Diari di Cineclub

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Rivista Cinematografica online e gratuita

lunedì 30 giugno 2014

SPAGNA -PODEMOS: LIMITI E POTENZIALITA' DI UN PARTITO NUOVO di Alessandro Giardiello




SPAGNA -PODEMOS: 
LIMITI E POTENZIALITA' DI UN PARTITO NUOVO
di Alessandro Giardiello


La novità più rilevante delle elezioni europee, per quanto riguarda la sinistra, è senza ombra di dubbio il successo di Podemos, il nuovo movimento politico spagnolo fondato dal professore Pablo Iglesias.

Podemos ha raccolto 1,2 milioni di voti (8,1%), ha mandato cinque deputati al parlamento europeo e si è collocata subito dietro a Izquierda unida che ha raccolto il 10%, un risultato considerato deludente se si considera che all’inizio della campagna elettorale la formazione di Cayo Lara veniva data nei sondaggi tra il 15 e il 17%.

È del tutto evidente che Podemos ha “succhiato” quasi la metà dell’elettorato che Izquierda unida aveva conquistato recentemente nel processo di radicalizzazione che ha attraversato il paese e che ha visto cadere nel totale discredito le due principali forze che hanno governato la Spagna per quasi quarant’anni (Psoe e Pp), che infatti crollano al di sotto del 50%, quando in passato si spartivano il 75-80% dei voti.
Inoltre, per quanto sia passato solo un mese dalle elezioni, già si registra un’ulteriore impennata di Podemos che secondo un’inchiesta pubblicata da El País avrebbe già attuato il sorpasso su Izquierda unida.
Secondo lo stesso sondaggio, un 21% degli elettori del Psoe del 25 maggio scorso non intenderebbero rivotare il Psoe e si starebbero orientando alle formazioni alla sua sinistra, in particolare Podemos.
Questo significa che il Psoe potrebbe passare da un appoggio del 23% di un mese fa a un 18% di oggi, e che il voto congiunto di Izquierda unida e Podemos porterebbe la sinistra spagnola a uno storico sorpasso verso i socialisti. Uno scenario di tipo greco, per certi aspetti anche più avanzato.

sabato 28 giugno 2014

1914-2014, PRIMO CONFLITTO MONDIALE, LA MADRE DI TUTTE LE GUERRE di Diego Giachetti




1914-2014, PRIMO CONFLITTO MONDIALE, LA MADRE DI TUTTE LE GUERRE

 di Diego Giachetti

recensione del libro di Antonio Moscato: "La madre di tutte le guerre"



Fra le molte ricostruzioni delle Prima Guerra Mondiale e delle sua cause, molto spazio viene dato all’attentato di Sarajevo presentato come causa della guerra. Giornalisti più o meno qualificati ricamano poi con tono divulgativo affermando perentoriamente che quella fu la causa di tutto, un attentato terroristico che scatenò l’ira violenta e aggressiva, insita negli uomini in generale, travolgendo nella guerra i civilissimi paesi europei. La guerra quindi come accidente, come deviazione irrazionale dal lieto procedere della civiltà, impulso scatenato via via da attentati terroristici, pazzi fanatici al potere, figure demoniache che invadono il tranquillo procedere della storia. Naturalmente non è questa la strada scelta dall’autore del libro il quale antepone all’interpretazione la considerazione dei fatti, cosa oggi non affatto scontata. L’attentato di Sarajevo è certo un fatto, ma se l’ultimatum austriaco alla Serbia diventò il detonatore del conflitto fu «semplicemente perché tutte le potenze interessate avevano già il colpo in canna». Le guerre balcaniche, suscitate negli anni precedenti dai vari appetiti capitalistici in quel settore, non furono affatto un episodio trascurabile ma premonitore di quanto poteva accadere.

Inoltre, altri “fatti” si erano accumulati in quegli anni: concorrenza interimperialista per i possedimenti coloniali e per le rotte commerciali, corsa sfrenata al riarmo accompagnata da una virulenta propaganda nazionalista; tutto contribuiva a creare un clima niente affatto rassicurante per gli amanti della pace che sembrava invece assicurata dal grado di “civiltà” raggiunta e presunta delle potenze europee. Così la Seconda Internazionale, da un lato chiamava allo sciopero generale in caso di conflitto in Europa, dall’altro confidava nelle capacità di mediazione diplomatica degli stati borghesi e tutt’al più prevedeva conflitti circoscritti e isolati (come ad esempio nei Balcani) o nelle colonie. Per altro, l’adozione della parola d’ordine sciopero generale in caso di guerra non andò oltre l’enunciazione di principio, nessun approfondimento strategico e tattico, nessuna preparazione organizzativa predisposta nei vari paesi in caso di conflitto. Certo, come sottolinea l’autore, correnti di pensiero interne alla Seconda Internazionale, in primo luogo Rosa Luxemburg, segnalavano il possibile sbocco verso un conflitto interimperialistico a breve termine, provocato dalla esasperata concorrenza mondiale capitalistica. Tuttavia ciò che lasciò stupefatti e increduli anche gli esponenti di minoranza dell’Internazionale fu non tanto lo scoppio della guerra, quanto la capitolazione patriottarda delle socialdemocrazie europee, in primo luogo quella tedesca, la più organizzata e forte. Lenin stesso, quando gli portarono i giornali tedeschi con la notizia che i socialdemocratici avevano votato a favore dei crediti di guerra, non volle crederci, «è una falsa notizia messa in circolazione ad opera della canaglia borghese tedesca». Dovette ricredersi subito.

