Diari di Cineclub

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Rivista Cinematografica online e gratuita

mercoledì 22 agosto 2012

UN UOMO TRANQUILLO di Stefano Santarelli






UN UOMO TRANQUILLO
Le radici irlandesi del cinema di John Ford

di Stefano Santarelli



Siamo nel 1950, in piena era McCarthy, e ci troviamo in una riunione della Associazione dei registi convocata da Cecil B. De Mille con lo scopo di pretendere dai suoi iscritti un giuramento di fedeltà in funzione anticomunista, oltre che per destituire Joseph L. Mankiewicz dalla carica di Presidente di questa Associazione colpevole per le sue comprovate tendenze politiche di sinistra. Non contento di questo De Mille attacca inoltre anche altri registi sospettati di simpatie comuniste come William Wyler e Fred Zinneman.
Ebbene in questo clima teso da caccia alle streghe, avvolto in un gelido silenzio, prende la parola un uomo che con una benda sull'occhio, un berretto da baseball e scarpe da tennis non poteva certamente passare inosservato:
Mi chiamo John Ford. Faccio western. Penso che non ci sia nessuno in questa stanza che sappia meglio di Cecil B. De Mille quello che il pubblico americano vuole. E certamente lui sa come darglielo.
Ma tu non mi piaci, C.B., e non mi piace quello che hai detto qui questa sera!”.
Come si può intuire da questa dichiarazione ci troviamo di fronte ad un uomo che non aveva paura di andare controcorrente, ma al di là della sua presentazione John Ford non è solo il regista di celebri film western (Ombre rosse, Sfida infernale, Sentieri selvaggi, ecc.). Ma nella sua sterminata produzione cinematografica composta da quasi 100 film nell’arco di ben 52 anni, Ford si rivela indiscutibilmente non solo come uno dei più grandi registi della storia del cinema, ma anche come uno dei più eclettici.
Gira infatti film di profonda denuncia sociale (La via del tabacco, Come era verde la mia valle, Furore), ma anche deliziose commedie (Un uomo tranquillo, Mister Roberts, I tre della Croce del Sud).

Di origine irlandese, John Ford nacque a Cape Elizabeth, presso Portland, nello stato americano del Maine, il 1 febbraio 1895. Il suo vero nome è Sean Aloysius O’Fearna (O’Fienne o O’Feeney nella ortografia anglicizzata con cui la pronuncia americana cerca un equivalente fonetico dell’irlandese).
Quando raggiunse nel 1920 ad Hollywood il fratello maggiore, allora celebre attore teatrale e cinematografico, il quale aveva adottato come nome d’arte Francis Ford e che lo aiutò ad inserirsi nel mondo cinematografico adottò anche lui questo cognome. E’ da notare che Francis apparirà come caratterista in alcuni celebri film del fratello minore tra cui Sfida Infernale e l’Uomo tranquillo.
E’ difficile riassumere tutte le tematiche del cinema fordiano, in questo breve articolo ci vogliamo soltanto soffermare sul profondo amore che lega John Ford alle sue radici irlandesi, un amore che si intravede in quasi tutti i suoi film.
Come non ricordare infatti il simpatico e burbero sergente irlandese Quincannon interpretato da Victor McLaglen nei “Cavalieri del Nord Ovest” ed in “Rio Bravo”. Lo stesso attore che nel 1935 aveva diretto nel “Il traditore” e che gli aveva permesso di ottenere il suo primo premio Oscar alla regia oltre che di offrire al bravo McLaglen la possibilità di dare una grande interpretazione che gli valse il premio Oscar quale migliore attore protagonista.
Ed “Il traditore” non è solo una parabola moderna sulla figura di Giuda, ma è anche un omaggio alla lotta per l’indipendenza dell’Irlanda.
Si deve ricordare che l’immigrazione irlandese in America (avvenuta soprattutto dopo l’epidemia di carbonchio del 1845 e le successive carestie dovute alla dominazione inglese che avevano provocato più di un milione di morti) fu insieme a quella italiana ed ebraica quella che provocò la rottura del dominio dei W.A.S.P. (White Anglo-Saxon Protestant) trasformando così gli Stati Uniti.

