematiche astratte, d’essere stato «complessivamente conformista», di aver rinunciato alle sue originarie caratteristiche libertarie (concetto ribadito ben due volte nell’articolo) e d’essersi trasformato in uno dei «più temibili strumenti di difesa delle classi privilegiate»: non avendo trovato soluzioni alle necessità di libertà delle masse, esso appare «minacciato oggi da un immenso discredito». Il tempo ha confermato in sovrappiù quanto realistiche fossero queste paure di Serge che, in una nota, rende merito alla preveggenza di Rosa Luxemburg, giacché - come dirà altrove - «i germi di morte che il bolscevismo aveva in sé furono sempre visibili» («Morale e rivoluzione», 1938).
Nel programma della Csim (la Commissione già citata) l’utopia rossa di Serge viene ulteriormente sistematizzata nella forma non di un programma politico, ma di un «orientamento generale» della Commissione stessa. Sono 6 punti così riassumibili:
1) riunificazione di tutte le tendenze socialiste, «ad eccezione di quelle totalitarie»;
2) ricostruzione di movimenti socialisti unitari indipendenti (dalla borghesia, ma anche dallo stalinismo);
3) intransigenza critica verso le correnti che ricercano la collaborazione con la borghesia liberale (senza violenza verbale e settarismi);
 4) autodefinizione della Csim come «tendenza internazionale marxista rivoluzionaria», che rifiuta di costituirsi in setta ideologica separata o ai margini del movimento delle masse;
5) difesa del popolo russo e delle sue conquiste contro il totalitarismo burocratico e rifiuto di collaborare con i rappresentanti di quest’ultimo;
6) impegno per riunire «al di sopra di tutte le tendenze, tutti i gruppi socialisti del mondo», imponendo loro come sola regola comune la solidarietà, il rispetto reciproco e la libera discussione.

Ricordiamo che Serge aveva già tentato di mettere in pratica queste idee nell’agosto del 1936, cercando di convincere il Movimento per la Quarta internazionale a lanciare un appello di unificazione in Spagna tra gli anarchici, i sindacalisti e i marxisti del Poum (lettere a Lev Sedov del 5 agosto e a Lev Trotsky del 10). Sappiamo che le idee di Serge non furono accolte, il Poum fu liquidato dagli staliniani (nonostante e forse proprio per il suo forte contributo alla lotta contro Franco), mentre Trotsky e la Quarta internazionale continuavano nella loro strada settaria, nella tragica imitazione di un partito bolscevico e di una pratica accentratrice dimostratesi storicamente fallimentaria. Una strada che porterà alla fondazione semiclandestina della Quarta nel 1938 e al suo scioglimento di fatto, l’anno dopo, alle soglie del Patto fra nazismo e stalinismo, e alla vigilia dell’assassinio di Trotsky, sancendo in tal modo la sconfitta storica del movimento operaio del Novecento quale Serge aveva saputo prevedere in anticipo.
Occorrerà ancora del tempo perché il messaggio della sua utopia rossa - del suo umanismo rivoluzionario - possa diventare, per la prima volta nella storia, patrimonio di grandi e combattivi movimenti di massa. Fino ad allora - finché la parte più consapevole dell’umanità non avrà compreso la vera natura del totalitarismo burocratico (detto un tempo stalinismo) -si consiglia fraternamente di apprezzare almeno le qualità letterarie di questa grande opera.

19 agosto 2011

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NOTE

* «Problema essenziale: bisogna schierarsi, c’è sempre una verità da cercare, da trovare, da difendere, una verità che costringe, imperativa. Né azione né pensiero validi senza intransigenza. L’intransigenza è la fermezza, è l’essere. Come conciliarla con il rispetto dell’essere diverso, del pensiero diverso [...]. Intravedo una soluzione. L’intransigenza combattiva, controllata da un rigore il più obiettivo possibile e da una regola assoluta di rispetto degli altri - di rispetto anche del nemico» (Carnets, Actes Sud, Arles 1985, p. 126).

(1) Les anarchistes et l’expérience de la Révolution russe, Librairie du Travail, Paris 1921 [Gli anarchici e l’esperienza della Rivoluzione russa, Jaca Book, MIlano 1969, pp. 16-17]. Per stemperare il tono dogmatico del brano cit., consigliamo un testo di Serge scritto a Kiev nel maggio-giugno del 1922: "Le classi medie nella Rivoluzione russa", in Giovane Critica, 15/16, 1967, pp. 106-17. Contiene idee interessanti sul ruolo delle classi medie che Serge riprenderà in «Socialismo e rivoluzione manageriale» a giugno 1941.

(2) «Trente ans après la Révolution russe», in la Révolution prolétarienne, n. 309, nov. 1947 [«Trent’anni dopo», in V. Serge, Socialismo e totalitarismo, a cura di A. Chitarin, Prospettiva, Roma 1997, pp. 159-61].

(3) Serge analizza lo «schiavismo moderno», in «L’Urss a-t-elle un régime socialiste?» (Masses, n. 9/10, giugno 1947), riferendosi ai milioni di forzati nei lager. Anche in «Trente ans», cit., p. 162. Per il «modo di produzione schiavistico», vedi il nostro «Dove è arrivata l’Urss di Andropov e la necessità di una Quinta internazionale» (1983), seguìto da «Precisazioni sul Gulag» (2010), entrambi in http://www.utopiarossa.blogspot.com/


(4) Nel 1919-20 Serge non si oppose all’esistenza della Cˇeka (la polizia segreta creata a dicembre del 1917). Ma retrospettivamente - di certo dal 1939, ma anche prima - definì la nascita di quell’organismo come il primo passo della controrivoluzione in Urss, attribuendo in tal modo la responsabilità della successiva
degenerazione staliniana ai capi bolscevichi (Lenin e Trotsky in prima linea). Si veda di Susan Weissman - «Victor Serge: the forgotten Marxist» - la bella introduzione a V. Serge, Russia twenty years after, Humanities Press, Atlantic Islands (N.J.) 1996, p. XIX. È la traduzione fatta da Max Shachtman nel 1937 di Destin d’une révolution. Urss 1917-1937 (di prossima pubblicazione presso questa casa editrice).

(5) Lo ha fatto nella lettera-testamento a Magdeleine Paz e altri, dell’1 febbraio 1933. Riportandone alcuni brani (v. avanti, pp. 235-6), Serge stesso dichiara di essere il primo ad aver applicato il termine «a uno Stato totalitario, castocratico, assoluto, ubriacato dalla sua potenza, per il quale l’uomo non conta». In altri scritti e in un brano delle Memorie (p. 219), tuttavia, il termine viene connotato in maniera specifica per l’Urss con l’aggiunta dell’attributo «burocratico»: totalitarismo burocratico.
In «Trente ans...», cit., Serge fornisce la sua definizione più precisa del «totalitarismo»: «Un sistema perfettamente totalitario ne consegue, poiché i suoi dirigenti sono i padroni assoluti della vita sociale, economica, spirituale del paese, mentre l’individuo e le masse non godono in realtà di alcun diritto» .

(6) In «Lenin’s Heir?» (fine maggio 1945), Serge afferma che «a partire dalla guerra di Spagna, Stalin è manovrato dal suo nemico mortale Hitler al quale tende la mano per iniziare la guerra europea». Nella stessa occasione accenna al riconoscimento sovietico del governo Quisling (filonazista) dell’Iraq, al servilismo
nei confronti del Giappone, alla disponibilità di Stalin ad arrendersi alla fine del 1941 durante la battaglia di Mosca, al passaggio dalla fiducia cieca in Hitler a quella altrettanto cieca negli Alleati e così via.

(7) Se anche Victor Serge sia stato ucciso o no dagli agenti di Stalin è oggetto di ipotesi sin dall’indomani di quel 17 novembre del 1947 in cui morì di arresto cardiaco, in un taxi a Città del Messico, esattamente come Tina Modotti il 5 gennaio del 1942, nella stessa città, in circostanze analoghe: in un taxi e dopocena (senza dimenticare il grande precedente di Gorkij e i sospetti di avvelenamento che circondarono la sua fine). Congetture che non possono sostituirsi a prove che non ci sono e forse non ci saranno mai: e la nostra civiltà giuridica crede nel principio di non condannare mai sulla base di indizi o supposizioni. Ma l’essere umano non è un apparato giuridico ed è libero di nutrire nell’intimo sensazioni di dubbio o di certezza, anche se queste non acquisteranno mai la dimensione d’indagine documentale o di sentenza giudiziaria.
Chi scrive questa nota ammette di aver sempre pensato che Serge sia stato ucciso con una delle tecniche di avvelenamento elaborate nel famigerato laboratorio di Jagoda negli anni ‘30, impiegate ogni volta in cui la polizia staliniana ha voluto eliminare qualcuno senza lasciar tracce (un obbligo nel 1947, all’estero e in un paese come il Messico). Nell’agosto del 1996, parlando con il figlio Vlady nella sua casa di Cuernavaca, gli esposi questi miei sospetti. In risposta ricevetti solo un sorriso mesto, di malinconica rassegnazione, come a dire: «Sarà pure andata così, ma non lo sapremo mai con certezza». Con certezza giudiziaria no, ma nell’animo e in base a un ragionamento logico-politico resto personalmente convinto che anche Serge sia stato eliminato dagli staliniani e che fin dall’aprile del 1928 egli fosse consapevole di tale concreta possibilità.