In questo quadro generale l’autore analizza l’entrata e la partecipazione italiana alla guerra. Si sofferma sulle imprese coloniali in Eritrea, Somalia, e Libia, dedica attenzione al “salto” di alleanze dell’Italia: dalla Triplice Alleanza all’Intesa e al “golpe” strisciante, gestito dalla Corona, dai potentati economici, dalle gerarchie militari e da intellettuali che promossero la mobilitazione dell’opinione pubblica (il caso più esemplare è quello di Gabriele D’Annunzio), che rovesciò la maggioranza parlamentare e impose la guerra a un’opinione pubblica in buona parte neutralista. La guerra Italiana viene raccontata nei suoi vari aspetti umani e militari: offensive inutili e costosissime in termini di vite umane, disfatta di Caporetto, renitenze, diserzioni, corti marziali, decimazioni di soldati. Il 1917 è l’anno più impegnativo su tutti i fronti, anche perché quello che accade in Russia apre uno spiraglio: la fine della guerra mediante la rivoluzione.

Conclusa la guerra il discorso ritorna sul contesto europeo: i trattati di pace e i loro nefasti lasciti, la crisi economica e sociale che attraversa i vari paesi, vinti o vincitori che siano, l’introduzione, grazie all’esperienza della guerra, della violenza aggressiva e sistematica contro gli avversari politici, di cui i primi esponenti furono i fascisti italiani. Insomma, crollò subito il mito della guerra che avrebbe dovuto porre fine a tutte le guerre, col quale la propaganda aveva giustificato la guerra stessa. Non si conquistò affatto un mondo di pace, appena due decenni dopo, scoppiò la Seconda guerra mondiale. Allora iniziò il “secolo breve”, ma nessuno poteva ancora saperlo.



Copie del libro edito dalle Edizioni La.Co. Ri. possono essere richieste a:
sinistra@anticapitalista.org oppure a sinistra.anticapitalistatorino@gmail.com


dal sito Sinistra Anticapitalista



venerdì 27 giugno 2014

UNIRE LE RESISTENZE, DEMISTICARE RENZI di Checchino Antonini




UNIRE LE RESISTENZE, DEMISTICARE RENZI: 
IL CONVEGNO DI SINISTRA ANTICAPITALISTA A TORINO
di Checchino Antonini


Unire le resistenze, demistificare Renzi (a cominciare dal fatto che non ha il 40% della vecchia Dc, lo sbandierato 41% corrisponde in realtà al 21% grazie alla poderosa astensione), ecco – in estrema sintesi – come “Riprendere il futuro nelle nostre mani”. Quello tra virgolette è stato il titolo di un convegno promosso da Sinistra Anticapitalista il 21 giugno a Torino, “per ricostruire una prospettiva di emancipazione per la classe lavoratrice”.

A un chilometro da Piazza Statuto, ha preso vita un dibattito su quanto avvenuto negli ultimi mesi nel movimento dei lavoratori, sulle condizioni di lavoro, sulle politiche capitalistiche in Europa e in Italia, sui tentativi di resistenza e sull’azione del sindacalismo di classe. L’appuntamento di Sinistra Anticapitalista (un convegno simile s’era svolto l’anno scorso sempre a Torino) si conferma come spazio di discussione aperto a tutti i militanti sindacali e politici (sono intervenuti, tra gli altri, esponenti della Cgil, della Cub, di Rifondazione comunista e di altri soggetti impegnati nell’esperienza della Lista L’Altro Piemonte) per individuare alcuni assi di lavoro, propaganda e agitazione per costruire resistenze e conflitto e farli conoscere e crescere.