In questo articolo però vogliamo soltanto soffermarci forse sul film più intimo e sentito che John Ford abbia mai girato. Un film che ha avuto una genesi molto travagliata, vale a dire “Un uomo tranquillo" che tra l’altro gli fruttò anche il suo quarto Oscar.
Questo film è tratto da un breve racconto del 1933 di Maurice Walsh pubblicato nelle pagine del Saturday Evening Post. Tre anni dopo Ford ne acquista i diritti per la sceneggiatura dall’autore per soli dieci dollari con la promessa di pagare di più se fosse riuscito a realizzare il film. Ma questo progetto non rientrava nei programmi delle più celebri maior hollywoodiane e questo nonostante i successi e la grande fama che circondava Ford.
Semplicemente non si riteneva che una leggera storiella irlandese potesse trascinare il pubblico nelle grandi sala cinematografiche. Non aveva quel pathos di “Come era verde la mia valle” ambientato in un villaggio gallese. Un film che aveva permesso a Ford di conoscere ed apprezzare quella grande attrice che è Maureen O’Hara la quale oltretutto è una irlandese purosangue e le offrì subito il ruolo della protagonista femminile nel caso fosse riuscito a girarlo. La O’Hara accettò immediatamente con una semplice stretta di mano e anzi aiutò in seguito lo stesso Ford a stenografare la sceneggiatura.
Ma come si è detto nessuna delle grandi maior era disposta a finanziare questo film. Fu quindi John Wayne a suggerire a Ford di rivolgersi ad una piccola casa cinematografica specializzata in modesti film western con cui era sotto contratto: la “Republic Pictures”.
Ma anche questi produttori erano estremamente scettici su questo progetto e chiesero ed ottennero da John Ford che girasse prima un film western con John Wayne e Maureen O’Hara come protagonisti.
Questo film, che ottenne un grosso successo ai botteghini, è “Rio Bravo(1) con il quale idealmente il grande regista termina una trilogia sulla cavalleria americana in lotta contro gli Apache iniziata con “Il massacro di Fort Apache” ed “I cavalieri del Nord Ovest”. Rispetto ai due film precedenti è girato con più povertà di mezzi, ma francamente lo spettatore non se ne accorge, questo grazie alle magnifiche interpretazioni di John Wayne e Maureen O’Hara i quali per la prima volta recitano insieme costituendo una delle più celebri coppie del cinema americano e non va dimenticata l’eccezionale interpretazione di Victor McLaglen. Questi tre attori saranno l’anno successivo, insieme a Barry Fitzgerald, tra i protagonisti di “Un uomo tranquillo”.
Il successo di “Rio Bravo” permette quindi a Ford di girare il suo agognato film.
Effettivamente lo scetticismo dei produttori era più che giustificato.

La storia è francamente esile:
un ex campione statunitense dei pesi massimi, Sean Thorton, che dopo aver ucciso sul ring un suo avversario decide di ritornare in Irlanda, nel paese natio dei suoi genitori per vivere finalmente in pace. Qui si innamora di una bellissima contadina Mary Kate Danaher. Si sposano, ma il fratello di lei si rifiuta di pagare la dote promessa che verrà data soltanto dopo un epica scazzottata con Thorton. Soldi che verranno bruciati immediatamente da Mary Kate e da suo marito.

Come si può vedere è una trama non certamente paragonabile a “Via col vento” o ad “Uccelli di rovo” eppure questo permette a Ford di sviluppare il suo film certamente più personale ed ispirato.
Richard Llewllyn, l’autore di “Come era verde la mia valle” ne sviluppa il breve racconto di Walsh permettendo a Franck S. Nugent di firmare la sceneggiatura finale che non vedrà volutamente nessun riferimento alla lotta per l’indipendenza irlandese.
E’ una Irlanda quella disegnata da Ford bucolica ed immaginaria, ma nonostante ciò si inizia a sentire l’influenza del neorealismo.
Dobbiamo ricordare che in quel tempo il cinema statunitense era abituato a girare tutto in interni e per quanto riguardava gli esterni non ci si muoveva dagli Stati Uniti. Per esempio “Come era verde la mia valle” che è ambientato in un villaggio del Galles venne girato da Ford a Malibù in California. Ma già nel 1948 con “La città nuda”, un solido e realistico poliziesco interpretato proprio da Barry Fitzgerald, fece allora scalpore perché per la prima volta un film venne girato interamente nelle strade di New York.