(8) Gli «intellettuali brillantemente oscurantisti», come li chiama Serge in «Trente ans...», cit. Non rientrerebbe in tale categoria Hannah Arendt, anche se dispiace constatare che nel suo celebre lavoro del 1951 (Le origini del totalitarismo, Ed. di Comunità, Milano 1967), tra i tanti autori citati e nella sterminata bibliografia, non compare il contributo fondamentale di Serge. La Arendt cita autori a Serge riconducibilii, comeRakovskij, Souvarine, Ciliga, Deutscher e ovviamente Trotsky, ma non Rizzi, Orwell, Volin, Ars' inov ,Mett, e altri autori di provenienza anarchica, trotskista o comunque radicalmente antistalinisti.

(9) Del febbraio 1938. Ne parliamo in due nostri lavori: Trotsky e la ragione rivoluzionaria, Massari editore 1990, 2004, pp. 344-7 e Il terrorismo. Storia, concetti, metodi (1979), id., 1998, 2002, pp. 203-5.
La risposta di Serge - «Morale e rivoluzione» (in Socialismo e totalitarismo, cit.) - fu scritta alla fine del 1938. La posizione etica di Serge è da lui riassunta nella frase «Chi vuole il fine vuole i mezzi, dato che ogni fine richiede mezzi appropriati» (p. 73) e negli appelli ivi disseminati contro l’intolleranza (di Trotsky).
Ma l’importanza dell’articolo risiede nel fatto che Serge enumera alcune gravi violazioni dell’etica rivoluzionaria compiute dal primo governo dei soviet, come la persecuzione degli anarchici, il funzionamento illegale della Cˇeka, il ricorso alle «vecchie armi della reazione» nella guerra civile (la polemica su Kronsˇtadt c’era già stata), per concludere che Stalin e la burocrazia hanno potuto instaurare la loro dittatura e cacciare gli oppositori semplicemente usando i meccanismi legali del potere adottati prima di loro dai bolscevichi.
Serge chiede a Trotsky d’interrogarsi sulle responsabilità proprie e del regime bolscevico leniniano nella vittoria dello stalinismo, ma, lo sappiamo, Trotsky rifiutò di farlo, rendendo così definitiva la rottura con Serge. La polemica tra i due è in La lutte contre le stalinisme (1936-39), a cura di Michel Dreyfus, Maspero, Paris 1977 e in The Serge-Trotsky Papers, a cura di David Cotterill, Pluto Press, London 1994.

(10) Tra le numerose incomprensioni del pensiero di Serge a questo riguardo, va citata Susan Sontag che, in un suo saggio postumo (Unextinguished: The Case of Victor Serge, 2007), in mezzo a imprecisioni e giudizi del tutto gratuiti (anche su Trotsky), definisce Serge «un anticomunista» e lo ripete addirittura tre volte: il testo è tradotto come introduzione alla nuova ed. ital. de Il caso Tulaev, Fazi, Roma 2005. Restando nel tema delle «incomprensioni», citiamo anche la risposta che un grande studioso della storiografia sovietica (Jean-Jacques Marie) ha dato a un giornalista che era riuscito a scrivere un lungo articolo sul Victor Serge politico senza mai nominare Trotsky, il trotskismo e l’Opposizione di sinistra: «Jean Birnbaum, du Monde: un petit menteur par (grosse) omission», in Cahiers du mouvement ouvrier (CERMTRI), n. 47/2010, pp. 105-6

(11) Si veda la definizione in Daniel Guérin, Per un marxismo libertario (1969), Massari ed., Bolsena 2008, e la nostra introduzione:«Marxisti libertari oggi».
http://stefano-santarelli.blogspot.com/2010/08/marxisti-libertari-oggi-di-roberto_28.html
 In preparazione di D. Guérin, Per il comunismo libertario.

sabato 27 agosto 2011

RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE IN LIBIA di Marco Ferrando



LA CADUTA DI GHEDDAFI
RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE IN LIBIA

di Marco Ferrando


La caduta della dittatura di Gheddafi è, in ultima analisi, uno sbocco della rivoluzione araba. Ma la natura controrivoluzionaria della direzione politica della rivoluzione libica consegna questo successo all'imperialismo. Il cui intervento militare, sostenuto e sponsorizzato dal CNT, era ed è finalizzato a preservare il controllo imperialista sul paese, contro le esigenze di liberazione democratica e sociale del popolo libico e delle masse insorte.
Più in generale i disegni imperialisti sono il principale nemico delle aspirazioni di libertà e autonomia dell'intero popolo arabo. La lotta contro le attuali direzioni della rivoluzione araba, e contro i loro alleati imperialisti, sulla base di un programma anticapitalista, è condizione decisiva per il suo sviluppo e per la piena affermazione delle sue stesse istanze democratiche: in Libia, in Tunisia, in Egitto , in tutta la nazione araba.

LA CADUTA DI GHEDDAFI, FRUTTO DELLA RIVOLUZIONE ARABA

La caduta del regime totalitario di Gheddafi- partner privilegiato e bipartisan dell'imperialismo italiano- è l'esito conclusivo del processo aperto dall'insurrezione libica del 17 Febbraio, a sua volta inseparabile dalla sollevazione del popolo tunisino ed egiziano. Senza la sollevazione popolare del 17 Febbraio, fuori dalla dinamica della rivoluzione araba, il regime di Gheddafi sarebbe ancora in piedi, con l'imperturbabile sostegno , già decennale, di tutti i governi imperialisti e dello stesso Stato sionista d'Israele.( E sicuramente con l'appoggio del Venezuela di Chavez, che tuttora esalta Gheddafi come “un socialista fratello”).
E' invece caduta una dittatura sanguinaria, certo segnata alle origini da un connotato piccolo borghese “antimperialista”, militarmente distorto, di tipo nasseriano ( colpo di stato degli ufficiali liberi del 1969), ma pienamente integrata da tempo nel nuovo ordine imperialista internazionale: con la solenne benedizione prima dell'amministrazione Clinton, e poi definitivamente dell'insospettabile amministrazione Bush (2004).
La rivolta contro Gheddafi non è stata la ribellione “etnica” della Cirenaica, ma una rivolta nazionale che ha trovato la sua espressione non solo a Bengasi, ma a Misurata, nella maggioranza delle città costiere della Tripolitania, nelle popolazioni berbere dell'Ovest, e all'inizio, in parte, nella stessa Tripoli( per essere qui falcidiata nelle prime 48 ore dalla repressione militare del Regime).
La domanda popolare che ha ispirato la rivolta non è stata diversa da quella che ha mosso la più ampia rivoluzione araba: una domanda di libertà, di diritti, di emancipazione sociale contro un regime oppressivo, familistico, privilegiato.
La giovanissima generazione di scebab in armi di Bengasi, i resistenti eroici di Misurata, le milizie montanare berbere hanno combattuto per la propria liberazione. Le sovrapposizioni tribali e di clan che pur esistono- e che segnano storicamente assai spesso i processi di liberazione dei popoli oppressi, come del resto oggi in Yemen e in Siria- non cancellano questa verità.
Se la rivoluzione libica, a differenza della rivoluzione tunisina o egiziana, si è rapidamente trasformata in guerra civile non lo si deve ad una sua diversa “natura”, ma alla immediata reazione militare del regime: il quale, a differenza che altrove, poteva godere di un apparato militar repressivo relativamente compatto attorno al clan dominante, e quindi pronto ad una reazione frontale.
Porsi al fianco della sollevazione popolare contro il regime era dunque il primo dovere elementare dei rivoluzionari di tutto il mondo. Contro la logica “campista” di chi ha scelto la difesa del regime contro la sollevazione, o di chi si è attestato sulla linea della neutralità tra oppressi ed oppressori, o di chi si è ritagliato il compito di osservatore distaccato e scettico degli avvenimenti.