Con 248mila persone in cerca di lavoro (10,6%), 35 mila in mobilità, di cui più della metà ha più di 50 anni, il 40% dei giovani disoccupato, 400 aziende in crisi, il Piemonte conferma il dato che la ripresa (la produzione industriale cresce del 3,5% nel primo trimestre 2014) non restituisce nemmeno un po’ di lavoro.«Il contesto in cui operiamo – ha detto nelle conclusioni Franco Turigliatto – è quello della revanche, della rivincita dei padroni dopo le paure del ’900». Una serie di misure dell’austerità, infatti, inizia a entrare in vigore (dalla riforma Fornero alle imposizioni fiscali, introduzione dell’Aspi, riduzione del personale nella scuola e nel pubblico impiego) e nuove misure antipopolari sono in arrivo, come ha spiegato nell’introduzione Adriano Alessandria, a partire dalla centralità dell’attacco al pubblico impiego e alla scuola (su cui sono intervenuti Aurelio Macciò, Chiara Carratù e Ennio Avanzi), il jobs act, la cosiddetta riforma degli ammortizzatori sociali più volte annunciata. E mentre ogni giornale e ogni politico enfatizzano la gravità della situazione occupazionale e della precarietà, tutte le misure prese da quei politici e sostenute da quei giornali vanno nel senso di liberalizzare ancora di più il mercato del lavoro a vantaggio dei padroni, flessibilizzare il lavoro, e moltiplicare la precarietà ad ogni livello. Chi gestisce il piano narrativo, intanto, costruisce la contrapposizione tra giovani e vecchi, e ogni altro livello di conflitto orizzontale” pur di non mettere in evidenza quello centrale e verticale tra capitale e lavoro. Così, mentre si toglie diritti ai vecchi”, si rende la vita sempre più dura ai giovani grazie alla destrutturazione compiuta della contrattazione nazionale.

E’ di questo che parla anche la situazione alla Maserati dove solo una settimana fa c’è stato il primo sciopero contro l’aumento dei carichi di lavoro, dei ritmi, dello sfruttamento o anche la vertenza diffusa nella logistica su cui il convegno ha ascoltato delle testimonianze dirette.

In tutto ciò risulta clamorosa l’assenza di una risposta di insieme, di una iniziativa generale, da parte di un movimento sindacale complice con la compiuta involuzione ulteriore della CGIL. «L’apparato ha bisogno di affermare la propria esistenza – ha spiegato Alessandria – ma non può chiamare alla lotta perché l’autorganizzazione dei lavoratori rivelerebbe la sua inutilità». La cislizzazione della Cgil sembra procedere spedita se, come ha detto Delia Fratucelli, Rsu alle Poste, le tre confederazioni stanno per lanciare in ogni azienda consultazioni senza prevedere alcun voto dal basso.

Gli accordi del 31 maggio e del 10 gennaio hanno cucito una camicia di forza che impedisce ai lavoratori di reagire alle politiche di austerità in cambio di una rendita di posizione per gli apparati sindacali che impone loro un ruolo di cane da guardia nelle fabbriche. «Siamo di fronte a un quadro operativo per fare sindacato completamente diverso e molto più difficile, una situazione in cui i padroni a un certo punto potrebbero anche pensare di poter fare a meno degli stessi sindacati complici. Quanto sta facendo Renzi nel pubblico impiego va nel senso di ridurre ulteriormente gli spazi delle stesse burocrazie sindacali. L’accordo del 10 gennaio, in particolare, pone grandi problemi tattici per il sindacalismo di classe, di cui bisogna discutere senza ultimatismi e con delle verifiche empiriche (a partire dal dilemma se presentarsi alle elezioni di Rsu dimezzate oppure lasciare il campo libero alle liste della burocrazia, ndr)».

Sinistra anticapitalista rivendica, in questa fase, l’importanza della costruzione di una opposizione nella CGIL, alla luce anche delle contraddizioni e delle difficoltà della posizione emendataria, a partire da “Il sindacato è un’altra cosa”, la mozione alternativa di cui l’organizzazione e molti dei quadri presenti al convegno sono stati sostenitori nel congresso appena ultimato. Ora però la parola d’ordine dev’essere quella dell’azione unitaria intersindacale, tra tutte le componenti di classe, senza forzature, senza primogeniture, come base per aiutare veramente i lavoratori e le loro resistenze. Di qui l’interlocuzione con un sindacato di categoria come la FIOM e con i settori che hanno sostenuto la posizione emendataria, quella di Landini. Uscire dalla Cgil servirebbe a disperdere ulteriormente le forze a solo vantaggio della burocrazia, senza costruire migliori possibilità all’esterno.

I problemi dell’azione politica e delle eventuali ricomposizioni ci sono, ma sarebbe un grave errore trascurare il livello sindacale oggi per un saltare direttamente e solo su quello politico. La ricomposizione dovrà essere sociale, sindacale e politica, non dovrà essere una proclamazione astratta (ad esempio quella dell’unità dei comunisti) ma deve partire dalla condivisione delle lotte.

lunedì 23 giugno 2014

DA SCELTA CIVICA A SEL: TUTTI SUL CARRO DEL VINCITORE ... di Aldo Giannulli





DA SCELTA CIVICA A SEL: TUTTI SUL CARRO DEL VINCITORE ...
di Aldo Giannulli



La vecchia legge per cui gli italiani sono prontissimi ad andare al soccorso del vincitore è sempre valida: da Scelta Civica a Sel (e qualcuno dice anche qualche ex M5s, Ncd e Fi), cortei di parlamentari si dirigono verso il Pd, badando di dichiarare che è verso il Pd di Renzi che vanno, mica verso le minoranze interne.

