Diari di Cineclub

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Rivista Cinematografica online e gratuita

domenica 27 luglio 2014

LETTERA APERTA AL VENTO di Noa

   

LETTERA APERTA AL VENTO
di Noa


Saluti dal nostro angolo del Medio Oriente, dove ultimamente si è scatenato l’inferno.

Terrorizzata, angosciata e depressa, frustrata, arrabbiata …. Ciascun’ondata emotiva concorre con l’altra per dominare sul mio cuore e sulla mia mente … nessuna ha la meglio, e io annego nell’oceano in ebollizione creato dal loro connubio.

C’è un allarme missili ogni ora da qualche parte vicino casa mia. A Tel Aviv, è anche peggio. Mio figlio e io oggi abbiamo fermato la nostra auto in mezzo alla strada e ci siamo precipitati in un vicolo vicino fino a che la sirena penetrante non ha smesso di suonare … alcuni minuti dopo abbiamo sentito tre fragorose esplosioni che hanno fatto tremare i muri. Nel Sud la situazione è insostenibile. Le loro vite laggiù sono giunte alla paralisi, la loro sopravvivenza annientata; trascorrono la maggior parte del loro tempo nei rifugi anti bombe. In gran parte i missili sono intercettati dal nostro sistema di difesa, ma non tutti. Ogni civile è un obiettivo, i nostri bambini sono traumatizzati, le loro ferite emotive sono irreversibili.E i tunnel, scavati sottoterra, che raggiungono la soglia delle case di alcuni abitanti dei Kibbutz al confine di Gaza … negli oscuri meandri dei miei incubi immagino a cosa sono destinati: contrabbando, rapimenti, torture, omicidi …! I nostri soldati sono in prima linea. Vi sono nostri figli, figli di nostri amici e vicini, giovani uomini e donne dei questo paese chiamati al dovere dal nostro governo … e già, bare avvolte nella bandiera, funerali inondati dalle lacrime, vite distrutte, il Kadish, la sconvolgente ben nota routine.

sabato 26 luglio 2014

NESSUNO VUOLE DAVVERO FERMARE ISRAELE di Alessandro Dal Lago




NESSUNO VUOLE DAVVERO FERMARE ISRAELE
di Alessandro Dal Lago

Gaza sotto attacco. L'ipocrisia dei governi europei e dell'amministrazione americana



La stri­scia di Gaza è mar­ti­riz­zata da tre­dici anni, dall’inizio della seconda Inti­fada. Perio­di­ca­mente Israele, in rispo­sta ai lanci di razzi, al rapi­mento di un sol­dato o all’uccisione di gio­vani coloni, sca­tena offen­sive (dai nomi fan­ta­siosi o truci, come “arco­ba­leno” o “piombo fuso” ecc.) dal cielo, dal mare e a terra.
Dall’inizio del mil­len­nio, sono morti circa 6.400 pale­sti­nesi e poco più di 1000 israe­liani, senza dimen­ti­care le cen­ti­naia di pale­sti­nesi vit­time della guerra civile tra Hamas e Anp. Ogni volta, gli stra­te­ghi israe­liani giu­rano che il con­flitto in corso sarà l’ultimo, ma chiun­que nel mondo sa che si tratta di una favola. Anche se la stri­scia di Gaza – una fascia costiera abi­tata da una popo­la­zione pari a quella della Ligu­ria, ma con una super­fi­cie quin­dici volte più pic­cola – fosse com­ple­ta­mente ridotta in mace­rie, qual­che razzo potrebbe essere ancora spa­rato e quindi il con­flitto riprenderebbe…

Per com­pren­dere il senso di una guerra appa­ren­te­mente infi­nita, basta con­fron­tare le carte della Pale­stina nel 1946 e oggi. Se allora gli inse­dia­menti dei coloni ebrei erano una man­ciata, soprat­tutto nel nord, oggi è esat­ta­mente il con­tra­rio: una spruz­zata di inse­dia­menti pale­sti­nesi cir­con­dati da Israele e dai suoi coloni, con la stri­scia di Gaza iso­lata a sud-ovest. Non ci vuole molta fan­ta­sia per com­pren­dere che la stra­te­gia di Israele, in nome di una sicu­rezza asso­luta di cui non potrà mai godere, è quella di cac­ciare più pale­sti­nesi pos­si­bile, con le infil­tra­zioni dei coloni in Cisgior­da­nia e con le azioni mili­tari a Gaza.

Rap­porti pub­bli­cati da Human Rights Watch, agen­zie Onu e Amne­sty Inter­na­tio­nal mostrano ormai, senza pos­si­bi­lità di dub­bio, che lo sra­di­ca­mento dei pale­sti­nesi è per­se­guito con l’espulsione dalla terre col­ti­va­bili, l’interruzione perio­dica dell’energia elet­trica e il blocco delle risorse idri­che. D’altronde che l’esercito con­si­de­rato il più “pro­fes­sio­nale” al mondo rada al suolo scuole gestite dall’Onu e uccida soprat­tutto civili la dice lunga sulla vera stra­te­gia di Israele verso i palestinesi.

Mai come oggi, i pale­sti­nesi di Gaza sono stati così soli. Hamas non gode della pro­te­zione dell’Egitto, come ai tempi di Morsi, né della sim­pa­tia dei sau­diti e di quasi tutti gli stati arabi. Né riceve vera soli­da­rietà da parte di Abu Mazen. E, ovvia­mente, in quanto orga­niz­za­zione uffi­cial­mente defi­nita “ter­ro­ri­sta”, è avver­sata da Stati Uniti ed Europa. Ma tutto que­sto non spiega, né tanto meno giu­sti­fica, il silen­zio ipo­crita dei governi occi­den­tali e tanto meno della cosid­detta opi­nione pub­blica indi­pen­dente sulle stragi di Gaza.