UNA DIREZIONE LIBICA CONTRORIVOLUZIONARIA E FILOIMPERIALISTA

Ma il sostegno alla rivoluzione libica, dentro l'appoggio più generale alla rivoluzione araba, non ha mai significato da parte nostra alcun sostegno alla sua direzione. Così come l'appoggio alla sollevazione tunisina o egiziana non ha mai significato e non significa il benchè minimo adattamento alle sue leaderschip e ai governi borghesi e filoimperialisti che oggi guidano quei paesi, e che sono i peggiori nemici di quelle rivoluzioni.
E' vero l'ESATTO contrario. Sin dall'inizio, contro ogni affidamento illusorio alla pura dinamica rivoluzionaria, abbiamo insistito su un punto decisivo: solo un'altra direzione della rivoluzione, basata su un programma anticapitalista e dunque antimperialista, avrebbe potuto e potrebbe dare una prospettiva conseguente alla rivoluzione araba. E la lotta per questa direzione alternativa non può che implicare la contrapposizione più radicale, dal versante della rivoluzione, alle attuali direzioni borghesi e filoimperialiste delle rivolte. Pena l'inevitabile tradimento delle stesse ragioni democratiche delle rivoluzioni.
Il caso libico ha offerto una conferma clamorosa a questa tesi marxista. Una conferma se possibile ancor più netta di quella espressa dallo scenario tunisino ed egiziano.
La direzione della rivoluzione libica si è concentrata da subito nelle mani di un entourage controrivoluzionario, selezionato dalla stessa dinamica degli avvenimenti. Il CNT di Bengasi ha rappresentato certamente un raggruppamento eterogeneo di forze, segnato da contraddizioni profonde. Ma il baricentro del CNT è stato rappresentato da transfughi del vecchio regime, ex ministri di Gheddafi, ex comandanti militari delle sue truppe: i quali hanno concentrato nelle proprie mani le leve essenziali del governo provvisorio, delle relazioni diplomatiche, delle relazioni economiche internazionali. Il loro obiettivo non era quello dei giovani insorti per la libertà della Libia. Era quello di riciclarsi come carta di ricambio dell'imperialismo, al servizio della continuità dell'oppressione della Libia.

L'INTERVENTO DI GUERRA DELL'IMPERIALISMO E I SUOI SUCCESSI

I governi imperialisti hanno giocato qui, con relativo successo, le proprie carte. Non perchè “avevano orchestrato tutto sin dall'inizio, sollevazione di Bengasi inclusa”, come dicevano e tuttora dicono tanti dietrologi “campisti” che surrogano la comprensione della realtà ( complessa) con l'eterno schema del “complotto” ( infinitamente più semplice). Ma perchè proprio la direzione controrivoluzionaria della rivolta offriva all'imperialismo un canale diretto di inserimento nella partita libica. In funzione dei propri interessi e contro le ragioni di fondo della rivoluzione: per aprirsi un varco di più diretto condizionamento non solo sulla dinamica libica, ma sull'intero scacchiere arabo in rivolta.
L'intervento militare imperialista ha rappresentato il punto di congiunzione, e di progressiva saldatura, tra gli interessi della direzione controrivoluzionaria del CNT e quelli dell'imperialismo.
I vertici del CNT non solo hanno invocato l'intervento militare imperialista, ma sono andati ben al di là di un suo “utilizzo” per il rovesciamento del regime. Hanno fatto leva sull'intervento militare per approfondire ed estendere i propri legami con l'imperialismo. Per conquistarsi il ruolo di affidabili fiduciari dei suoi interessi. Per garantire ai governi imperialisti la continuità dei patti miserabili realizzati con essi da Gheddafi ( inclusa l'infamia dei campi lager per i migranti). Per assicurare i grandi gruppi economici internazionali, a partire da petrolieri e costruttori, sulla piena salvaguardia dei loro affari in Libia. Cercando peraltro a loro volta di inserirsi nelle contraddizioni imperialistiche, per offrire a turno le proprie mercanzie. Chi- come il grosso dell'entourage di Bengasi- puntando all'asse privilegiato con l'imperialismo italiano, in più diretta continuità con la tradizione del vecchio regime. Chi- come i dirigenti della sollevazione arabo berbera ad ovest- assecondando l'ambizione dell'imperialismo francese di scalzare l'Italia in fatto di pozzi e commesse. Il rovesciamento di Gheddafi lascerà aperta la partita sugli equilibri interimperialisti nel controllo del paese. Ma certo le direzioni della rivolta hanno donato la Libia e la sua rivoluzione al controllo dell'imperialismo.
L'euforia dei titoli in Borsa delle grandi aziende energetiche italiane e francesi è il riflesso economico di questo dato politico.

LE CONTRADDIZIONI APERTE. L'ORDINE NON REGNA IL LIBIA

Tuttavia, come in Tunisia e in Egitto l'affermazione di governi borghesi filoimperialisti ( militare in Egitto, civile in Tunisia) non ha stabilizzato la situazione economica e sociale, è assai probabile che lo stesso accada in Libia.
Contrariamente a chi vede la storia come un teatrino di marionette orchestrate da un imperialismo onnipotente, la stessa composizione di un nuovo governo libico e di un nuovo equilibrio istituzionale nel paese si annuncia assai complicato. Gli stessi imperialisti ne sono coscienti. Quarantadue anni di regime totalitario hanno fatto tabula rasa di presenze politiche organizzate. Il ruolo delle tribù, a lungo preservato dal vecchio regime, è un retaggio potente. Lo Stato stesso si è identificato più che altrove in un clan dinastico, ed è largamente privo di un'ossatura disponibile, amministrativa e militare, per un altra gestione.
L'imperialismo, come in Irak, si troverà di fronte al dilemma se utilizzare il vecchio apparato statale, per quanto asfittico e odiato, o se scioglierlo in attesa del nuovo. E pare, non a caso, stia propendendo per la prima soluzione ( non avendo oltretutto a differenza che in Irak una presenza di truppe occupanti sul suolo e avendo parecchi problemi in più, economici e politici, per dispiegarle). Ma decine di migliaia di giovani combattenti, di uomini e donne insorte per la libertà, come accoglierebbero la permanenza ai posti di comando di tanti aguzzini del vecchio regime? Oppure, nello scenario opposto: come reagirebbero all'eventuale dispiegamento sul campo di truppe straniere di occupazione ( come oggi chiede l'imperialismo inglese), quale strumento d'ordine interno in assenza di un apparato statale spendibile e affidabile? Oggi sventolano ingenuamente le bandiere francesi, italiane o magari americane, perchè le identificano con la propria “libertà”. Ma come reagirebbero se dovessero scoprire che quelle bandiere e i loro bombardieri sono garanti della “libertà” di tanti loro nemici, o di una nuova forma di oppressione?
Le stesse contraddizioni non tarderanno a manifestarsi su altri terreni. Chi metterà le mani sugli enormi investimenti finanziari del vecchio regime ( tramite “Lia” e Banca di Libia) nel capitale finanziario europeo e americano? Gli imperialisti scongelano i fondi. Ma il controllo e l'uso di quei fondi sarà oggetto di un contenzioso sociale.

Oppure: quale confronto si aprirà in ordine alla nuova costituzione dello Stato tra le componenti laiche della rivoluzione e le tendenze islamiste in via di rafforzamento? L'annuncio della Scharia nella Costituzione della nuova Libia ha poco a che fare con la domanda di libertà ed uguaglianza che si è levata nel popolo di Bengasi, e col proliferare in Cirenaica di centinaia di organi di stampa, di movimenti per i diritti civili, delle organizzazioni femminili, dei primissimi embrioni di sindacati indipendenti.

E soprattutto: che ne sarà del “popolo in armi”?. Gli imperialisti hanno posto come prima esigenza il disarmo degli insorti e il ritorno alla “sicurezza” ( innanzitutto per i propri investimenti e ricchezze). E' la condizione posta dagli stessi Sarkosy e Berlusconi sul tavolo dei negoziati col CNT. I loro amici del CNT hanno naturalmente assentito. Ma non sarà semplice. Decine di migliaia di giovani hanno combattuto la “propria” rivoluzione con le armi in pugno. Il grosso della popolazione libica è entrata in possesso di armi durante la guerra civile. Un Kalascnikov costa cento euro sul mercato di Tripoli e di Bengasi. Non a caso questa è la prima preoccupazione di un grande capitalista come Scaroni (ENI) che, dopo aver rassicurato il Corriere della Sera ( e le sue banche proprietarie) sulla stabilità degli interessi italiani in Libia, candidamente avverte:” La situazione è confusa..ci sono migliaia di ragazzi giovani col mitra che scorazzano per Tripoli.. questo è un problema serissimo”( Corriere 24 Agosto). Già. Come assicurare la continuità del proprio dominio sulla Libia, nel momento in cui non si dispone più della “sicurezza” garantita dal vecchio regime(..”antimperialista”) e dai suoi sgherri?