Faccio umilmente notare che quando a maggio scrissi un pezzo in cui parlavo di una prossima scissione di Sel, deplorando che essa potesse accadere in piena campagna elettorale, poco mancò che alcuni interventori mi mangiassero, accusandomi di farmi portavoce delle invenzioni del “Fatto” che voleva solo affondare la lista Tsipras per aiutare il M5s. Lasciai perdere la polemica, anche per non danneggiare la Lista Tsipras, ma non me la ero inventata e non se la era inventata neppure il Fatto. Il fatto è che mi erano giunte voci abbastanza precise che parlavano di trattative in corso fra Pd e qualche futuro transfuga. Nulla di provato, si intende, ma da diversi particolari si capiva che c’era molta verità in quelle voci. Ora i fatti le confermano.

Migliore, che non ho mai particolarmente stimato, va a fare l’opposizione di sua Maestà nel Pd; forse gli daranno una divisa da paggetto che dovrebbe stargli a meraviglia.

Quelli di Scelta Civica, sono un gruppo parlamentare sospeso sul nulla, perché la loro base elettorale è evaporata. Poveretti, cercano di raggiungere i loro elettori nel Pd. Forse si uniranno a loro alcuni alfaniani e persino qualche forzitaliota.

Ma siamo sicuri che per Renzi sia un guadagno? Certo, nell’immediato, questa migrazione biblica lo rafforza, aiutandolo nel “progetto 2018” (durare sino alla fine della legislatura), dato che elezioni anticipate sono l’ultima cosa che questo parlamento di nominati possa desiderare. Ma, in prospettiva saranno dolori. Ragioniamo: il Pd oggi ha 295 deputati e 109 senatori, per un totale di 404 parlamentari, aggiungendoci una trentina di Scelta civica fra Camera e Senato, una quindicina di Sel ed una dozzina da altri gruppi, arriva a circa 460 parlamentari, la maggior parte dei quali aspira alla rielezione. E questo è un problema molto serio, perché il Senato, con la sua riforma, si ridurrà a 100 componenti, che, dovrebbero essere scelti fra i sindaci ed i consiglieri regionali per cui solo qualcuno degli attuali parlamentari, attraverso il passaggio a sindaco o consigliere regionale, potrebbe aspirare alla conferma in Senato. Realisticamente non più di una decina. Per cui restano circa 450 “cambiali” da sbolognare. Per di più, una bella fetta degli attuali gruppi parlamentari è fatta da ex bersaniani, cuperliani, civatiani mentre il buon Matteo aspira a piazzarci un po’ di gente sua. Non ci vuole molto a capire che, neanche se la Camera fosse di 800 seggi, ci sarebbe modo di accontentare tutti. Magari, in maggioranza, gli attuali parlamentari cercheranno di fare i buoni per sperare in una riconferma (se si dovesse votare a liste bloccate), ma, calcolando che il Pd possa vincere le elezioni ed avere il premio ipotizzato dall’Italicum, avrebbe circa 320 deputati, considerando che Renzi vorrà infilarci almeno un centinaio dei suoi in aggiunta a quelli attuali, se ne ricava che ci sarà posto per meno di 220 degli attuali parlamentari. Mentre gli aspiranti alla riconferma sarebbero 450 circa, cioè c’è speranza di salvezza per meno di 1 su 2… se Renzi si accontenta di una infornata di cento dei suoi. Ben presto ciascuno inizierà a valutare quali siano le sue possibilità di salvezza. E per quelli che capiranno di non averne affatto, la tentazione di iniziare a fare il franco tiratore, magari nella speranza di un segretario di partito più amico, potrebbe farsi irresistibile. Quattro anni sono molto lunghi e di cose possono accaderne. Sarebbe più conveniente per Renzi che ci fosse il voto di preferenza: potrebbe concentrarsi sui suoi senza assumere su di sé la responsabilità di far affogare gli altri. Tanto, una bella fetta di questi parlamentari non mette insieme più dei voti della mamma, della moglie, del cognato e del suo portiere (e del portiere non sono tanto sicuro). A volte penso che la battaglia che stiamo facendo sul voto di preferenza, alla fine, diventa un favore a Renzi.

Certo al Senato ci sarà da divertirsi quando si arriverà in aula, considerato che trattandosi di riforma costituzionale, dovrebbe esserci il voto segreto qualora lo chiedessero un quinto dei senatori.

In un anno di legislatura sinora hanno cambiato partito 131 parlamentari (senza contare quelli che si apprestano a farlo). Ma, secondo voi, con una classe parlamentare di passeggiatori e passeggiatrici di questo calibro, a che serve parlare di premi di maggioranza e di “governabilità”?