Lasciamo stare il nostro Pre­si­dente del con­si­glio e l’ineffabile mini­stro Moghe­rini, la cui ascesa spiega per­fet­ta­mente il ruolo tra­scu­ra­bile della poli­tica estera nella cul­tura gover­na­tiva ita­liana. Ma che dire dell’incredibile squi­li­brio poli­tico e morale nella valu­ta­zione uffi­ciale del conflitto?
Basti pen­sare che un B.-H. Lévy, l’eroe della fasulla rivo­lu­zione libica e il mesta­tore di Siria, da noi passa come un pro­feta della pace e della giu­sti­zia. Che cen­ti­naia o migliaia di imbe­cilli, in Europa o altrove, tra­sfor­mino il con­flitto tra pale­sti­nesi e stato d’Israele in una cro­ciata anti­se­mita non può essere usato come un alibi per chiu­dere gli occhi davanti alle stragi di bam­bini e di civili. In que­sto qua­dro, la palma dell’ipocrisia va al governo ame­ri­cano, e in par­ti­co­lare a Obama, che pure aveva illuso il mondo all’inizio del suo primo mandato.

La banale verità è che la dif­fe­renza tra demo­cra­tici e repub­bli­cani in mate­ria di Pale­stina è sem­pli­ce­mente di stile. Bru­tal­mente filo-israeliani quelli della banda Bush, pre­oc­cu­pati un po’ più delle forme della repres­sione gli oba­miani, come dimo­strano i famosi fuori-onda di Kerry.
Ma nes­suno ha vera­mente inten­zione di fer­mare Israele, oggi o mai. La soli­tu­dine dei pale­sti­nesi è la ver­go­gna del mondo, dell’occidente come dei padroni del petro­lio. Per non par­lare di un’Europa inetta e imbelle.



24 luglio 2014


da "Il Manifesto"


giovedì 24 luglio 2014

SIAMO TUTTI FACCHINI




SIAMO TUTTI FACCHINI
Sabato 26 Luglio giornata nazionale di mobilitazione in solidarietà ai 24 facchini licenziati dall’Ikea di Piacenza.



Da anni ormai il settore della logistica è attraversato da importanti cicli di lotta per vedere rispettati i più elementari diritti. Infatti nei magazzini di Piacenza e di tutta Italia vige un vero e proprio sistema di sfruttamento della forza-lavoro, dominato da un sistema di cooperative in appalto e subappalto che impongono ritmi e carichi di
lavoro impossibili, senza alcuna garanzia normativa e contrattuale per i lavoratori. La determinazione e la compattezza dei lavoratori della logistica sono riuscite a strappare in più di un occasione condizioni
lavorative dignitose. All’Ikea di Piacenza però lo scorso maggio è partita una vera e propria controffensiva padronale, che ha portato al licenziamento di 24 facchini tra i più combattivi e sindacalizzati.

Intorno alla multinazionale svedese si è compattato un blocco sociale, composto da padronato, sindacati confederali, partiti politici e giornalisti, il cui obiettivo dichiarato è distruggere il movimento di lotta che si è sedimentato in un settore strategico per il capitale come quello della logistica, per ritornare alle condizioni
semi-schiavistiche di lavoro preesistenti. I padroni vogliono attaccare tutti coloro che alzano la testa e osano mettere i propri diritti davanti ai loro profitti. Fa sponda il Governo con il Job Act che prevede l'aumento della flessibilità in entrata, quindi un utilizzo indiscriminato dei contratti a tempo determinato e dell'apprendistato, e di una maggiore flessibilità in uscita, cioè licenziamenti più facili. I nuovi assunti Ikea come il resto dei lavoratori sperimenteranno da subito la nuova normativa sulla propria
pelle.

Anche per questo siamo in piazza per esprimere la nostra solidarietà attiva ai lavoratori licenziati e per chiederne l’immediato reintegro al posto di lavoro: infatti se toccano uno toccano tutti!

A Pisa ci sarà presidio, sabato 26 luglio dalle ore 16,00 alle ore
19,00, davanti all'IKEA
Lavoratori, precari, disoccupati, immigrati, studenti, UNITI NELLA LOTTA


Fonte

24 Luglio 2014


dal sito Il Pane e le Rose



martedì 22 luglio 2014

… ED IL MONDO STA A GUARDARE di Stefano Santarelli




… ED IL MONDO STA A GUARDARE
di Stefano Santarelli


Francamente i commenti in questo momento mi sembrano superflui. Il genocidio, perché di genocidio si tratta, che la cittadinanza di Gaza sta subendo da dieci giorni non merita parole, ma mobilitazioni e fatti per fermarlo.
Ricordiamo gli avvenimenti: il 12 giugno tre ragazzi israeliani vengono rapiti in Cisgiordania ed i loro corpi verranno ritrovati una settimana dopo. Scatta subito una dura rappresaglia in questa regione con l’uccisione di almeno quattro palestinesi e l’arresto di 500 uomini in gran parte membri di Hamas.
Il governo israeliano non ha nessun timore nell’affermare che la sua volontà è quella di annientare Hamas e il giorno dopo questa dichiarazione un sedicenne palestinese viene bruciato vivo da sei sionisti che verranno immediatamente arrestati. Lo stesso Netanyahu è stato costretto ad ammettere che i palestinesi si erano impegnati seriamente per cercare di ritrovare questi tre ragazzi rapiti.
Ma ciò non impedisce che una settimana dopo, l’8 luglio, Israele inizia la serie di violenti bombardamenti a Gaza che colpiscono soltanto le abitazioni civili, gli ospedali, le scuole di questa povera città palestinese. Le vittime finora sono 600 di cui più di un terzo composto da bambini e 3600 feriti. Una vera e propria strage degli innocenti che fa impallidire quella leggendaria del Re Erode.