Ford si batte con la produzione affinché il suo film venisse girato negli esterni proprio in Irlanda ed in Technicolor e senza avere nessun taglio (il film infatti dura più di due ore, cosa anomala in quei anni).
Si porta tutta la sua famiglia e facendo in modo che anche tutto il suo cast portasse a Cong (il paesino irlandese dove venne girato il film) le loro rispettive famiglie.
Infatti il figlio di Ford, Patrick fece da assistente alla regia, l’altra figlia Barbara fece da assistente di montaggio e il già citato fratello Francis recitò nella parte del vecchio Dan Tobin.
Il figlio di Victor McLaglen e futuro regista, Andrew, sarà il secondo assistente alla regia.
Barry Fitzgerald porterà il fratello minore, Arthur Shields che interpreterà la parte di un pastore protestante senza fedeli visto che quella cittadina irlandese è composta unicamente da cattolici.
Anche due fratelli di Maureen O’Hara apparvero nel film: James Lilburn nella parte di Padre Paul, il giovane vice parroco e Charles Fitzsimons nella parte dell’ufficiale Forbes.
John Wayne porta invece i sui giovanissimi figli che recitano brevemente con Maureen O’Hara nella scena della gara equestre.
Tutto questo a dimostrazione che Ford amava circondarsi di persone con cui aveva un rapporto di stima e amicizia, dagli attori a tutta la troupe. Infatti egli era solito girare i sui film con gente con cui era abituato a lavorare, ma che soprattutto era abituata a lui.
D’altronde una delle caratteristiche del cinema di Ford era quella che non vedeva tanto protagonisti degli individui singoli, ma delle comunità e queste potevano essere sia la Cavalleria degli Stati Uniti come i Cheyenne del “Il grande sentiero
A Cong, Ford riesce a costruire una specie di famiglia allargata: tanto per fare un esempio John Wayne era effettivamente un amico intimo di Ward Bond (che interpreta in questo film la parte del parroco) un amicizia di lunga data, da quando entrambi erano giocatori di football, un rapporto così stretto che li ha portati a fare da testimoni nei loro rispettivi matrimoni e sarà proprio Wayne che farà l’orazione funebre al funerale di Bond.
Questo clima di vera amicizia si sente in tutto il film ed è questa forse la vera chiave per potere comprendere il suo successo.
Questa amicizia permette anche agli attori di girare, tranne che in pochissime scene, senza l’uso di controfigure. Così la O’Hara per molti metri viene trascinata violentemente per terra da Wayne in un campo pieno di sterco di pecora e McLaglen, allora sessantunenne, non esita a lottare con Wayne di ben 21 anni più giovane (a parte la scena della caduta nel fiume).

Il film quando usci nel 1952 ebbe un grandissimo successo nelle sale cinematografiche ottenendo due Premi Oscar oltre a 5 Nomination vincendo tra l’altro anche il Festival di Venezia.
Un uomo tranquillo” non è in tutta onestà il miglior film di Ford, non è all’altezza di “Ombre rosse” o “Sentieri selvaggi” tanto per fare dei nomi, ma è sicuramente il film che mostra più di tutti l’anima e il vero volto di questo grande regista.



Note

(1) Come in molti paesi europei, Italia in testa, vi è il pessimo costume di modificare i titoli dei film girati all’estero. Emblematico il caso di questo film di John Ford del 1948 il cui titolo originario era Rio Grande e che per qualche strano mistero in Italia uscì con il titolo di Rio Bravo.
Così quando nel 1959 uscì il film di Howard Hawks intitolato per l’appunto Rio Bravo e con lo stesso John Wayne come protagonista ci si trovò costretti nel circuito italiano a modificarne il titolo in Un dollaro d’onore.



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lunedì 20 agosto 2012

SUDAFRICA: UNA TRAGICA CONFERMA di Antonio Moscato




SUDAFRICA: UNA TRAGICA CONFERMA
di Antonio Moscato


Il massacro di Marikana ha sorpreso quasi tutti i commentatori. Come è possibile, nel paese di Nelson Mandela, e mentre Mandela è ancora vivo?

Sorvolano in genere sul fatto che la grande vittoria di Nelson Mandela, se apparve un simbolo straordinario della possibilità di cambiare le cose, non toccò sostanzialmente la ripartizione della ricchezza e non intaccò la struttura dell’apparato statale.