La prossima volta, il Parlamento convocatelo al mercato del pesce.




dal sito http://www.aldogiannuli.it/



sabato 21 giugno 2014

IL NEOCOLONIALISMO FRANCESE IN COSTA D'AVORIO di Enzo Brandi





IL NEOCOLONIALISMO FRANCESE IN COSTA D'AVORIO
di Enzo Brandi



La defenestrazione e l’arresto del Presidente della Costa d’Avorio Laurent Gbagbo nel settembre del 2011 ad opera dell’esercito francese si configura – secondo il giudizio di tutte le fonti indipendenti riportate più sotto in appendice – come un vero colpo di stato – ammantato di false motivazioni “umanitarie” – attuato per difendere gli interessi neo-coloniali della Francia.

Questa vicenda si iscrive in un quadro di innumerevoli interventi simili (anch’essi riportati sinteticamente in appendice) con cui la Francia, massima potenza coloniale dell’Africa settentrionale ed occidentale, dopo essere stata costretta a concedere l’indipendenza ad una serie di sue ex-colonie, ha cercato di mantenerne l’effettivo controllo economico e politico. Anche l’attacco ad un paese indipendente come la Libia attuata dal Presidente Sarkozy, che pure non era stata una colonia francese, si iscrive in questo quadro.

Sarà utile quindi ricordare per sommi capi la storia della Costa d’Avorio (il vero gioiello dell’ex-impero coloniale francese in quanto paese più ricco dell’Africa occidentale) a partire dal conseguimento dell’indipendenza ottenuta nel 1960.

Dopo questa data, per oltre 30 anni, dal 1960 al 1993, il paese è stato controllato dal Presidente-padrone Felix Houphouet-Boigny, stretto alleato e garante degli interessi dell’ex potenza coloniale, la Francia, che tuttora continua a controllare tutta l’economia della Costa d’Avorio, ed in particolare la produzione e l’esportazione del cacao, di cui il paese è il massimo produttore mondiale. Le compagnie monopolistiche francesi ne ricavano circa 2,5 miliardi di Euro l’anno.

lunedì 16 giugno 2014

LA PALERMO DELL'ESTETA BOLOGNINI di Stefano Macera




LA PALERMO DELL'ESTETA BOLOGNINI
di Stefano Macera




Con questo scritto, dedicato a uno degli ultimi lavori di Marco Bolognini e già pubblicato sul sito Distopia, parte un ciclo di articoli sul cinema italiano, documentario e di finzione.
Saranno presi in considerazione sia i maestri, giustamente riconosciuti a livello internazionale, sia quegli autori minori, che si sono dimostrati capaci di trascendere i limiti di un corretto artigianato.



Palermo di Mauro Bolognini fa parte del progetto "12 registi per 12 città", legato ai mondiali di calcio del 1990. In quell'occasione, si chiese ad alcuni tra i più grandi nomi del cinema italiano (tra gli altri, Antonioni, Olmi e Rosi) di realizzare brevi ritratti delle 12 città italiane coinvolte nella importantissima manifestazione sportiva.
In quello che porta la firma dell'autore di film come La viaccia e Metello, c'è un aspetto che colpisce subito: l'ariosità dei movimenti di macchina, che sembrano produrre una danza attorno agli ambienti che ci vengono proposti. Ciò accade sia quando ci troviamo di fronte a campi lunghissimi (come quello, iniziale, con la città vista dall'alto), sia quando vengono attraversati rapidamente luoghi precisi (come il chiostro di Monreale).
Di certo, il documentario si segnala più per la estrema cura formale che per gli intenti didattici. Probabilmente, il regista è partito dall'idea - non infondata - del carattere velleitario di qualsiasi tentativo di restituire in una manciata di minuti una storia complessa come quella del capoluogo siciliano. Perciò, ha deciso di procedere attraverso una narrazione frammentaria, guidata dalle immagini, più che dal testo recitato dalla voce fuori campo, non a caso contraddistinto da un tono tendenzialmente evocativo e dalla essenzialità dei riferimenti storici.
Tale scelta, in linea di massima, risulta convincente, ma forse sconta il limite di ogni partito preso non portato alle estreme conseguenze. Nel senso che, a tratti, si avverte la sensazione che qualche elemento informativo in più avrebbe giovato. Si pensi, ad esempio, a quando la voce off si riferisce all'immagine dell'Annunciata senza specificare che è dovuta al sommo Antonello da Messina. Vien da pensare che, per non indurre lo spettatore a chiedere "più nozioni", si sarebbe dovuta scegliere la più radicale via dell'azzeramento del commento fuori campo. Ad ogni modo, ciò non intacca l'impatto complessivo di questa fatica di Bolognini, che peraltro, nonostante la sua natura occasionale, non è irrilevante ai fini di una maggiore comprensione dell'autore e della sua opera, a lungo controversa. E' noto che il nostro è stato spesso indicato come un amante della bella confezione in film in costume, tali da permettergli di dare sfogo alla sua vocazione per un'eleganza estenuata.