Questi sono sinteticamente i duri fatti. Il coinvolgimento di Hamas nell’uccisione dei tre ragazzi israeliani non è stato provato, anzi è quasi sicuro che ad eseguire questo orrendo delitto siano state alcune “schegge impazzite” come anche nel caso del ragazzo palestinese bruciato vivo. Ma anche se fosse stata coinvolta Hamas in questo crimine la domanda più spontanea che viene è: cosa c’entrano tutti gli abitanti di Gaza?
La verità è che il Governo sionista (e razzista) di Netanyahu ha compiuto una aggressione gratuita e politicamente indifendibile nella storica lotta tra il popolo palestinese e l’esercito di Israele. Una aggressione che fatalmente avrà una ripercussione molto profonda, proprio per questa gratuità, su tutta la società israeliana.
Probabilmente, anzi quasi sicuramente, una delle cause dell’attacco israeliano a Gaza è da ricercarsi nei ricchi giacimenti marini di Gas alle coste di Gaza (1.4 trilioni di piedi cubi di gas naturale, del valore di almeno 4 miliardi di dollari).
Un massacro che quindi ha motivazioni strettamente materiali, ma sarebbe profondamente sbagliato definire il massacro che si sta compiendo a Gaza come una guerra visto l’enorme disparità delle forze in campo: da una parte il quarto o quinto esercito a livello mondiale che dispone oltretutto anche di armi atomiche e dall’altra parte Hamas e tutte le altre organizzazioni militari palestinesi che non dispongono non solo di un esercito, né di una marina o di una aviazione, ma neanche di uno scassato carro armato.
No! Quello che sta avvenendo a Gaza non può essere definito una guerra, ma solo un tentativo di genocidio nei confronti del popolo palestinese.
L’unica soluzione a questa cinquantennale lotta tra Israele e il popolo palestinese non può essere in nessun modo la consegna ipocrita ed impossibile di “Due popoli, due stati”. No, l’unica consegna è la costruzione di un unico stato multietnico e multireligioso.

Parafrasando il titolo del celebre romanzo di Cronin, il mondo sta guardando con una cinica indifferenza al genocidio del popolo palestinese con l’assordante silenzio dei governi mondiali che nei fatti appoggiano il governo israeliano. Un silenzio che ricorda quello che accompagnò l’olocausto nazista.
Bisogna rompere questo muro di silenzio, fare conoscere la tragedia di Gaza. In questo siamo costretti a segnalare l’inadeguatezza della sinistra italiana che ancora non è in grado di lanciare una mobilitazione nazionale in difesa dei diritti del popolo palestinese.

Questo crimine nei confronti dell’umanità che il governo Netanyahu sta compiendo in questi giorni rischia di fare naufragare proprio il futuro dell’attuale stato di Israele poiché paradossalmente è proprio il sionismo il suo peggior nemico e come ammonisce un celebre profeta ebraico: “Poiché costoro seminano vento e mieteranno tempesta” (Osea 8,7).



URANIA E LA NARRATIVA DI GENERE Conversazione con Giuseppe Lippi





URANIA E LA NARRATIVA DI GENERE
Conversazione con Giuseppe Lippi


Per chi non lo sapesse, c’è una collana (“di genere”, tra l’altro) attiva da più di sessant’anni. Si tratta di Urania, la serie che ha portato la fantascienza in Italia, e che dal 1952 fa capolino in tutte le edicole con la sua veste inconfondibile. Da ragazzina pensavo che i libri “da edicola” fossero libri leggeri, “da mare”, e ne facevo incetta prima di scendere in spiaggia. Invece, mentre mia madre leggeva gli ancora più famosi Gialli, io per la prima volta scoprivo, incollata sotto l’ombrellonte, i mondi di Dick, Asimov e Lansdale. Con buona pace della crisi editoriale Urania è al numero 1608 (collane figlie a parte), e a dirigerla dal 1990 è Giuseppe Lippi.
Curatore, scrittore e traduttore, tra le altre cose Lippi si è occupato di diverse edizioni dei racconti di Lovecraft e delle Cronache di Narnia di C.S. Lewis, mica roba da poco. Tra le sue opere segnaliamo Guida alla fantascienza (con Vittorio Curtoni) e 2001 odissea nello spazio: dizionario ragionato.
Nell’intervista che Giuseppe Lippi ci ha concesso ho cercato di capire i motivi di un successo così duraturo, in un paese che sembra perdere sempre più lettori, e dove ancora possa andare la fantascienza. Per chi volesse proseguire, questo è il blog della collana mondadoriana:
http://blog.librimondadori.it/blogs/urania/


Urania è stata fondata nel 1952, tu allora non eri ancora nato, ma negli anni successivi ne sei diventato lettore. C’erano delle storie o degli autori che ti appassionavano particolarmente?