Eliminata con l’Apartheid la barriera formale del colore della pelle, i ricchi rimasero ricchi, anzi spesso divennero ancora più ricchi, e quasi tutti bianchi, come prima, con qualche nero in consiglio di amministrazione. Spesso scelto tra i bonzi sindacali del Cosatu, il sindacato legato organicamente al partito di governo, l’African National Congress. Nel caso della Lonmin proprietaria della grandissima miniera di Marikana, l’unico nero, quasi una specie di “zio Tom”, era Cyril Ramaphosa, che era stato segretario della NUM (National Union of Mineworkers) ed aveva avuto cariche nell’ANC prima di darsi agli affari. Inutile dire che il sindacato che aveva diretto trovava “eccessive” le richieste dei minatori, insoddisfatti dei loro salari di fame (in media 400 euro al mese, per un lavoro pericoloso, e in un’azienda che ha profitti… di platino).

Il Cosatu, non meno dell’ANC, ha avuto un’involuzione fortissima, anche grazie alla corruzione dilagante, ma soprattutto perché costretto a fare da pompiere in una situazione incendiaria. E con un’apparato statale, poliziesco e militare immutato. Fin dal primo momento dell’arrivo dell’ANC al governo: lo stesso Mandela, con il plauso quasi unanime della “comunità internazionale”, aveva accettato di non processare i colpevoli di crimini contro la popolazione nera.

La Truth and Reconciliation Commission (TRC) o Wahrheits- und Versöhnungskommission (WVK) in africaans, la "Commissione per la verità e la riconciliazione", doveva raccogliere testimonianze sui crimini ma garantiva l’impunità ai criminali, rimasti indisturbati ai vertici degli organi repressivi. Abbiamo capito meglio con quali conseguenze, vedendo all’opera gli sbirri a Marikana. Non solo bianchi, ma comandati da bianchi.

I minatori in lotta, organizzati da una scissione del NUM, l’Association of Mineworkers and Costruction Union (AMCU) erano colpevoli di chiedere salari di 1.500 dollari al mese, e di essersi attrezzati con bastoni e lance per difendersi dai mazzieri del NUM e dell’azienda. Logico che la Lonmin abbia chiesto riforzi e li ha avuti. Altrimenti si potevano ridurre i suoi profitti… Momentaneamente intanto la Lonmin ha avuto una flessione del 6,33% nella Borsa di Londra : ovviamente non per lo sdegno per il bilancio di morti (20 o 30 o più, ancora non si sa esattamente) ma per il timore di una capacità di resistenza e di organizzazione dei minatori, che dipende anche dalla capacità di solidarietà nel paese e nel mondo. In particolare nei paesi che come il Sudafrica fanno parte dei BRICS…

Non è facile. Nessuno di quei paesi brilla per democrazia e rispetto dei diritti dei lavoratori. E a questo proposito vale la pena di ricordare che nello stesso Brasile di Lula e Dilma, l’apparato statale è rimasto sempre lo stesso, pronto a intervenire in difesa dei potenti, sia pure, per ora, in forma meno cruenta. E che sintomi allarmanti si sono avuti anche nei tre paesi latinoamericani con governi ben più radicali di quello del Brasile, Venezuela, Bolivia e Ecuador – spesso proprio in difesa degli interessi dell’industria estrattiva…

Prima di avere altre delusioni, meglio riflettere: non basta un cambio di persone, magari degnissime, al vertice, se le strutture economiche e sociali perpetuano la disuguaglianza, e le strutture repressive rimangono immutate.
Naturalmente abbiamo apprezzato molte scelte di alcuni di questi governi “progressisti”. Ad esempio è positiva la recentissima concessione dell’asilo politico a Julian Assange da parte dell’Ecuador, e mi auguro sia sostenuta da molti altri paesi del continente. In ogni caso è un bel colpo propagandistico. Ma il problema di fondo resta, e non si può ignorare.

Anche per smettere di inseguire - anche da noi - le farfalle di una possibile partecipazione della sinistra a un governo di centrosinistra…


17 agosto 2012

dal sito  http://antoniomoscato.altervista.org/

mercoledì 8 agosto 2012

UNA RIVOLUZIONE INSOPPORTABILE di Antonio Moscato



UNA RIVOLUZIONE INSOPPORTABILE
di Antonio Moscato




Ho già segnalato più volte l’assurdo sforzo di alcuni redattori del Manifesto per screditare le rivoluzioni arabe, senza accorgersi che le notizie che ripropongono periodicamente enfatizzate provengono da fonti più che sospette.