Se la descrizione in questione, nella sua parzialità, coglie elementi reali, va riconosciuto, però, che il regista è stato capace di utilizzare al meglio certe sue inclinazioni anche in una realizzazione non fiction come questa, dove la scenografia è costituita dalla piazze, le chiese e i palazzi storici d'una città.
Riflessioni generali sull'autore a parte, sarebbero da affrontare i termini in cui, nel documentario, vengono definiti i rapporti tra suono e immagine. A tal proposito, va anzitutto sottolineato che il contributo del sonoro è articolato, comprendendo un canto - dedicato a Palermo - che viene proposto all'inizio e alla fine, ma anche brani musicali strumentali e rumori del quotidiano. Questi ultimi, li ritroviamo nella sequenza che - allontanandosi finalmente dalla Palermo monumentale - alterna particolari del dipinto di Guttuso dedicato alla Vucciria a immagini "catturate" dal vero nello stesso mercato.
La musica strumentale, invece, accompagna quasi tutto il resto dell'opera, perlopiù in sottofondo, così da non distogliere l'attenzione dai brevi cenni della voce fuori campo, nè soprattutto dal fulgore delle inquadrature. Le quali, peraltro, interrompono il loro continuo movimento solo per brevi tratti, come quando l'affresco del Trionfo della morte, in Palazzo Abatellis, ci viene illustrato attraverso un serrato montaggio di dettagli.
Quel che è certo è che Palermo si presta anche ad una visione senza audio. Infatti, a prescindere dall'intervento, generalmente corretto, del sonoro, la forza di questo prodotto sta tutta in ciò che Bolognini ha voluto vedere, offrendoci l'immagine di una città meno sofferente di quella che domina nella tv-inchiesta, meno decadente di quella immortalata da Francesco Rosi in Dimenticare Palermo e più consona al suo temperamento di esteta.



5 aprile 2013


giovedì 12 giugno 2014

A TRENT'ANNI DALLA MORTE DI ENRICO BERLINGUER di Roberto Sarti




A TRENT'ANNI DALLA MORTE DI ENRICO BERLINGUER
di Roberto Sarti


L'eredità di Enrico Berlinguer viene rivendicata da buona parte dei partici politici di governo e di opposizione di questo paese. La tragica morte, avvenuta l'11 giugno 1984, pochi giorni dopo un malore accusato mentre parlava a un comizio a Padova, ha contribuito sicuramente ad alimentare il mito di colui che rivestì la carica di segretario del Partito comunista italiano in un decennio decisivo per il movimento operaio italiano.

Per molti militanti di sinistra, giovani e anziani, Berlinguer incarna la forza del Pci, a cui aggrapparsi di fronte alle grandi difficoltà in cui si dibatte la sinistra oggi.
Il criterio con cui chi lotta per cambiare la società oggi si avvicini all'operato di Berlinguer non può essere la nostalgia, ma un'analisi rigorosa della sua vita e delle sue opere.
Enrico Berlinguer nacque a Sassari da una famiglia della buona borghesia sarda. Dirigente del Partito nella città natale dalla sua ricostituzione, sarà il primo segretario del Fronte della Gioventù e poi della nuova Federazione giovanile comunista, rinata nel dopoguerra.
L'apprendistato alla direzione del partito si compì tutto all'ombra di Togliatti, di cui assumerà totalmente l'ideologia e la prospettiva politica. All'XI congresso, quello dello scontro tra la sinistra ingraiana e la destra di Amendola e Alicata, si posizionò al centro del partito. Una posizione che lo caratterizzerà negli anni successivi e che molto probabilmente lo faciliterà per la nomina di vicesegretario del partito, carica creata per affiancare Luigi Longo, subentrato a Togliatti alla guida del Pci, ma con gravi problemi di salute. Berlinguer diventerà segretario al XIII congresso, nel marzo 1972.
Erano gli anni delle grandi lotte operaie. Milioni di lavoratori e di giovani, dopo aver conseguito conquiste decisive sul terreno dei diritti e delle condizioni di lavoro, esigevano un cambiamento politico e si rivolsero al Pci. Come effetto di questa radicalizzazione politica il Pci raggiunse il suo massimo storico a livello elettorale alle politiche del 1976 (34,4% 12 milioni e 600mila voti, tre milioni in più rispetto alle precedenti elezioni politiche del 1972). Gli iscritti ebbero un’impennata simile, arrivando ad oltre 1milione e 800mila in quello stesso anno (300mila in più rispetto al 1970).

mercoledì 11 giugno 2014

LA CORRUZIONE: FALSE DIAGNOSI, FALSI RIMEDI di Antonio Moscato




LA CORRUZIONE: FALSE DIAGNOSI, FALSI RIMEDI
di Antonio Moscato



Dopo la nuova scoperta dell’acqua calda, cioè che un’opera costosissima come il MOSE di dubbia utilità e di probabile pericolosità per l’ecoambiente della laguna, ha vinto tutte le resistenze coinvolgendo il massimo numero possibile di coloro che avrebbero dovuto controllare l’impatto e il costo dei lavori, è cominciata una penosa gara a chi propone i rimedi più energici alla “piaga della corruzione”. C’è stato il senatore Giarrusso del M5S che ha proposto la ghigliottina, evidentemente affascinato dalla certezza che tutti i pennivendoli di regime lo avrebbero preso alla lettera e denunciato come boia sanguinario. Pare che l’idea di offrire un assist all’avversario sia irresistibile per alcuni. Naturalmente Renzi non poteva farsi superare, e quindi ha sparato la proposta di considerare la corruzione dei politici “alto tradimento”. Un reato che in tempo di guerra comportava la pena di morte.