Ho cominciato a leggere Urania nel 1964 e i miei racconti preferiti erano quelli che riguardavano l’ignoto: sconosciuti fenomeni dello spazio, insidie nel tempo, creature che a buon diritto potevamo definire “i nostri dissimili”, come recitava il titolo di una classica antologia. Ma anche i paradossi sociali, il futuro alla gola insomma, tanto per citare un altro titolo. Non m’interessavano i resoconti di avventure fini a se stesse, battaglie spaziali, gialli della provincia inglese cotti in salsa uraniaise. Volevo rispetto per il cosmo, nella mia Urania. Per il cosmo e per l’ignoto.

lunedì 21 luglio 2014

BARBARA BALZERANI: NEL MONDO TRA ERRORI, CADUTE E RISALITE di Luigi Caputo







BARBARA BALZERANI: NEL MONDO TRA ERRORI, CADUTE E RISALITE


di Luigi Caputo



Anche in un paese come il nostro, che con la memoria ha un rapporto strano e controverso, non è facile scindere il presente dal passato. Non è facile, soprattutto quando il passato evoca paura, dolore, violenza, questioni irrisolte che pesano come macigni su un presente illusorio e, per molti aspetti, decadente. Barbara Balzerani è stata tra i massimi esponenti delle Brigate Rosse, tra le menti dell’organizzazione. Ha partecipato alla strage di via Fani e e al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro. Arrestata nel 1985, dopo una condanna all’ergastolo, ha scontato la sua pena e dal 2011 è una persona libera. Oggi è una scrittrice, e ha al suo attivo cinque romanzi. Recentemente ha pubblicato, per l’editore DeriveApprodi, “Lascia che il mare entri”, un romanzo autobiografico nel quale immagina un dialogo a tre con sua madre e la sua bisnonna: “tre donne nello scenario del secolo delle guerre e delle rivoluzioni”, come si legge nelle note del libro. Abbiamo incontrato la signora Balzerani per un’intervista.

mercoledì 16 luglio 2014

LE MERAVIGLIE DEL DUEMILA di Emilio Salgari di Fabio F.Centamore




LE MERAVIGLIE DEL DUEMILA di Emilio Salgari
di  Fabio F.Centamore 


 uno dei primi romanzi italiani di protofantascienza



Titolo: Le meraviglie del duemila
Autore: Emilio Salgari
Genere: Fantascienza
Casa editrice: Simonelli editore
Anno: 2011

A - Tutto cominciò a Nantucket (assaggio di trama).

L'isola di Nantucket non è certo meta dei turisti in cerca di spiagge in quel periodo dell'anno. Eppure qualcuno sbarca dal piccolo mercantile appena attraccato nel porticciolo. Un bel giovane dal vestito elegante, aria da gran signore. Eppure ha lo sguardo spento. Tutto nel suo incedere e nel suo modo di fare sembra evidenziare una grave afflizione. Sguardo basso, inerte ai particolari della piccola spiaggia silenziosa e tranquilla. Spalle scivolate, mani sprofondate nelle tasche su misura dei costosi calzoni. Lo spleen, il male della gioventù scaturito da questo nuovo secolo, sembra possederlo irrimediabilmente. Perfino le mille luci di New York nulla hanno potuto contro questo male strisciante. Il giovanotto se ne è stancato troppo presto, eccolo a bighellonare in una grigia mattinata lungo una spiaggia vuota attaccata ad un piccolo borgo di pescatori...

domenica 13 luglio 2014

CGIL: E' CRISI CONCLAMATA di Sergio Bellavita




CGIL: E' CRISI CONCLAMATA
di Sergio Bellavita



Non poteva esserci conferma più autorevole della gravità della crisi della Cgil di quella che Susanna Camusso ha espresso nel direttivo nazionale del 10 luglio. In un clima surrealmente preferiale a dispetto della sempre più dura condizione sociale, la sua denuncia del mancato avvio della campagna di assemblee unitarie su fisco e previdenza e del sempre più insostenibile scarto tra le decisioni che si assumono e la loro concreta attuazione e' una dichiarazione esplicita dello stato di crisi dell'organizzazione.
Non ci interessa analizzare le ragioni tattiche o meno che hanno spinto Susanna Camusso a porre, cosa del tutto irrituale, la questione all'insieme del gruppo dirigente. La sua relazione introduttiva e' stata esente da qualsivoglia autocritica sulle scelte politiche di fondo di questi anni e sulla politica contrattuale che si persegue. Anzi. Non siamo davanti quindi al tentativo di avviare la ridefinizione della strategia della Cgil.

Quello che ci interessa sottolineare e' che a pochi mesi dalla conclusione del suo congresso la Cgil e' impegnata in una discussione che testimonia lo stato di paralisi totale in cui si trova, con la segretaria generale che punta il dito e si interroga sulla stanchezza dei gruppi dirigenti, sul pluralismo che sabota le decisioni sino a immaginare una crescente ritrosia degli apparati a affrontare il giudizio dei lavoratori, specie sulle pensioni.

In questo quadro il fiacco tentativo di trovare legittimazione presso il governo con l'iniziativa unitaria su previdenza e fisco e' naufragata prima ancora di partire. Le assemblee non si stanno facendo e già oggi i temi dell'iniziativa sono dettati e stravolti dall'incalzare del governo. La Cgil appare orfana di quel collateralismo con politica e istituzioni e senza la legittimazione della concertazione che per anni gli hanno consentito di sopravvivere al caro prezzo tuttavia della progressiva perdita del proprio insediamento sociale ed a un prezzo ancora più alto per i lavoratori.
Oggi non riesce a praticare nessuna linea, ne quella vertenziale quanto mai necessaria, ma nemmeno quella nostalgica della concertazione approvata al congresso. In sostanza la Cgil appare in un vicolo cieco e con un futuro sempre più incerto.