PER UN ALTRA DIREZIONE DELLA RIVOLUZIONE ARABA

Tutto lascia pensare che la caduta di Gheddafi, e l'attuale successo militare e diplomatico imperialista in Libia, non chiuderanno affatto la partita libica. E' impossibile predire gli eventi. Ma rivoluzione e controrivoluzione continueranno a confrontarsi- in forme diverse e con dinamiche imprevedibili- in uno scenario altamente instabile e terremotato. Molto, certamente, dipenderà dalla dinamica più generale della rivoluzione araba, che oggi conosce un andamento molto contraddittorio ( arretramento in Egitto, radicalizzazione in Siria).
Ma l'elemento decisivo, ancora una volta, in Libia come ovunque, è l' emergere di una nuova direzione politica della rivoluzione araba. Tutta l'esperienza storica di questi 9 mesi di rivoluzione araba dimostra la verità di fondo del marxismo rivoluzionario: non c'è possibilità di affermare e consolidare i contenuti democratici della rivoluzione in paesi arretrati e dipendenti senza rompere con l'imperialismo, e quindi con le borghesie nazionali sue alleate. Senza rompere con l'imperialismo e con le borghesie nazionali sue alleate ( laiche o islamiche), ogni vittoria contro la tirannia di vecchi regimi dispotici, per quanto importante, è condannata a ripiegare, prima o poi, sotto una nuova forma di sottomissione e dipendenza. Da questo punto di vista,in forme certo diverse, la Libia segue Tunisia ed Egitto.
Al tempo stesso non è possibile lavorare per l'emergere di una direzione marxista rivoluzionaria- e quindi coerentemente antimperialista- se non a partire da un internità al processo rivoluzionario : se non a partire da una chiara scelta di campo per la sollevazione popolare contro la tirannia. Questa è stata ed è la nostra scelta di campo. In Tunisia, in Egitto, in Libia, come in Siria o in Yemen.
Quelle componenti “neostaliniste” o “bolivariane” che o rifiutano l'esistenza stessa di processi rivoluzionari, o rifiutano di schierarsi al loro fianco- spesso formalmente nel nome dell'”antimperialismo”- non lo fanno perchè più “radicali”. Lo fanno, consapevolmente o meno, per la ragione opposta: perchè non sono interessate alla rivoluzione nel mondo reale, ma al suo surrogato “ideologico” nel mondo immaginario. Magari vedendo la “rivoluzione socialista” nel colonnello Chavez e nelle sue leggi antisciopero, l'”antimperialismo” nel regime clerico fascista iraniano, il “comunismo” nella Cina dei capitalisti miliardari. (E dopo aver votato, in qualche caso, tutte le peggiori porcherie dei due governi Prodi in Italia).
Chi invece persegue la rivoluzione reale per il governo dei lavoratori - contro i suoi travestimenti mitologici- sceglie come proprio campo di lotta il terreno della lotta di classe, dei movimenti di massa , dei processi rivoluzionari . Confrontandosi con la loro complessità e le loro contraddizioni. Non confondendo mai le ragioni delle rivoluzioni con la natura e i progetti delle loro direzioni controrivoluzionarie. Contrapponendosi sempre all'imperialismo. Lottando ovunque per la costruzione del partito rivoluzionario: in Italia, come in terra araba, come in tutto il mondo.

26 Agosto 2011

dal sito http://www.pclavoratori.it/files/index.php?c1:o57:e1

lunedì 22 agosto 2011

PERCHE' UN ECOSOCIALISMO LIBERTARIO


PERCHE' UN ECOSOCIALISMO LIBERTARIO


Nella confusione e nella diaspora che tuttora affliggono il variegato mondo del socialismo italiano ritrovare alcuni punti fermi di indirizzo che possano essere utili a rilanciare una identità ed una prassi condivisa da tutti coloro che avversano il modello del pensiero unico e della globalizzazione del totaliarismo neoliberista, che si impone a suon di bombe e speculazioni finanziarie, è quanto mai utile e necessario.
Utile come strumento di consapevolezza, soprattutto per capire che le crisi finanziarie globali rappresentano la frattura profonda di un artificio tutt'altro che inossidabile, che esse piovono inesorabili su interi stati e popoli, specialmente i più poveri ed emarginati, non come una pioggia acida senza rimedio, di fronte alla quale solo i privilegiati possono credere di aprire l'ombrello che li mette al riparo. Ma che esse sono un fenomeno tra i più terribili e rovinosi, messo in atto scientificamente da essere umani il cui unico fine è l'uso delle risorse umane e naturali per fini di profitto.
Necessario perché se un tempo il motto era «socialismo o barbarie», oggi, debitamente aggiornato, con le attuali sfide che mettono a serio rischio la sopravvivenza di intere specie viventi sul pianeta, dovute ad un modello di sviluppo che ignora l'equilibrio tra le relazioni umane e quello tra noi e la natura, esso diventa necessariamente «ecosocialismo o suicidio globale».
L'Ecosocialismo accoglie pienamente questa nuova sfida del terzo millennio ed offre una via d'uscita al modello neoliberista imperante con la sua proposta di democrazia partecipativa e in equilibrio con la natura. Non è un modello utopistico.
Come scrive il teologo e filosofo Leonardo Boff, infatti, «Tra molti progetti esistenti in America Latina come l’economia solidale, l’agricoltura organica familiare, le sinergie alternative pulite, la Via Campesina, il Movimento Zapatista e altri, vogliamo metterne in evidenza due per il rilievo universale che rappresentano: il primo è il «Ben Vivere», il secondo la «Democrazia Comunitaria e della Terra», come espressione di un nuovo tipo di socialismo...La democrazia sarà dunque socio-terrena-planetaria, la democrazia della Terra. C’è gente che dice: tutto questo è utopia. E di fatto lo è, ma si tratta di una utopia necessaria. Quando avremo superato la crisi della Terra (se poi la supereremo), il cammino dell’umanità potrebbe essere questo: globalmente ci organizzeremo intorno al “Ben Vivere”, a una “Democrazia della Terra”, alla biocivilizzazione (Sachs). Già esistono segnali anticipatori di questo futuro.»
La prospettiva dell'Ecosocialismo del XXI secolo è configurata anche nel manifesto di Michael Lowy e Joel Kovel, in cui viene rilevato, tra l'altro che «se affermiamo che il capitale è radicalmente insostenibile e si frammenta nelle barbarie appena descritte, allora affermiamo anche che è necessario costruire un socialismo capace di superare le crisi che il capitale ha provocato nel tempo. E anche se i socialismi del passato non sono riusciti a farlo, se scegliamo di non sottometterci ad un destino barbaro, allora abbiamo l’obbligo di lottare per un altro socialismo che sia capace di vincere. Allo stesso modo in cui la barbarie è cambiata in modo da rispecchiare il secolo trascorso dal momento che Luxemburg ha espresso la sua speranzosa alternativa, il nome e la realtà del socialismo devono essere quelli che richiede il nostro tempo.
Per questi motivi chiamiamo ecosocialismo una nostra interpretazione del socialismo e abbiamo deciso di dedicarci alla sua realizzazione. Vediamo l’ecosocialismo non come la negazione, ma come la realizzazione dei socialismi del primo periodo del XX secolo, nel contesto della crisi ecologica. Come quei socialismi, il nuovo si costruisce a partire dalla percezione del capitale come lavoro oggettivato e si fonda sul libero sviluppo di tutti i lavoratori o, per dirlo in altre parole, sulla fine della separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione
Non possiamo più dunque considerare che possano esistere degli aggregati politici basati sulla separazione di concetti ormai talmente interdipendenti da non sussitere affatto nella loro singola consistenza specifica, se ancora considerati separatamente tra loro come socialismo, democrazia ed ecologia.
Non hanno più senso conseguentemente partiti che siano «democratici», «socialisti» o «ecologisti», separatemente, e non ne hanno in particolare, ancor di più, se non sono capaci di interagire per creare insieme delle valide alternative politiche ai modelli imperanti.
Non parliamo poi del fatto che alcuni sopravvivono usando tali «attributi» solo come mascheramento di interessi localisti, clientelari e mirati solo al controllo del territorio per fini personalistici o di mantenimento del potere di casta.
L'affermazione di un sostanziale dominio di modelli plutocratici e monopolisti è dovuto proprio in gran parte a tale fattore: si usa il profitto e la speculazione finanziaria per sovvenzionare modelli di governo che non trovano davanti a loro stessi valide alternative.
E queste ultime non vengono messe in atto perché in quella che dovrebbe risultare una opposizione credibile e attivamente impegnata a creare alternative popolari, regna sovrano il diktat del «divide et impera», spesso suffragato da una sorta di «prostituzione» con cui i cosiddetti oppositori si lasciano comprare, pur di restare divisi, inefficaci e collaterali ad un intero sistema di sfruttamento e di smantellamento dei diritti essenziali dei cittadini, i quali, spesso, sono indotti a svolgere solo un ruolo di sudditi impotenti e, quando votano, attribuiscono, nella maggior parte dei casi, il loro consenso ad un leader o ad un «contenitore partitico vuoto», privo cioè di progettualità ed efficacia.
L'Ecosocialismo richiede dunque, a tal fine, una coscienza avanzata, una capacità di attenzione ai fenomeni in atto, con strumenti adeguati di controinformazione ed una forza di mobilitazione che non sia condizionata e veicolata dalle forze politiche, sindacali ed economiche dominanti, in particolare da quegli strumenti mediatici che sono al servizio del sistema imperante.
La cultura libertaria è stata lungamente attiva nella prima metà del secolo scorso, come ricorda bene Robin Hahnel: "All'inizio del XX secolo, il socialismo libertario era una forza potente tanto quanto la socialdemocrazia e il comunismo". L'Internazionale libertaria - fondata con il Congresso di Saint Imier qualche giorno dopo la rottura tra marxisti e libertari al Congresso dell'Internazionale Socialista dell'Aia nel 1872 - si batté con successo per più di cinquant'anni contro social-democratici e comunisti al fine di conquistare la fedeltà degli attivisti anticapitalisti, dei rivoluzionari, dei lavoratori e dei membri di sindacati e partiti politici. I socialisti libertari ebbero un ruolo cruciale nel corso della Rivoluzione messicana del 1911. Venti anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, i socialisti libertari erano ancora sufficientemente forti da ritrovarsi alla testa di quella che sarà la rivoluzione anticapitalistica di maggior successo che le economie industriali abbiano mai conosciuto, la Rivoluzione sociale che scosse la Spagna repubblicana nel 1936-1937."
Essa purtroppo è stata in seguito fortemente messa in crisi dall'avvento dei totalitarismi, prima politici e poi economici, che, dopo averne fatto il loro bersaglio privilegiato, si sono affermati e combattuti nelle loro convulsioni distruttive, durante la seconda metà del Novecento, sia con armi potentissime sia con politiche neocoloniali e regimi imperialistici di vasta portata e che ancora sono messi in atto mediante il modello totalitario della globalizzazione a fini di profitto.
Oggi, però, tale orientamento va molto al di là di queste radici, e, grazie al particolare valore che esso attribuisce alla libertà e alla consapevolezza umana, non intesa genericamente in senso collettivo, ma a partire da ciascuna libera coscienza individuale, si rivolge validamente a tutti coloro che vogliono efficacemente lottare contro tutti i condizionamenti di carattere culturale, materiale ed economico (povertà, indigenza, emarginazione) che ostacolano sia la giustizia sociale che la libertà di ciascuno.
Un grande autore libertario come Berneri asseriva che «la libertà umana è capacità di sorpassare ostacoli, interni od esterni, e di crearsi.» Non vi è dunque un assioma ideologico alla base di un impegno ecosocialista libertario, ma semplicemente la creatività di un percorso e la capacità di scoprire in esso un'etica di condivisione non soltanto del bisogno e delle prospettive di sviluppo umano, ma anche di orizzonti e di rapporti con l'ambiente naturale, e con la biodiversità che, non l'uomo in se stesso, ma l'attuale modello di pseudo civiltà umana imperante minaccia con spietata volontà distruttiva.
Diceva un grande studioso libertario della terra come Jacques Élisée Reclus, già agli albori dello sviluppo industriale, che i fenomeni che osserviamo nella natura non vanno considerati isolatamente, ma nelle loro imprescindibili relazioni: "studiare a parte e in modo dettagliato l'azione particolare di questo o quell'elemento dell'ambiente: freddo o caldo, montagna o pianura, steppa o foresta, fiume o mare in una determinata tribù; ma è attraverso uno sforzo di pura astrazione che ci si ingegna a presentare questo particolare dell'ambiente come se esistesse in maniera distinta e che si cerca di isolarlo da tutti gli altri per studiarne l'influenza essenziale. Persino laddove quest'influenza si manifesta in modo assolutamente preponderante nei destini materiali e morali di una società umana, essa si frammischia ad una congerie di altri stimoli concomitanti o contrari nei loro effetti. L'ambiente è sempre infinitamente complesso e l'uomo è di conseguenza sollecitato da migliaia di forze diverse che si muovono in tutti i sensi, sommandosi le une alle altre, alcune direttamente, altre seguendo angoli più o meno obliqui, oppure contrastando reciprocamente la loro azione". L'uomo non è che una parte organica di un sistema complesso e variamente articolato da cui non può prescindere e in cui non può in alcun modo pretendere di imporsi.
Egli ci ricorda che stessa lotta tra le classi, che egli testimoniò partecipando alla Comune di Parigi, non è altro che "la ricerca dell'equilibrio".
Tale lotta oggi è globale per riequilibrare il mondo, e va dunque affrontata con strumenti culturali, economici e sociali globalmente avanzati.
Con questa consapevolezza ci rivolgiamo fiduciosi a tutti coloro che vorranno annaffiare questo grano di senape affinché diventi albero frondoso per restituire ossigeno alla terra, frutti e frescura all'umanità e rifugio sicuro per gli uccelli di un cielo più limpido e trasparente.