Renzi ha parlato anche di “Daspo a vita”, sicuro che l’allusione al gergo del calcio e del tifo sia più comprensibile. Vorrebbe dire: fuori per sempre i corrotti dagli incarichi politici, ma che sia solo una battuta lo si capisce da quanti corrotti, da sempre denunciati dalla rara stampa non arruolata, o in libri documentatissimi, riempiono le sale di parlamenti e consigli regionali, comunali, ecc. Non solo, ma anche nel PD!

Per funzionare, queste proposte avrebbero comunque bisogno di una “piccola riforma”: non dover aspettare il giudizio in cassazione per mandar via i politici corrotti. Ma nessuna delle forze presenti, tutte implicate in questo o quello scandalo, può rinunciare alla presunzione di innocenza, e accettare che si decada sistematicamente dall’incarico appena si viene scoperti con le mani nel sacco. E anche molti cittadini onesti, che però non considerano infallibile la magistratura, sarebbero preoccupati da un’eventuale eliminazione del ricorso in appello dopo una condanna.

domenica 1 giugno 2014

IN ITALIA LA SINISTRA RICOMINCIA DA QUATTRO di Alfonso Gianni



IN ITALIA LA SINISTRA RICOMINCIA DA QUATTRO
di Alfonso Gianni


Ulrich Beck proclama la fine dell’austerità troppo in fretta. Alain Touraine chiede più potere per il ministro destrorso Valls. Ma a indicare un’altra rotta per l’Europa resta la bussola di Syriza


Il voto di dome­nica, richiama innan­zi­tutto una let­tura euro­pea che non si pre­sta a giu­dizi sem­pli­fi­cati. Per alcuni paesi, come il nostro o la Fran­cia si è trat­tato di un vero ter­re­moto; nel con­tempo, pur mar­cando inquie­tanti suc­cessi, le destre anti­eu­ro­pei­ste non tra­vol­gono i rap­porti di forza nel par­la­mento euro­peo, ove aumenta di con­si­stenza l’area di un euro­pei­smo cri­tico da sini­stra attorno a Tsi­pras. I popo­lari, pur restando primi, indie­treg­giano e non poco, la stessa cosa fanno i social­de­mo­cra­tici, sep­pure in misura minore.

Nel con­tempo per la prima volta dal 1979 la per­cen­tuale dei votanti non è scesa, se non di un deci­male, atte­stan­dosi sul 43%. In Ita­lia è invece dimi­nuita for­te­mente, del 7,7%, scen­dendo sotto il 60% per la prima volta in una ele­zione di carat­tere generale.

La strada delle lar­ghe intese sul modello tede­sco con­ti­nua a essere la più pro­ba­bile in quel di Stra­sburgo, anche se le figure di rife­ri­mento pos­sono cam­biare. Né Junc­ker né Schulz escono dalla con­tesa in grande salute ed è pos­si­bile che il ruolo di pre­si­dente della com­mis­sione possa andare ad altri. Mat­teo Renzi pro­getta di chie­dere il posto per qual­cuno dei suoi, in subor­dine di aspi­rare alla carica di mini­stro degli esteri, in sosti­tu­zione della scialba Ash­ton, o di avere il ricco por­ta­fo­glio dell’Agricoltura. Insomma il par­tito di Renzi si pre­para a con­tare di più in Europa, al di là del pros­simo seme­stre ita­liano. Men­tre il duo­po­lio Fran­cia – Ger­ma­nia su cui si era fon­data tutta la costru­zione poli­tica, eco­no­mica e isti­tu­zio­nale euro­pea da Maa­stri­cht in poi è tra­volto dal disa­stro francese.