L'autore è il Portavoce de  "Il sindacato è un'altra cosa"




martedì 8 luglio 2014

LIMITIAMO I DANNI E RINUNCIAMO ORA ALL’F-35 di Gianandrea Gaiani




LIMITIAMO I DANNI E RINUNCIAMO ORA ALL’F-35
di Gianandrea Gaiani




L’ennesimo blocco alla flotta di F-35 è stato accolto in Italia da polemiche da parte degli oppositori ideologici del velivolo (Sinistra e pacifisti) e con un evidente tentativo di ridimensionare il problema da parte dei numerosi fans del programma. Abbiamo dovuto sorbirci ancora una volta filippiche contro la spesa militare e, dall’altra parte, i rinnovati appelli a non buttare i soldi già spesi nel programma, a salvaguardare le future “capacità” delle nostre forze aeree e soprattutto (tema di facile presa in momenti di crisi economica) a tutelare i posti di lavoro italiani connessi con la partecipazione del nostro Paese al programma.
Come le inchieste di Analisi Difesa hanno dimostrato in questi ultimi anni, si tratta per lo più di aria fritta. Se l’F-35 diverrà davvero operativo e manterrà le promesse circa caratteristiche e prestazioni, le capacità di cui tanto si parla saranno quelle di mettere le nostre forze armate per i prossini 50 anni in condizione di totale sudditanza e dipendenza dagli Stati Uniti. Una superpotenza che mai come oggi opera su scala globale contro gli interessi dell’Italia e dell’Europa come è apparso chiaro negli ultimi anni a chiunque non sia cieco o in mala fede guardando al ruolo di Washington dalla Libia alla Siria, dall’Ucraina all’Iraq.

Come abbiamo più volte ribadito gli interessi italiani, strategici e industriali, si tutelano completando la commessa degli Eurofighter Typhoon che sono perfettamente in grado di compiere operazioni di attacco come ben sanno tutte le aeronautiche che lo impiegano tranne la nostra, che finge di non saperlo e dice di considerarlo solo un caccia ma poi gli imbarcherà sopra il missile da crociera Storm Shadow, arma strategica per l’attacco a lungo raggio contro obiettivi terrestri che non entra nella stiva dell’F-35 progettata (ma guarda un po’) per imbarcare solo armi americane.

Ma a chi dobbiamo fare la guerra? Pensiamo di effettuare un first strike nucleare su Mosca o Pechino? Di attaccare basi aliene? Perché se questi obiettivo non sono compresi nelle opzioni strategiche italiane tutte le altre missioni di attacco aereo a obiettivi terrestri possiamo tranquillamente effettuarle col Typhoon e con una forza aerea composta da 120 velivoli di questo tipo (la Germania con finanze ben più consistenti avrà una forza aerea di 160 Typhoon, forse meno).

lunedì 7 luglio 2014

E’ TEMPO DI CHIUDERE CON IL FEMMINISMO? di Rita Chiavoni




E’ TEMPO DI CHIUDERE CON IL FEMMINISMO?  
di Rita Chiavoni 



Navigando per internet, come in qualsiasi viaggio, capita di fare molti incontri, alcuni, rari, offrono stimoli per approfondimenti e riflessioni. Può anche capitare che questi stimoli giungano in modo così diretto al cuore di questioni su cui, in modo più o meno compiuto e più o meno consapevole, ti stavi occupando. Mi sono così imbattuta nel sito “Uomini Beta”, gruppo di autocoscienza maschile.
Già trovare un sito nel quale si parla di autocoscienza maschile, in questi anni, mi sembra una novità assoluta. Mossa dalla curiosità anche professionale vado a curiosare e scopro che quel mondo maschile molto spesso conosciuto nella stanza segreta che è il mio studio sta esternando pubblicamente la rabbia per le amarezze, i dolori, le aspettative, le disillusioni e le frustrazioni vissute privatamente e pubblicamente nei confronti delle donne.
Scopro un atto di accusa nei confronti della deriva femminista. Certo i modi e anche parte delle ipotesi su cui insistono rischiano, a mio parere di ripercorrere i sentieri sterili del femminismo stesso, ma un dato è certo, gli uomini, i maschi, che notoriamente non parlano se non per fare voli pindarici sulle più disparate teorie o sanno scrivere poesie sublimi su donne perfette e santificate, improvvisamente parlano dei loro dolori terreni, delle loro frustrazioni, disincanti e rabbie, con la forza di chi improvvisamente chiede conto alla società della propria dignità perduta.
Mentre provo un immediato arretramento difensivo di fronte a una certa aggressività espressa nel sito nei confronti delle donne, mi torna in mente un volumetto ed. “sole nero” di Annie Le Brun “MOLLATE TUTTO facciamola finita col femminismo”.
Era il 1977, libro intenso di critica radicale al femminismo. Secondo l’autrice infatti il femminismo stava diventando l’avamposto della stessa cultura dominante. Nonostante la critica partisse fondamentalmente dalla convinzione che la cultura occidentale borghese riproduce costantemente il proprio modello anche sotto mentite spoglie, per cui il post-femminismo tendeva a sottovalutare se non addirittura ad annullare la necessità del confronto radicale con l’alterità dell’Altro all’interno della relazione amorosa.

L’autrice scrive: “Mi interessa più Oscar Wilde che una qualsiasi borghese che ha accettato di sposarsi e di fare figli e che un bel giorno si sente repressa nella sua ipotetica creatività”. E ancora con grande acume e con lungimiranza continua: “Quando la ragione per trionfare diventa ragion di Stato, questo rifiuto per la “Alterità” che è anche e soprattutto disprezzo, panico e indifferenza criminale verso lo spirito, verso la ”oscura particolarità della materia”, non ha cessato di condurre ad un ripiegamento della vita sensibile degli uomini e delle donne sul punto più sotterraneo della sfera individuale… Il rifiuto dell’Altro comporta tragicamente la perdita d’identità di colui che lo esprime. In questo senso la ”affermazione della “femmellitude”, oscillante tra la negazione dell’individualità maschile e l’esaltazione della massa femminile, partecipa al più alto grado a questa violenza normalizzante che contrariamente a quanto ci si vorrebbe far credere, non è né maschile né femminile” [1].