C.F.
 
21/08/2011
 
dal sito  http://ilsocialistalibertario.blogspot.com/

mercoledì 17 agosto 2011

LIBERAZIONE NAZIONALE E PROLETARIATO: L'I.R.A.


LIBERAZIONE NAZIONALE E PROLETARIATO:
L'I.R.A.

di Riccardo Achilli




Introduzione

La sinistra a volte è vittima di un abbaglio caratteristico, quando si trova ad analizzare le lotte di liberazione nazionale da oppressioni, coloniali o neo-coloniali, esterne. In questi casi, scatta sovente il riflesso condizionato di schierarsi a favore di tali lotte, in nome di istanze anti imperialistiche, senza però analizzare a fondo la natura degli interessi sottesi ai movimenti di liberazione, non sempre del tutto trasparenti. Da quando Rosa Luxemburg elaborò le sue teorie sull’imperialismo come fase necessaria dello sviluppo capitalistico alla ricerca di sbocchi commerciali per il plusvalore accumulato, vi è una tendenza, direi istintiva, a condividere con simpatia le sorti delle organizzazioni che dichiarano di lottare per liberare il proprio popolo da una dominazione esterna.
Spesso però le determinanti di tali lotte, ma soprattutto, delle organizzazioni che le conducono sono, o dovrebbero essere, oggetto di maggiore cautela. Non di rado, infatti, dietro tali lotte si nascondono contrapposizioni fra spezzoni della borghesia, alla ricerca di un posizionamento migliore nella catena globale di distribuzione del plusvalore generato dal capitalismo mondiale. Tali lotte vedono spesso le borghesie nazionali contrapporsi ad una potenza imperialistica esterna, al fine di ritagliarsi margini di maggiore autonomia nella gestione delle risorse economiche del proprio Paese (e quindi trattenere una maggiore quota del plusvalore derivante dalla valorizzazione sul mercato globale di dette risorse), a volte anche combattendo altre fazioni della borghesia dello stesso Paese, orientate verso una posizione compradora. Altre volte, lo stesso movimento di liberazione nazionale potrebbe essere etero-diretto da interessi capitalistici esterni, che lo utilizzano come elemento di un conflitto con altri interessi capitalistici. Chiaramente, in questi casi, gli esiti che si vengono a determinare, anche quando il movimento di liberazione ottiene una vittoria, non sono favorevoli alla causa del proletariato locale (meno che mai per quello globale), e si verificano situazioni di rivoluzioni mancate, o di liberazioni nazionali guidate da una fazione borghese che riesce a costruire nuovi assetti economici e politici tali da perpetuare il capitalismo, semplicemente sostituendosi al precedente dominatore esterno, oppure alla fazione borghese locale che ne curava gli interessi. Ovviamente, non è sempre così, e ci sono movimenti di liberazione ispirati a reali istanze ed interessi di emancipazione del proletariato e di contrasto all’imperialismo globale.
Il caso dell’Irlanda del Nord è per certi versi esemplificativo di una lunghissima e sanguinosa in nome della liberazione di un popolo da un dominatore esterno, che però, nonostante le forti connotazioni socialiste e marxiste che l’hanno attraversata, non ha condotto a niente di diverso da un parziale cambio di testimone alla guida del capitalismo locale, senza generare un radicale cambiamento di sistema.