I ribelli sarebbero tutti mercenari, pagati da fuori, e prevalentemente qaedisti, come si diceva per la Libia. Le fonti principale sono in parte quelle filoimperialiste e filoisraeliane, (la differenza è che queste ultime accentuano un possibile ruolo iraniano, per fornire qualche argomento in più a un futuro “indispensabile intervento per fermare il caos”), in parte quelle del regime baathista, che utilizzando sempre testimonianze compiacenti (come quella di una monaca francese nel Libano) assicurano che i ribelli, anzi i terroristi, sarebbero tutti ferocissimi e stranieri…

A me fischiano le orecchie: la mia generazione si era ribellata alla propaganda sovietica e a quella dei partiti collegati a Mosca, diffidente verso ogni vera rivoluzione non controllata dai loro fedeli: ad esempio sull’Unità come su tutti i giornali dei partiti comunisti alla fine di luglio del 1953 erano apparse corrispondenze che insinuavano che l’assalto alla Caserma Moncada del 26 luglio a Santiago de Cuba fosse stato fatto da elementi che indossavano uniformi statunitensi… L’assurdo è che questa tecnica di disinformazione era stata usata dai militanti del PCI anche nei confronti di chiunque criticasse da sinistra il loro partito, Manifesto incluso. Quante volte ci siamo sentiti dire: “chi vi paga?”…

E per fare l’apologia del regime di Mosca negli anni più bui si citavano sempre gli scritti di un canonico anglicano, il decano di Canterbury…

Purtroppo la tecnica è stata ripresa a Caracas e all’Avana (dove evidentemente si sono dimenticati che ne erano stati vittime anche i barbudos), e credo che al Manifesto sia rimbalzata per questa via.

Da una rete di sostegno al Venezuela ad esempio ho ricevuto questo annuncio:

Madre Agnes-Mariam de la Croix, monaca cattolica residente in Siria da molti anni, si è sempre mantenuta libera dai vincoli dell'imperante "falso dialogo" che impedisce in realtà di parlare e dire verità scomode, senza mai farsi condizionare dal "politicamente o religiosamente corretto". Madre Agnes-Mariam de la Croix porterà una testimonianza viva come persona e come religiosa cristiana che conosce la verità sulla cospirazione contro la Siria, contro il suo popolo, contro il governo presieduto dal presidente Bashar al-Assad, il quale nonostante l'accerchiamento dei servi di Sion resiste ed eroicamente difende la propria sovranità nazionale...

Ma torniamo a queste rivoluzioni: dopo aver insistito per giorni sul carattere eterodiretto della “rivolta”, e aver messo in dubbio fino a ieri la sua natura, arriva la notizia che dal regime si stanno staccando sempre più spesso pezzi importanti: diplomatici (è più facile, stanno già all’estero…), generali, alti funzionarii, ministri, perfino Riyad Farid Hijab, il primo ministro nominato da Assad appena due mesi fa, in piena crisi. Finalmente al Manifesto capiranno? Macché: “Dal punto di vista della struttura di potere - assicurano – la fuga di Hijiab è poco più che un colpo di immagine: il primo ministro non è una carica di rilievo dove il potere è concentrato nella mani del presidente”.

Per minimizzare ulteriormente, precisano che Hijab è sunnita e per giunta “originario di Deir al-Zour, uno di punti caldi della rivolta”. La conclusione logica sarebbe che Assad è uno sprovveduto, dato che lo ha nominato… Nessun dubbio sul carattere progressista di un regime in cui la successione avviene per via familiare (al punto che dopo la morte in un incidente d’auto del fratello maggiore Basil, erede designato da anni, Bashar Assad fu costretto a lasciare la carriera di medico affermato a Londra per prepararsi a prendere il posto del padre malato. Non ci si poteva fidare di nessuno che non fosse della famiglia… Nessun dubbio sui criteri di selezione dei massimi quadri politici e militari del regime, tra cui hanno un gran peso i familiari del presidente (esattamente come in Libia), e una rappresentanza sproporzionata hanno gli alawiti, che sono appena il 12% della popolazione.

Non si tratta per giunta di una involuzione recente di un regime “progressista” esemplare. Già nel 1980 il capo delle Brigate speciali difesa, Rifaat Assad, zio dell’attuale presidente, aveva sterminato a Palmira oltre 400 prigionieri islamici, e nel febbraio 1982 l’assalto alla roccaforte dei Fratelli Musulmani, Hama, si era conclusa con oltre 20.000 morti nei bombardamenti e con l’uso sistematico di gas tossici. Viceversa nel giugno dello stesso anno, lo scontro con Israele al momento dell’invasione del Libano era stato catastrofico, e si era concluso con la perdita di 60 Mig e una ritirata che aveva lasciato tremila soldati intrappolati a Beirut. Altro che Assad paladino dei palestinesi!