La critica di Le Brun si colloca nell’universo culturalmente fecondo degli anni ‘70 e ‘80 ma come discorso discordante, all’interno delle élite femminili di quegli anni, tanto discordante da essere ripudiata da queste stesse élite con appellativi abbastanza duri e per certi versi ridicoli di cui “traditrice vaginale” è certamente il più emblematico visto che la vagina era il simbolo assolutizzato dell’essere donna. Nell’attualità non possiamo che prendere atto che il femminismo si è coeso talmente tanto con la Ragion di Stato da essere diventato parte integrante dell’ideologia dominante del neoliberismo.

Certamente questa è un’ipotesi che necessita di prove, di conferme inoppugnabili, per essere sostenuta. Ci provo, sapendo che ogni prova non è mai inoppugnabile e che la verità è solamente la verità del fatto compiuto al di là di qualsiasi interpretazione.

Emblematico, a questo proposito, il racconto di Ryūnosuke Akutagawa ripreso da Akira Kurosawa nel film Rashomhon, dove l’unico elemento certo è l’uccisione del marito della protagonista. Tutte le versioni di come sia accaduto il fatto risultano veritiere, eppure assolutamente inattendibili. Quindi ciò che conta sono i fatti, se ci si pone in maniera dialettica, e l’interpretazione dei fatti è vera purché chi la racconta dichiari apertamente il proprio pensiero e la propria weltanschauung; vera, quindi, per quella narrazione. Se invece al posto del fatto poniamo un postulato come proposizione che non si può dimostrare ma che si considera come vera, viene compiuto un inganno. L’inganno attuale risiede nel postulato che il patriarcato resista a tutt’oggi, come cultura che sostiene il neoliberismo, e che la violenza sulle donne sia l’espressione di questo dato acquisito una volta per tutte. Questa, a mio parere può essere considerata ancora un’ipotesi tutta da dimostrare, né più e né meno della mia.

venerdì 4 luglio 2014

"LASCIA CHE IL MARE ENTRI " Intervista a Barbara Balzerani






"LASCIA CHE IL MARE ENTRI " 
Intervista a Barbara Balzerani

di Barbara Bonoli Romagnoli 


«Mi è rimasto attaccato a pelle il carattere delle mie donne. Molti anni dopo avrei capito quanto la loro battaglia di libertà fosse stata più silente ma non meno radicale di quella dei miei anni ribelli. Nella comunità di famiglie ammucchiate in povere stanze che ancora considerava le figlie femmine un peso da smaltire in fretta, avrei sentito dire da mia madre: “non abbiate fretta a sposarvi, prima trovatevi un lavoro così non dovrete fare le serve a nessuno”. Sapeva quello che diceva».

È una genealogia di donne forti quella raccontata da Barbara Balzerani nel suo ultimo libro, un testo breve e potente, che colpisce per la scrittura puntuale, accurata e mai barocca, urgente e posata al tempo stesso. Un dialogo fra donne che non si sono mai conosciute – l’autrice e la sua bisnonna – e donne (l’autrice e sua madre) che hanno accolto in maniera diversa il tempo nuovo, del boom economico prima e delle possibili rivoluzioni dopo.
E in questo suo primo romanzo, in realtà il quinto libro pubblicato, sono pochissimi gli accenni dell’autrice, e mai diretti, al suo passato di militanza nelle Brigate Rosse, al suo arresto e alla lunga detenzione in carcere. Dirigente della colonna romana delle Br, Barbara Balzerani partecipò al rapimento di Aldo Moro e ad altre azioni. Una storia che l’accompagna sempre, anche nelle recenti polemiche e contestazioni per l’organizzazione di alcune presentazioni con il patrocinio di comuni o enti locali. In realtà, in questo romanzo Barbara Balzerani ha in mente altre storie: «Il mio viaggio» dice «non è ancora terminato. Ho ancora domande di cui a tratti percepisco il senso. E mi succede lì dove si fa sfondo lontano il cicaleccio volgare che ribadisce questo povero presente». Balzerani in queste pagine ripercorre romanzandola un pezzo di storia familiare: «tre generazioni di donne per riallacciare il filo delle mie origini incerte». Un racconto che inizia nella campagna veneta e termina sulla costa calabra, davanti a quel mare che la bisnonna non ha mai visto e che la madre ha intravisto.

«Ecco. Sediamoci qua, finalmente insieme. Adesso possiamo. Dovevamo incontrarci di fronte a questo antico mare che racconta storie, anche se siamo più creature di stabbio che di sale. Non siamo né pescatrici né naviganti, ma ci piace ascoltare gli umori che vengono dal ventre del mondo. Adesso sappiamo».

Soprattutto, adesso, forse sappiamo comprendere – sembra suggerire l’adagio di questa scrittura – quanto sia importante e prezioso che il mare entri ancora nelle nostre case, così come avveniva in passato, quando ancora non si ergevano muri per «chiudere il mondo fuori, per non farlo entrare» perché «il dentro e il fuori tra esseri umani e spazio circostante ha avuto confini incerti» eppure più accoglienti e ospitali.

Che rapporto hai avuto con il femminismo e i movimenti delle donne, da dove nasce l’esigenza di ricostruire la tua genealogia?

«Col femminismo anni ’70 ho avuto un rapporto negativo. Ho vissuto il tema dell’emancipazione come un cedimento funzionale al sistema borghese che poteva permettersi di accoglierne l’esistenza senza danno. Soprattutto intollerabile mi appariva la divisione in generi e non in classi, la sottesa iscrizione delle mie simili a una “fascia debole” da tutelare, l’appartenenza delle militanti a una élite culturale socialmente medio-alta, terreno di caccia per la politica della sinistra istituzionale. Per me era ancora del tutto valido il paradigma novecentesco dei “due tempi” per cui la rivoluzione sociale rappresentava la condizione preliminare per ogni altro cambiamento significativo. Tanto ne ero convinta che ho vissuto la rottura con tutte le mie compagne che abbandonavano il campo “della politica degli uomini” come un lacerante tradimento. Nel mio primo libro ne tratto nel capitolo “Femminismo, no grazie”. Meglio è andato negli anni successivi l’approccio con il “pensiero della differenza” che ho trovato più stimolante intellettualmente e più dirompente sul piano politico, anche se mi ha lasciato parecchie riserve, soprattutto sul terreno della pratica. Per questo non è un caso che la mia genealogia sia più personale che simbolica perché credo che debbo soprattutto a mia madre alcuni princìpi non sindacabili, come il rifiuto di fare mercato del rispetto di me stessa e di valere per quello che posso e so, senza soggezione nei confronti dei potenti e cadere nella trappola delle relazioni competitive. Con gli uomini ma, soprattutto, con le donne».