La storia

Alla fine della prima guerra mondiale, l’Ulster era la provincia dell’Irlanda più intensamente industrializzata, governata dalla Gran Bretagna, come l'intera Irlanda. La storia dell’Ulster era già caratterizzata da una lunghissima e sanguinosa lotta fra repubblicani, fautori dell’indipendenza o dell’unificazione con il resto dell’Irlanda, prevalentemente cattolici ed unionisti, in larga misura protestanti. La violenza politica era esacerbata da secoli di immigrazione di inglesi, protestanti, avviatasi già dall’inizio del XVII secolo.
Nel 1912 gli unionisti, al fine di boicottare le già blande guarentigie dell’Home Rule, formarono una forza paramilitare, la Ulster Volunteer Force, che dal 1914 fu armata ed assistita anche finanziariamente dalla Germania del Kaiser, interessata a creare focolai di violenza sul territorio del nemico contro il quale era impegnata in guerra. In risposta, i nazionalisti irlandesi crearono gli Irish Volunteers, antesignani dell’IRA. Sulla base del trattato anglo-irlandese post bellico, quando nel 1922 la Repubblica d’Irlanda divenne indipendente, il parlamento dell’Irlanda del Nord, controllato dagli unionisti (di fatto, alle elezioni generali del 1918, gli unionisti avevano conquistato la maggioranza assoluta dei voti nella sola provincia dell’Ulster, mentre nel resto dell’Irlanda i nazionalisti indipendentisti del Sinn Fèin avevano trionfato), optò per rimanere sotto la corona britannica. La violenza politica, che sino ad allora era rimasta sostanzialmente su un profilo di bassa intensità, esplose.
All’interno dell’IRA, si verificò una spaccatura fra la fazione capeggiata da Michael Collins, rispettosa del trattato anglo-irlandese del 1921, e la fazione che, in nome di un’Irlanda unita ed interamente indipendente dal dominio britannico, iniziò la lotta armata, che terminò, con la sostanziale sconfitta dei ribelli, nel maggio del 1923, inflitta dal governo nazionalista irlandese, guidato dal primo ministro de Valera, aiutato cospicuamente dalla Gran Bretagna. Di fatto, de Valera, in cambio dell’indipendenza dell’Irlanda sud occidentale, accettò di lasciare l’Ulster in mani britanniche, tradendo gli indipendentisti dell’IRA che sino ad allora erano stati alleati della politica nazionalista del Sinn Fèin. In effetti, de Valera, un tempo agguerrito indipendentista anti britannico, si era già accordato con la nascente borghesia irlandese e con quella inglese, ansiose di terminare il conflitto, per avviare i loro affari reciproci (tanto che poco dopo avrebbe abbandonato il Sinn Fèin, per formare un nuovo partito, di ispirazione liberaldemocratica, centrista e borghese, il Fianna Fail, che finirà per governare per 61 degli ultimi 79 anni, in coalizione, di volta in volta, con i laburisti o la destra; sarà definito come “il partito pragmatico dell’establishment economico irlandese”).
Come conseguenza di tale sconfitta, gli indipendentisti dell’IRA entrarono in clandestinità. Iniziò una lunghissima guerra civile, di fatto ancora non del tutto terminata, benché sia stato stipulato un trattato di pace. Nel 1938, l’Ira ricomporrà i suoi rapporti con il Sinn Fèin, che ne diventerà a tutti gli effetti il braccio politico, risentendo quindi di tutti i cambiamenti di linea politica e le torsioni interne cui l’IRA sarà sottoposta. La guerra clandestina portata avanti dall’IRA nel territorio della Repubblica d’Irlanda fu gradualmente spenta, perdendo sempre più il consenso della popolazione, grazie alle abili politiche di de Valera, che da un lato allargavano lo spazio di partecipazione democratica, dall’altro lusingavano lo spirito nazionalista irlandese, guardandosi però bene dallo stuzzicare il potente vicino britannico, con formali richieste legali di riunificazione dell’Irlanda del Nord, del tutto inefficaci e non supportate da nessuna reale volontà politica. La grande povertà in cui versava l’Irlanda fece il resto: l’iniziale assenza di qualsiasi proposta di politica economica e sociale da parte dell’IRA, concentrata esclusivamente sulla lotta per l’unificazione dell’Irlanda indipendente, e dovuta essenzialmente all’ostracismo sulle tematiche sociali, manifestato dalla componente borghese e cattolica che ne faceva parte, contribuì non poco ad allontanare l’organizzazione dagli interessi immediati del proletariato, peraltro numericamente molto ridotto, in un Paese sostanzialmente agricolo, e quindi molto conservatore.

Il primo esperimento di spostamento a sinistra della linea politica dell'IRA: il “socialismo repubblicano” degli anni Trenta

La base sociale contadina e piccolo-borghese della nuova Irlanda indipendente chiedeva soprattutto pace e stabilità, dopo aver ottenuto l'indipendenza dalla corona britannica, e ciò determinò il progressivo isolamento dell'IRA nella neonata Repubblica irlandese. Viceversa, nell'Irlanda del Nord, che, come detto, aveva beneficiato dei più intensi processi di industrializzazione di tutta l'isola, vi era un proletariato urbano ed industriale molto più esteso ed influente, e l'azione dell'IRA, che nell'Ulster era mirata soprattutto a difendere i cattolici dagli attacchi delle formazioni paramilitari unioniste, le valse un maggior consenso fra la popolazione. Di conseguenza, la base di consenso sociale dell'IRA si spostò sempre più dall'Irlanda indipendente all'Ulster ancora sotto controllo britannico, la cui maggioranza cattolica chiedeva l'indipendenza dalla Gran Bretagna e la fine delle violenze unioniste ai suoi danni.
Inoltre, la focalizzazione dell'azione militare sempre più forte sull'Ulster, e quindi su un'area dove era forte l'influenza politico-sindacale del proletariato industriale, favorì lo spostamento a sinistra dell'IRA. Pertanto, nei primi anni'30, l'IRA fu caratterizzata da una impostazione politica che venne denominata “socialismo repubblicano”, in cui alle tradizionali istanze nazionaliste e repubblicane si affiancarono elementi di rivendicazione sociale e sindacale. Proprio l'assenza di una proposta in materia economica e sociale era infatti considerata, dalla dirigenza dell'organizzazione, come una delle cause della sconfitta nella guerra civile. L'IRA si propose quindi come propugnatrice di rivolte tributarie a favore dei piccoli contadini, appoggiò scioperi, si alleò con il partito comunista irlandese, fondando anche l'associazione degli “amici dell'Unione Sovietica”. Inoltre, la componente marxista dell'IRA, guidata da Peadar O'Donnell, fondò “Saor Eire”, vero e proprio braccio politico di estrema sinistra dell'organizzazione, i cui obiettivi erano:

1 – unire, sotto la propria guida, proletari industriali e salariati agricoli irlandesi, al fine di promuovere una rivoluzione anti imperialista nei confronti della Gran Bretagna, che ancora controllava l'Ulster, e anti capitalista, nei confronti della repubblica irlandese;

2 – assegnare al controllo proletario le terre ed i mezzi di produzione;

3 – rivitalizzare e promuovere la lingua e la cultura nazionale irlandese.

Come si vede, tale organizzazione si proponeva un curioso mix di leninismo e nazionalismo, con una altrettanto bizzarra accentuazione della difesa delle antiche tradizioni culturali ed etniche del popolo irlandese, sicuramente piuttosto strana e non scevra da rigurgiti reazionari, e coerente con la volontà di stuzzicare il tradizionale spirito nazionalista di quel popolo.
Al di là delle stranezze e delle contraddizioni teoriche di una linea politica rivoluzionaria che difendeva tradizioni culturali formatesi in epoche pre capitalistiche e capitalistiche, fu sul piano pratico che l'esperienza di Saor Eire, e più in generale del socialismo repubblicano fallì, nel giro di pochissimi anni. La Chiesa cattolica ed il governo irlandese, oltre che quello sottoposto alla guida britannica nell'Ulster, sottoposero tale organizzazione ad una severa repressione. Ed anche fra le fila dell'IRA, O'Donnell e la sua organizzazione furono molto rapidamente emarginati. Il motivo? Semplice: l'IRA era fondamentalmente una organizzazione che poggiava su una base sociale piccolo-borghese, molto influenzata dalla Chiesa cattolica. Come scrisse lo storico Tom Mahon (2008): “l'IRA era una organizzazione cospiratrice piccolo-borghese, non un'armata di operai e contadini. Era fortemente radicata nell'idea ottocentesca di rivoluzione nazionale ed i suoi pochi socialisti erano sostanzialmente periferici nella struttura di comando....inoltre, O'Donnell non riuscì mai a spiegare cosa ne avrebbe fatto della frazione protestante della classe proletaria, che non aveva alcuna intenzione di essere “liberata” dall'IRA, anche a costo di usare le armi”.
Lo stesso concetto fu espresso da Kevin O'Higgins, membro attivo dell'IRA: “siamo probabilmente i rivoluzionari dalla mentalità più conservatrice che abbiano mai portato avanti una rivoluzione”.
Conseguentemente, l'allora leader dell'IRA, Moss Twomey, su sollecitazione dei suoi referenti ecclesiastici, misa al bando O'Donnell e la sua organizzazione, e quando questi, nel 1933, provò a riorganizzarla all'esterno dell'IRA, la boicottò fino a farla fallire. Fino al 1969, di fatto, l'IRA avrebbe seguito una linea politica nazionalista e conservatrice.
La stessa figura di Twomey è molto significativa, e vale la pena di analizzarla con attenzione, perché molto rivelatrice dei gruppi di potere e dell'ideologia politica che sostenevano l'IRA. Figlio di una famiglia molto cattolica, non disdegnò di supportare i governi irlandesi guidati dalla destra del Fianna Fail nel reprimere i Blueshirts, movimento paramilitare fascistoide, anche se la sua organizzazione, formalmente, era in guerra contro il governo irlandese. Nel 1930 fece una visita segreta negli USA, dove strinse le prime alleanze con le lobby irlandesi legate al partito repubblicano statunitense, che come si vedrà meglio nel seguito diventò, con gli anni, il principale supporto militare ed economico dell'IRA. Ovviamente lascio al lettore giudicare il potenziale rivoluzionario di una organizzazione finanziata soprattutto dagli USA. Durante il suo arresto, la sua famiglia venne mantenuta economicamente dal Clan na Gael, una organizzazione di irlandesi negli Stati Uniti, che supportava i candidati del partito repubblicano USA, e che nel 1914 face da tramite fra i nazionalisti irlandesi e la Germania del Kaiser per la fornitura di armi nella guerra di liberazione irlandese. E strettamente alleata con la Irish Republican Brotherhood, una organizzazione segreta che operò a favore dell'indipendenza irlandese, ma anche a favore di quel Michael Collins, leader dell'IRA, che nel 1921, come si ricorderà, difese il trattato che poneva le basi per la secessione “de facto” dell'Irlanda del Nord dalla neocostituita Repubblica irlandese. In particolare, i soldi alla famiglia di Twomey arrivavano dal presidente del Clan na Gael, Joseph Mc Garrity, irlandese emigrato negli USA, businessman milionario, che non esitò a tentare di stringere un patto di alleanza con la Germania nazista, incontrando Goering a Berlino nel 1939, per fornire supporto militare all'IRA contro il governo britannico.