Nel Libano le truppe siriane avevano per giunta collaborato con le forze falangiste (spalleggiate da Israele) in varie occasioni contro i gruppi palestinesi sgraditi in quel momento. Il caso più tragico fu nel 1976 l’assedio di 52 giorni al campo palestinese di Tell al Zaatar, che si concluse con un massacro forse superiore a quello più noto di Sabra e Chatila. L’eccidio, che aveva lo scopo di colpire le forze dell’OLP più vicine ad Arafat, venne addebitato solo ai falangisti libanesi e palestinesi dell’organizzazione filo siriana al Saika, ma erano presenti ufficiali siriani e anche israeliani, per ammissione dello stesso Sharon. Insomma il ruolo antimperialista e antisionista della Siria – se c’è stato – risale a un passato lontanissimo.

Ma anche sul piano interno, oltre alla repressione spietata degli islamici, non sono mancati conflitti al limite della guerra civile in varie occasioni; in primo luogo in seguito a una malattia da cui Hafez el Assad sembrava condannato, e che vide il fratello Rifaat per vari mesi in agitazione per ottenere la npmina a successore. Dopo la ripresa di Hafez il fratello irrequieto fu inviato all’estero.

La prodezza principale del regime fu la partecipazione nel 1990-1991 alla “Santa Alleanza” guidata da Stati Uniti e Arabia Saudita contro l’Iraq, governato da Saddam Hussein alla testa di un’altra corrente dello stesso partito Baath. D’altra parte durante l’orribile guerra Iraq-Iran la Siria aveva parteggiato apertamente per l’Iran.

Insomma, bisogna essere ignoranti o in mala fede per screditare chi si è opposto a questo regime cinico e sanguinario presentandolo come un mercenario pagato dall’imperialismo. Che fastidio dava all’imperialismo USA ed europeo la Siria di Assad? Nessuno e tantomeno lo dava a Israele, che ha seguito con allarme la crescita delle contestazioni a una Siria che abbaiava e non mordeva.

Mi auguro che non ci siano illusioni a sinistra nella coerenza dei governi russo e cinese, finora difensori non disinteressati del regime di Assad, a cui vendono armi e assicurano una moderata protezione diplomatica. Mi ha sconvolto invece leggere in un’articolo sul Manifesto di Marinella Correggia un esaltazione di un accordo in base al quale “l'opposizione rinuncia all'opzione militare, e, quindi, vieta ai suoi membri di attaccare le forze governative, militari o di sicurezza e i civili. Essa depone le armi e rimette la sicurezza nelle mani dello Stato”. Roba da pazzi! Prendere le armi contro un simile governo è inammissibile, il monopolio delle armi e della “sicurezza” è delegato in toto allo Stato. E a che Stato!

La Correggia tira in ballo anche un'altra monaca del Monastero di Qara, “suor Claire Marie, francese di nazionalità, coltivatrice di erbe officinali” che prega tanto “perché la battaglia di Aleppo si concluda presto e tacciano le armi in tutta la Siria”. Come? Chi ha preso le armi per non essere ucciso da chi gli ordinava di sparare cannonate sulla popolazione dovrebbe riconsegnarle agli assassini? E questo sarebbe un “quotidiano comunista”?

Naturalmente i difensori di Assad tireranno un respiro di sollievo se il regime riuscirà a sopravvivere ancora un po’ e a chiudere ad esempio la battaglia di Aleppo con un relativo successo, come auspicato dalla solita monaca. Non è impossibile, per molte ragioni: la prima è che la caratterizzazione del conflitto come uno scontro tra i sunniti e la minoranza alawita privilegiata, spingerà questi ultimi a una resistenza disperata. Lo stesso faranno le forze mercenarie shabiha che si sono macchiate di molti crimini, e che combatteranno tenacemente per sfuggire alla prevedibile punizione. Ma soprattutto il regime potrà sopravvivere ancora un poco perché, come in Libia, le potenze vicine e lontane che intervengono non sono interessate a fornire armamenti adeguati ai ribelli, che si trovano quindi stretti tra il rischio di soccombere per l’enorme sproporzione di forze rispetto all’esercito regolare, e quello di accettare l’aiuto di al Qaeda, che oggi non conta quasi niente, ma potrebbe rafforzarsi proprio per il protrarsi e l’inasprirsi del conflitto.


7 agosto 2012


dal sito  http://antoniomoscato.altervista.org/



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