Hai mai pensato in passato che saresti diventata una scrittrice e avresti scritto un romanzo?

«Io ho difficoltà a considerarmi una scrittrice. Anche per l’avversione che mi riserva l’ambiente dei professionisti del mercato editoriale e dell’intellighenzia che fa opinione. Preferisco pensarmi come una che racconta storie attraverso parole scritte. In passato mi sono “limitata” ad amare la lettura e a trarre piacere dalla sospensione dell’ordinario che consente. E adesso scrivere per me significa la felice possibilità di restituirne un po’ a chi mi legge. Di recente ho conosciuto una donna straordinaria che mi ha detto: ”Ti ringrazio perché mi hai ricordato quella che sono”. Conservo le sue parole come il più prezioso premio letterario a cui poter aspirare».

“Lascia che il mare entri” è anche una sorta di saggio su quanto l’umanità ha dilapidato le ricchezze della terra, sulla necessità di rallentare la corsa di macchine & tecnologie: secondo te in che modo la letteratura può influire sulla presa di una maggiore coscienza ecologica di cui avremmo tanto bisogno?

«La letteratura può essere un buon viatico per ripercorrere le nostre esperienze attraverso la potenza dello scambio emotivo e il lascito affettivo della memoria di chi ci ha preceduto. Può parlarci singolarmente e non confonderci nelle categorie. Può aiutarci a prendere il tempo per rielaborare, a non rimanere in superficie, a far andare la mente nell’inesplorato e persino nell’indicibile e scoprire l’inganno del consumo irresponsabile di ogni aspetto della esistenza. C’è bisogno, in una situazione drammatica come questa, di avvertire un’urgenza, di sostenere le ragioni dei fondamenti della vita, di radicalizzare lo sguardo critico verso troppe soluzioni date per scontate e immodificabili».

Hai toccato la tua vicenda di militanza nelle Brigate Rosse in altri testi. Questo è un romanzo, ma c’è anche la tua storia: si resta sorpresi – forse è la mia impressione anche rispetto alla distanza generazionale – che non c’è parola, o non è esplicitata fino in fondo, di cosa è avvenuto fra te e tua madre quando ha saputo che eri nelle Br. Ti va di raccontare qual è stata la sua reazione e se è cambiato il rapporto con te? Come ha influito sulla genealogia che racconti?

«Mia madre ha saputo quando la “notizia” è diventata di pubblico dominio, quindi non è successo nulla tra noi. Io non ho avuto sue notizie per tutti gli anni che è durata la mia clandestinità. La strada su cui mi ero avviata non consentiva incontri, neanche contatti da lontano. Credo però sia significativo che come mio primo “nome di battaglia” io abbia preso il suo, per tenermela vicina e per sentirmi addosso la sua autorizzazione. L’ho rivista, anni dopo, in una sala colloqui di un carcere. Non mi ha né rimproverato, né buttato addosso dolore e recriminazioni. Ha voluto sapere se ero pentita. Si è rassicurata che mi sarei presa il carico di responsabilità che mi ero tirata addosso e poi mi ha consigliata di non prendere freddo. Poco tempo dopo è morta, dopo avermi tanto aspettata ed essersi consumata nel terrore di non rivedermi viva. Il legame con lei rappresenta la ricucitura di una relazione di genere con generazioni di donne che hanno subìto e combattuto, sul terreno della liberazione, una condizione di fatica e inganno di prospettiva. C’è un sapere in questo che forse può indirizzarci meglio nel presente e per il futuro. Nel caso ci sia».

30 giugno 2014


Barbara Balzerani, «Lascia che il mare entri», Derive Approdi, 102 pagine, 12 euro


Pubblicato su Letterate Magazine 101 


dal sito http://www.barbararomagnoli.info/




mercoledì 2 luglio 2014

IN FONDO AL MARE CI SONO VENTIMILA VITTIME DELL'IMMIGRAZIONE di Nicola Tranfaglia





IN FONDO AL MARE CI SONO VENTIMILA VITTIME DELL'IMMIGRAZIONE
di Nicola Tranfaglia



Seguo in televisione (le immagini sono terribili come quelle della notte scorsa in cui su un barcone dalla Libia di 630 persone una trentina di migranti schiacciati nella stiva sono morti di asfissia perché lo spazio che li conteneva era troppo piccolo per consentire a tutti di respirare!) il cataclisma europeo che rischia di portarci indietro al diciannovesimo secolo, o ancora più indietro, quando ad emigrare erano i nostri antenati come è avvenuto nella prima metà di quel secolo verso le Americhe e l’Australia a cercare lavoro. Né possiamo illuderci che il nuovo presidente della Commissione, il lussemburghese Juncker possa, con la sua buona volontà, e magari d’accordo con il presidente della parlamento europeo, quel tedesco Schulz che l’uomo di Arcore aveva avuto il coraggio di apostrofare con l’epiteto di kapò risolvere un problema che nel vecchio continente rischia nelle prossime settimane di esplodere e che richiede, per aver successo, di essere affrontato nello stesso tempo dal governo e dal parlamento europeo ma anche quello dei singoli paesi e in primo luogo dal nostro, vista la posizione di porta dell’Europa che di fatto costituisce la nostra posizione, terra di sbarco e di passaggio per i giovani che cercano successivamente un paese disposto, e disponibile più di noi, ad accoglierli e a inserirli in un processo attivo, in un lavoro, in un’attività che consenta loro di non tornare indietro e magari di far nascere una famiglia nel paese che li accoglie.