Gli anni Sessanta: una nuova sperimentazione di virata a sinistra

Nel 1969, quando in Ulster iniziarono i Troubles, l'IRA sperimentò una seconda fase di virata a sinistra della sua linea politica, dopo decenni di conservatorismo nazionalistico, cattolico e repubblicano. Desmond Greaves e Roy Johnston furono gli sipiratori di tale virata, tramite il giornale della Connolly Association, “Irish Freedom”, e l'allora leader dell'IRA, Cathal Goulding, ne fu l'attuatore politico. La nuova leadership politica ed intellettuale sosteneva che l'IRA non avrebbe dovuto continuare ad usare le armi per difendere i lavoratori cattolici contro quelli protestanti, perché la lotta armata contribuiva a fare gli interessi della borghesia britannica e di quella irlandese, che avevano tutto da guadagnare da una guerra fra proletari di opposte fazioni. Da tali visioni derivò una progressiva riduzione dell'attività militare dell'IRA, che però fu pagata a caro prezzo. Ad Agosto 1969, sfruttando anche il rilassamento militare dell'organizzazione, i miliziani unionisti, a Belfast, diedero alle fiamme numerose chiese cattoliche, uccidendo sei civili cattolici.
D'altro canto, in uno scandalo esploso nel 1970, emerse che il governo irlandese guidato, come sempre, dal Fianna Fail, aveva cercato di passare armi a fazioni non marxiste dell'IRA fin dagli anni Sessanta. Fu quindi chiaro che, di fronte ad una progressiva estensione di idee e linee politiche marxiste in una organizzaizone militarmente e politicamente potente come l'IRA, e di fronte ad una strategia che mirava ad unificare i due proletariati – cattolico e protestante – in una lotta di classe contro la borghesia irlandese e l'imperialismo inglese e statunitense, mani invisibili si mossero, dal cuore stesso della destra politica irlandese, oltre che da quella inglese (è noto ed è inutile ripetere che i gruppi paramilitari unionisti sono sempre stati mossi dal governo britannico, tramite infiltrati dei servizi segreti).
Tutto ciò portò alla rottura del Dicembre del 1969:. si formarono così due organizzazioni, la Official IRA, influenzata dal marxismo, e la Provisional IRA, che raccoglieva soprattutto (anche se non solo, essendo anche popolata da marxisti) gli elementi borghesi e cattolici dell'IRA tradizionale. Ciò provocò una analoga scissione nel Sinn Fèin, tradizionale alleato politico dell'IRA.
Gli Officials, coerentemente con l'idea (corretta, ma ovviamente sabotata dalla destra inglese ed irlandese) che occorreva evitare guerre, basate sulle differenze di religione, che opponessero la classe lavoratrice cattolica a quella protestante, a tutto beneficio della borghesia, si fece parte attiva di una politica di graduale riduzione dell'attività militare mirata a cessare un conflitto fra proletari, fino al cessate-il-fuoco dichiarato nel 1972, mentre a livello politico perseguiva una linea basata sul contrasto ad ogni bigotteria religiosa, fonte di grandi tragedie nella storia dell'Ulster. Gli officials perseguivano una politica di rivoluzione a tappe. Primo, interrompere la guerra civile per raggiungere l'unità fra proletari cattolici e protestanti, poi riunificare l'Irlanda, ed infine promuovere una rivoluzione socialista. Nel fondamentale manifesto del 1977, chiamato “Irish Industrial Revolution”, si stabilì che l'attenzione dei proletari veniva deliberatamente distratta dagli obiettivi di lotta di classe, per focalizzarla su questioni nazionalistiche/religiose, e che l'imperialismo USA aveva di fatto preso il controllo della Repubblica d'Irlanda.
Gli Officials furono resi di fatto inoffensivi dall'esclusione dai tradizionali canali di rifornimento delle armi utilizzati dall'IRA (ed in particolare da quelli più redditizi, che passavano tramite le lobbies irlandesi negli USA), dai continui, sanguinosi regolamenti di conti con i Provisionals, e dalle scissioni interne (nel 1974, da una scissione nacque il partito socialista repubblicano d'Irlanda, o IRSP, guidato da Seamus Costello, contrario all'abbandono della lotta armata contro la Gran Bretagna e le forze unioniste, e quindi al cessate-il-fuoco del 1972. L'IRSP ingaggiò fin da subito un sanguinario conflitto con gli Officials, fino alla tregua del 1977, rotta però dal susseguente omicidio di Costello. Ciò portò a una prosecuzione della guerra fra le due organizzazioni almeno fino al 1982, quando l'esecutore dell'omicidio di Costello fu a sua volta trucidato). Con la decisione di consegnare alle forze di sicurezza il proprio arsenale di armi, nel 2009, l'Official IRA è del tutto scomparsa dalla scena politica nordirlandese. Di fatto, questi ultimi non poterono mai stabilire aree di controllo permanente sui quartieri cattolici delle due principali città, Belfast e Derry, né poterono accedere ad ampi e regolari rifornimenti di armi (dagli archivi Mitrokhin, emerge che solo l'Urss, sporadicamente, inviò piccoli quantitativi di armi agli Officials).
Mentre gli Officials, dopo il cessate il fuoco del 1972, avevano terminato la guerra di liberazione contro gli unionisti e le forze di sicurezza britanniche, e, tranne occasionali regolamenti di conti con le altre fazioni indipendentiste, avevano imboccato la strada politica, i Provisionals, che con la loro lunga scia di sangue contribuirono non poco a rendere marginale l'esperimento degli Officials (si calcola che uccisero almeno una cinquantina di dirigenti Officials), sono quelli che, nella vulgata comune, vengono normalmente identificati come l'IRA vera e propria. I Provisionals continuarono dunque la guerra contro i britannici e le forze lealiste fino al cessate il fuoco del 1998 ed alla cessazione completa delle ostilità con l'accordo politico del 2005 (che però ha lasciato qualche strascico di violenza anche fino ad oggi). Per quanto anche loro attraversati da idee politiche socialiste, raccolsero l'anima borghese e cattolica della vecchia IRA, ed anche i suoi contatti fra le comunità e le lobby capitalistiche degli irlandesi negli USA. Inutile dire che godettero di finanziamenti, rifornimenti e coperture politiche incredibilmente superiori a quelle di cui poterono godere gli Officials.
Nonostante le idee socialiste che li attraversarono, i Provisionals combatterono per una causa nazionalistica, basata sulla unificazione dell'Irlanda e dell'Ulster sotto un governo repubblicano e di tipo federale, con parlamenti regionali in quattro province, ed un parlamento centrale. Il loro programma, Eire Nùa, doveva essere attuato tramite una guerra civile continuativa contro le forze unioniste e gli occupanti britannici, fino all'obiettivo di ottenere il ritiro delle forze britanniche dall'Ulster, e prevedeva nient'altro che uno Stato democratico borghese, a statuto federalista, dove anche gli unionisti dell'Ulster avrebbero avuto un ruolo, sia pur minoritario.
Significativo è anche il ruolo di mantenimento dell'ordine e della legalità assunto dai Provisionals nelle aree sotto il loro controllo, spesso esercitato con un livello di durezza repressiva e securitarismo, specie contro il traffico di droga, degno di organizzazioni di vigilantes di estrema destra.
In sintesi, i Provisionals non fcero altro che resuscitare quella mentalità da “rivoluzionari conservatori” che era tipica della vecchia IRA, stringendo legami di consenso con la piccola borghesia e con la Chiesa cattolica, e portando avanti un programma politico tipicamente nazionalista e borghese. Per cui, la battaglia contro il dominio britannico dell'Ulster, da parte della vecchia IRA così come dei Provisionals, non assunse mai un connotato anti-imperialista nel vero senso della parola, ovvero nel senso di lotta di liberazione del proletariato locale da un oppressore esterno alleato con le borghesie locali, ma fu piuttosto, come specificato in premessa, una battaglia per larghi versi combattuta fra fazioni locali della borghesia, cattolica e protestante, fatta utilizzando il proletariato locale come “carne da cannone”.
Ovviamente anche l'analisi delle fonti di rifornimento delle armi dei Provisionals è molto significativa. Esattamente come nel caso della vecchia IRA, il grosso dell'arsenale veniva acquistato negli USA, tramite un emigrato irlandese, tale George Harrison, ed un gruppo di supporto per l'Irlanda del Nord, denominato NORAID. Molti fatti sono significativi. Nel 1981, Harrison fu arrestato a New York per traffico internazionale di armi, ma, benché i suoi rapporti con la criminalità organizzata fossero evidenti, venne immediatamente prosciolto da ogni accusa. Il NORAID, che nel suo statuto dichiarava di essere un'associazione che perseguiva l'unificazione dell'Irlanda con mezzi esclusivamente pacifici e legali, venne messo sotto processo, negli USA, nel 1981. In tale processo, NORAID fu obbligata a dichiarare che l'IRA era il “suo referente principale” (e l'IRA era considerata un'organizzazione terroristica illegale negli USA). Nonostante ciò, un tribunale statunitense autorizzò NORAID a scrivere una dichiarazione in cui smentiva quanto precedentemente acclarato giudiziariamente, ovvero il suo legame con l'IRA. Incredibilmente, l'ufficio del procuratore distrettuale (lo stesso che aveva inizialmente perseguito NORAID) validò tale dichiarazione, e quest'ultima poté continuare, indisturbata, a finanziare l'IRA. Difficile non pensare, da tutto ciò, che l'IRA non godesse di potenti appoggi politici nell'establishment statunitense.