Que­sti cam­bia­menti e nello stesso tempo il per­du­rare e il con­fer­marsi di vec­chie ten­denze, pro­du­cono un effetto di spiaz­za­mento anche nei giu­dizi di intel­let­tuali da sem­pre attenti alla dimen­sione euro­pea ( si par va licet com­po­nere magnis ). Ulrich Beck pro­clama la fine dell’austerità. E’ vero che la Mer­kel appare più sola nel con­te­sto euro­peo; soprat­tutto la Bce nella sua immi­nente riu­nione dei primi di giu­gno si appre­sta ad abbas­sare verso lo zero i già bas­sis­simi tassi di inte­resse e di ren­derli nega­tivi per osta­co­lare i depo­siti delle ban­che presso l’istituto di Fran­co­forte che ini­bi­scono il cre­dito alle imprese e alle per­sone; dun­que che qual­che misura con­tro la defla­zione e la reces­sione verrà presa. Ma risulta dif­fi­cile pen­sare che una teo­ria come quella dell’austerità espan­siva, fal­si­fi­cata dall’evidenza dei fatti e delle cifre, possa essere supe­rata per auto­ri­forma, senza che com­paia a con­tra­starla una teo­ria almeno di uguale forza e capa­cità di attra­zione. Que­sta c’è, ma per ora vive solo nei pro­grammi che hanno por­tato all’affermazione le liste che face­vano rife­ri­mento a Tsi­pras e poco più. Quello che è vero, e le con­se­guenze sono ancora peg­giori, è che le teo­rie del rigore rivi­vono nella dimen­sione della pre­ca­rietà espan­siva, ovvero delle deva­stanti misure strut­tu­rali che pre­ca­riz­zano defi­ni­ti­va­mente il lavoro, su cui il nostro governo si è par­ti­co­lar­mente distinto con il decreto Poletti.
Dal canto suo Alain Tou­raine, prima invoca un sus­sulto repub­bli­cano in Fran­cia per con­te­nere l’ondata popu­li­sta dei Le Pen, poi con­si­glia di dare più poteri al primo mini­stro Manuel Valls, ovvero al più destrorso della scom­bic­che­rata com­pa­gine di Hol­lande, il che pro­vo­che­rebbe esat­ta­mente l’effetto oppo­sto se è vera la sua ana­lisi di una “con­nes­sione sen­ti­men­tale” fra il Fn e gli strati popolari.

In que­sto qua­dro assume una impor­tanza deci­siva l’affermazione di liste che fanno rife­ri­mento a Tsi­pras o che chie­dono di fare gruppo assieme — come “Pode­mos” la for­ma­zione elet­to­rale che trae ori­gine dal movi­mento degli indi­gna­dos spa­gnoli (che con il suo 8% ha eletto ben 5 depu­tati) – e natu­ral­mente il risul­tato di Syriza che lo con­ferma primo par­tito in Gre­cia. E’ dall’insieme di que­ste forze che biso­gna ripar­tire per met­tere seria­mente in crisi le poli­ti­che di auste­rità, evi­tare la loro cama­leon­tica ripro­po­si­zione e inver­tire la rotta verso poli­ti­che anti­ci­cli­che, soli­dali e occupazionali.

La vicenda ita­liana è con­tras­se­gnata dall’enorme balzo in avanti del Pd su livelli che solo la vec­chia Dc aveva toc­cato in un lon­tano pas­sato e dalla scon­fitta secca del M5Stelle che cede soprat­tutto voti all’astensione. Chi aveva pen­sato a un neo­bi­po­la­ri­smo Renzi-Grillo deve rive­dere le sue ana­lisi. Ver­rebbe da dire che dal bipar­ti­ti­smo imper­fetto di cui par­lava lo sto­rico Gior­gio Galli, basato sul duo­po­lio Dc-Pci (con la con­ven­tio ad exclu­den­dum nei con­fronti di quest’ultimo) si stia pas­sando a un mono­par­ti­ti­smo imper­fetto, fon­dato sul Pd e su un sistema di par­titi il mag­giore dei quali non rag­giunge che la metà dei suoi voti.

In que­sto qua­dro è evi­dente che l’espressione stessa cen­tro­si­ni­stra, con o senza trat­tino, ha perso ogni signi­fi­cato. Almeno per quanto riguarda il governo nazio­nale. Vel­troni non ha torto di gon­go­lare, anche se il par­tito a voca­zione mag­gio­ri­ta­ria che lui aveva pen­sato, man­dando in crisi di fatto il secondo governo Prodi e ria­prendo la strada a Ber­lu­sconi, si rea­lizza sotto un’altra stella. Chi, d’altro canto, parla di fare un par­tito unico con il Pd, finge di non accor­gersi di pre­di­care una sem­plice confluenza.

Il quo­rum de “L’altra Europa con Tsi­pras” ha inter­rotto la serie dei fal­li­menti elet­to­rali a sini­stra. E’ vero che è un risul­tato risi­cato e che il numero di voti con­qui­stati non fa la somma delle orga­niz­za­zioni che hanno dato il loro appog­gio alla lista. Ma que­sto segnala per l’appunto la per­dita di con­sensi di que­sti micro par­titi e la scelta vin­cente di dare vita a una lista di cit­ta­di­nanza.
Inter­rom­pere que­sta espe­rienza sarebbe un sui­ci­dio senza resur­re­zioni. Lo sarebbe anche per la demo­cra­zia ita­liana che vedrebbe ulte­rior­mente ristretta le pos­si­bi­lità di espres­sione e rap­pre­sen­tanza poli­tica, aprendo a nuove derive neoau­to­ri­ta­rie. Aprire una fase costi­tuente di una forza di sini­stra, dal basso e dall’alto, sul piano della pro­du­zione cul­tu­rale e dell’elaborazione poli­tica, come su quello della prassi nei movi­menti è il com­pito che ci spetta.

30 maggio 2014

da Il Manifesto


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