Noi invece, e la cosa non riguarda noi italiani in generale, ma il nostro attuale governo, presi certo da una situazione difficile sul piano economico, sociale e culturale, ci limitiamo a raccoglierci, grazie alle unità della marina militare che si stanno prodigando in Sicilia, riscattando - ricorda qualcuno - il disonore dei respingimenti compiuti quando la destra populista era al potere. Ma siamo un paese che si dimostra poco disposto ad aggiornare le sue leggi sull’immigrazione e ad eludere (il nostro capo del governo è un mago dell’elusione!) i problemi che possono dividere una opinione pubblica sempre più divisa di fronte ai sacrifici che le vengono richiesti e a guardare soltanto quello che avverrà domani. Eppure basta dare uno sguardo alle statistiche e ai dati per rendersi conto che non si può far finta che i problemi non esistono. Son proprio le statistiche sull’emigrazione che ci dicono questo.
Un quotidiano romano ha ricordato oggi che, secondo l’ultimo rapporto Globaltrends dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i profughi, il cui numero ha superato nel 2013 il 50 milioni, raggiungendo il numero incredibile di 51,2 milioni di persone. E, per quanto riguarda in particolare il nostro Paese noi abbiamo già 5,1 milioni di stranieri che vivono in Italia e dall’inizio del 2014 ne sono già sbarcati 2.100. Se la percentuale di decessi si manterrà sulle quantità registrate nei mesi dalla primavera ad oggi potremmo arrivare senza difficoltà a più di mille morti.
Si può continuare a far finta di nulla come ha fatto il governo italiano fino ad oggi? Se la Libia è in mano ai signori della guerra e protegge il traffico di esseri umani come degli stupefacenti, noi e l’Europa possiamo continuare a far nulla o quasi niente? E l’interrogativo che tutti, a cominciare dall’esecutivo e dal parlamento, dovremmo porci e non da domani. Dal 10 luglio il presidente Renzi presiede per sei mesi l’Unione Europea.

C’è da chiedersi cosa aspettiamo a formulare un piano preciso in questo campo che preveda subito traghetti, mutuo riconoscimento delle domande di asilo, monitoraggio europeo comune ed equo riconoscimento. In fondo al mare ci sono già ventimila vittime dell’emigrazione.
Se non agiremo subito in questa direzione, ci accolleremo pesanti responsabilità di fronte al mondo come ai nostri figli e nipoti.



dal sito  http://www.nicolatranfaglia.com/blog/







martedì 1 luglio 2014

MA L'IMPERIALISMO E' IN CRISI IRRIVERSIBILE




MA L'IMPERIALISMO E' IN CRISI IRRIVERSIBILE




La conversazione che qui presentiamo, era stata in origine pensata come interna al ciclo di interviste sulla tragedia siriana che abbiamo realizzato nei mesi passati. Ma nel corso del dialogo, il nostro interlocutore – Michele Castaldo (curatore del sito www.michelecastaldo.org ) ha vistosamente spostato l'asse del discorso. Ne è uscito fuori qualcosa di notevolmente stimolante, che abbiamo deciso di sottoporre all'attenzione dei lettori per il suo porsi controcorrente rispetto ai discorsi che dominano nelle file della sinistra di classe e antimperialista italiana. Si pensi al fatto che mentre sui nostri siti, normalmente, si descrive un imperialismo occidentale sempre all'attacco e più forte che mai, Castaldo lo vede invece estremamente indebolito, proprio in conseguenza della irreversibile crisi del Sistema del Capitale. Ovviamente, alcune delle conclusioni cui arriva il nostro referente potranno essere in futuro motivo di approfondimento (e anche di polemica, se necessario). Ma riteniamo che con esse sia salutare confrontarsi, soprattutto per superare quelle certezze granitiche - ai limiti dello sloganismo d'accatto - che dominano dalle nostre parti.


La rivolta scoppiata in Siria nel marzo del 2011, stata vista da alcuni antimperialisti come "cosa altra" rispetto al resto delle primavere arabe. Al di là della piega che hanno preso oggi gli eventi, quali pensi siano state le motivazioni iniziali della sollevazione?

A mio modo di vedere c’è una lettura generale degli accadimenti storici molto ideologica, piuttosto che materialista, una visione della storia che si ripete ‘sempre uguale a sé stessa’. Purtroppo non è così e se ne pagano le conseguenze in termini di comprensione degli eventi e di sbandamenti continui dei militanti. Un esempio su tutti – cito a caso – viene dal gruppo dei compagni della rivista ‘Il cuneo rosso’, I quali fanno una buona analisi sulle insorgenze nei paesi del nord Africa, cogliendo le ragioni delle nuove classi proletarie che entrano sulla scena della lotta di classe in una fase molto complicata per il Sistema del capitale, ma nel contempo esasperano l’aspetto della soggettività dell’imperialismo quando scrivono:

"Dunque, salvo clamorosi passi indietro dell'ultimo minuto, sta per scattare una nuova azione di guerra contro un popolo arabo. Questa volta tocca alla Siria, ai siriani. Protagonisti, ancora una volta, gli Stati Uniti, che vorrebbero farci credere che debbono punire Assad per aver usato armi chimiche contro il proprio popolo.", questo l’uno settembre 2013.
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