Verso la fine dei giochi

Un simile connotato borghese della lotta di liberazione nazionale condotta dai Provisionals non poteva che degradare verso inconclusive “pacificazioni”, nel momento in cui la borghesia stessa (non solo quella locale, ma anche quella globale, che con gli enormi incentivi fiscali che l'Irlanda ha offerto agli investitori esteri ha fatto cospicui affari, e che oggi vorrebbe ripetere questo modello anche in una pacificata Irlanda del Nord) riteneva che la guerra civile stessa non fosse più conveniente per i suoi obiettivi economici. L'inconclusiva pacificazione è stata avviata dal 1983, con l'avvento alla guida dell'IRA di Gerry Adams, il più politico ed ambiguo fra i comandanti dell'organizzazione. Gerry Adams stimolò una maggiore politicizzazione dell'IRA, con una riduzione del peso delle azioni militari ed un incremento dell'attività politica tramite il Sinn Fèin, che condusse all'accordo di pace del 1998, che ha determinato l'attuale assetto dell'Irlanda del Nord. Si tratta essenzialmente della sconfitta definitiva del progetto nazionalista originario dell'IRA, che ha lottato per decenni per l'indipendenza dell'Ulster dalla Gran Bretagna e per un'Irlanda unita, mentre con l'attuale accordo si è ottenuto soltanto uno statuto regionalista di particolare autonomia nell'ambito di una sovranità che rimane in mani britanniche; persino lo statuto dell'IRA che contemplava l'obiettivo di unificazione dell'Ulster con il resto dell'Irlanda è stato riscritto, per renderlo inoffensivo e non turbare gli interessi imperialistici degli USA nella Repubblica irlandese, divenuta una sorta di paradiso fiscale per gli investimenti industriali delle grandi multinazionali. C'è un episodio poco noto ma significativo: nel 994, il Presidente Clinton rilasciò un visto di accesso negli USA a uno dei leader dell'IRA, Joe Cahill, nonostante il fatto che la legge statunitense impedisse l'accesso nel Paese ad esponenti di organizzazioni considerate come terroristiche. Cahill era, in effetti, uno dei principali alleati del “pacificatore” Adams, e la sua visita negli USA servì per convincere le lobbies irlandesi locali a fornire supporto al processo di pace in Ulster, che evidentemente, quindi, interessava molto il vertice politico statunitense, e quindi la borghesia a stelle e strisce.
E' anche, a maggior ragione, la sconfitta del progetto delle componenti di sinistra dell'IRA, quello cioè di ri-orientare la lotta da obiettivi meramente nazionalisti ad obiettivi di classe, riunificando gli interessi del prolatariato cattolico e di quello protestante contro il comune nemico di classe, e quindi superando la guerra nazionalistica fra poveri che per decenni ha incatenato il proletariato irlandese su obiettivi che non erano i suoi.
Di fatto, oggi, con gli assetti decisi nell'accordo di pace del 1998, il proletariato nordirlandese continua ad essere diviso da linee di religione e di odio, sottostando ad istituzioni politiche diverse (protestanti e cattolici sono infatti governati da due entità esecutive distinte) e continuando anche a vivere in condizioni di isolamento fisico (le divisioni fra quartieri protestanti e cattolici nelle città sono infatti ancora in piedi) e senza prospettive di poter riprendere la lotta su obiettivi di classe (la Real IRA, nata nel 1997 in opposizione al processo di pace, guidata da Michael McKevitt e dalla sorella di Bobby Sands, oltre che essere impostata sui tradizionali obiettivi repubblicani e nazionalisti della vecchia IRA, quindi su un programma politico conservatore, appare oggi molto isolata nella società nordirlandese, tanto che lo stesso Adams, rompendo con le tradizioni dei leader dell'IRA, che non avevano mai pubblicamente condannato azioni armate di fazioni rivali, ha ufficialmente preso le distanze dagli attentati della RIRA). La stessa popolarità di cui gode il “pacifista” Adams (che raccoglie ingenti quantità di voti popolari, ogni volta che si presenta a qualche elezione) è un indicatore significativo. Evidenzia come il proletariato nordirlandese si sia stancato di versare sangue per una causa nazionalista e repubblicana che non sente come propria, che non corrisponde ai suoi interessi di classe, e che nella realtà dell'Ulster odierno nessun movimento politico significativo riesce a rappresentare.

Conclusioni

Certamente, l'IRA fu percorsa, durante tutta la sua storia, da idee socialiste e marxiste, ed anche da figure leggendarie e di grande valore rivoluzionario, come Bobby Sands, morto durante lo sciopero della fame del 1981. Ma le idee socialiste, e le persone che le propugnavano, furono tollerate solo fintanto che potevano essere utilizzate strumentalmente. La fase del “socialismo repubblicano” fu tollerata da Twomey fintanto che portava a nuovi reclutamenti di volontari nei quartieri operai di Belfast e Londonderry. La morte eroica di Bobby Sands fu utilizzata come strumento di marketing, grazie ad una massiccia propaganda da parte degli organi di stampa vicini all'IRA ed al Sinn Fèin (tanto che dopo la sua morte le adesioni di volontari ai Provisionals aumentarono vertiginosamente). La componente socialista che esisteva anche all'interno dei Provisionals servì anche per procurarsi armi da canali alternativi a quelli statunitensi (per cui i Provisionals ricevettero rifornimenti dalla Libia di Gheddafi e dalla Cecoslovacchia).
Quando queste componenti non servivano più o divenivano pericolose, venivano sistematicamente liquidate. Di fatto, i tentativi di imprimere un connotato di classe alla lotta dell'IRA furono sistematicamente soffocati, prima di tutto all'interno stesso dell'organizzazione, come si verificò nella fase del “socialismo repubblicano” e come si verificò con la distruzione dell'Official IRA, perpetrata in buona parte dai fratelli-coltelli della Provisional IRA. Il nucleo centrale della lotta armata repubblicana irlandese rimase sempre ancorato ad interessi e valori tipicamente borghesi e cattolici, fu ampiamente infiltrato da interessi imperialisti esterni, in primis statunitensi oltre che dalla stessa borghesia irlandese. Gli esiti di tale lotta, come si è visto, non poterono che essere negativi per gli interessi del proletariato, e favorevoli alla borghesia globale. Oggi l'Ulster, guidato da ex guerriglieri dell'IRA come Adams, vende se stesso come nuova frontiera per gli investimenti diretti esteri, imitando le politiche economiche fatte dall'Irlanda, che tanti danni hanno apportato al popolo irlandese, come la recente cronaca economica ci evidenzia.
 
 
1 agosto 2011
 
dal sito http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/
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