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lunedì 16 marzo 2015

SETTANT'ANNI FA FINIVA LA SECONDA GUERRA MONDIALE di Diego Giachetti





SETTANT'ANNI FA FINIVA LA SECONDA GUERRA MONDIALE
di Diego Giachetti



La guerra mondiale che si concludeva settant’anni fa era, per dirla col titolo del libro di Antonio Moscato sulla Prima guerra mondiale, intitolato La madre di tutte le guerre (Edizioni La.Co.Ri. 2014), una filiazione di quel tragico evento. La Prima guerra mondiale lungi dall’essere, come la propaganda dell’epoca la descriveva per giustificarla, la guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre, non conquistò affatto un mondo di pace. Appena due decenni dopo la sua fine, scoppiò la Seconda. Quella guerra, come si capirà dopo, aveva aperto il “secolo breve” novecentesco e gli anni trascorsi tra il 1914 e il 1945 furono teatro di una nuova “guerra dei trent’anni” in Europa, conclusasi con la fine del secondo conflitto mondiale. La Prima guerra mondiale infatti, per come si concluse, per i trattati di pace che i vincitori imposero ai vinti, per la crisi sociale e politica che lasciò sul campo sia nei paesi vinti che vincitori, sfociata in Russia nella rivoluzione bolscevica, consegnò uno scenario instabile in tutta Europa. Si generarono rivoluzioni e controrivoluzioni. La controrivoluzione prima fascista e poi nazista trionfò in Italia, in Germania e successivamente in Spagna. Il breve ventennio che separò le due guerre non fu affatto pacifico e, anche sotto l’impulso della crisi economica e finanziaria del capitalismo del 1929, fomentò le ragioni dell’esplosione di un nuovo conflitto mondiale, quello che si concluse nel 1945.

Ernest Mandel, prima in un saggio del 1976 sui trotskisti e la Resistenza nella Seconda guerra mondiale (http://www.ernestmandel.org/fr/ecrits/txt/2005/les_trotskystes_et_la_resistance.htm) e poi in un suo libro sul significato di quella guerra (The Mening of the Second World War, London, Verso, 1986) indica le variabili che la caratterizzarono, suscitate dalla guerra stessa. Fu una guerra tra potenze imperialiste; fu una guerra di difesa da parte dei paesi soggetti alla volontà espansionistica dei paesi imperialisti; nelle colonie africane e asiatiche la guerra suscitò una guerra per l’indipendenza e la liberazione nazionale; dal 1941, con l’attacco all’Unione Sovietica, si aprì un fronte di guerra tra imperialismo tedesco e italiano e uno stato operaio; nell’Europa occupata dai tedeschi e dagli italiani si manifestò la guerra di Resistenza.

Guerra imperialista

Il primo di questi elementi, oggi spesso e volutamente dimenticato dall’elenco delle cause e concause che provocarono la guerra, era dato dalla concorrenza fra paesi imperialisti di vecchia e nuova formazione. La guerra cominciava come conflitto tra potenze imperialiste, quelle che difendevano posizioni acquisite e quelle che volevano assicurarsene di nuove strappandole a chi le aveva. In un mondo caratterizzato dal dominio e dall’influenza dei vecchi imperialismi europei, britannico e francese, e dall’emergente nuovo imperialismo statunitense, la possibilità per gli ultimi arrivati al ruolo di potenza economica e militare, come la risorta Germania hitleriana, l’Italia fascista e l’Impero giapponese, di estendere le loro zone d’influenza mercantili e socio-politiche non poteva non prevedere anche l’opportunità di una nuova guerra. Quindi una classica guerra tra potenze imperialiste, del tutto simile alla Prima, tra due blocchi imperialisti rivali: Inghilterra, Francia e Stati Uniti da una parte e Germania, Giappone e Italia dall’altra unite nel Patto Tripartito (detto anche Asse Roma-Berlino-Tokyo), sottoscritto a Berlino il 27 settembre 1940, nel quale si riconoscevano le rispettive zone d’influenza per le quali due dei tra paesi sottoscrittori già combattevano e il terzo, il Giappone, si apprestava a scendere in campo: l'Europa per la Germania, il bacino del Mediterraneo per l'Italia, l'Estremo Oriente per il Giappone. Limitata inizialmente all’Europa e nelle colonie italiane in Africa, con l’intervento giapponese e americano il conflitto si estese sull’arena mondiale. Al di là della successiva retorica che ha voluto rappresentare l’intervento statunitense come generoso contributo alla lotta per la democrazia contro il regimi totalitari, va detto innanzi tutto che esso fu provocato dall’aggressione subita da parte dell’imperialismo giapponese nel dicembre del 1941. Effettivamente, prima dello scoppio della guerra, le potenze liberal-democratiche: Stati Uniti, Francia e Inghilterra, non si erano eccessivamente preoccupate per l’avvento al potere del fascismo e del nazismo. Anzi, implicitamente o esplicitamente, riconoscevano a merito di quei regimi l’aver riportato ordine e disciplina all’interno dei due paesi, evitando così il pericolo di una rivoluzione sociale comunista.

L’apologia odierna delle guerre giuste combattute dagli Stati Uniti e dalla Nato vanta significativi antecedenti storici. La partecipazione americana alla Seconda guerra mondiale è spesso raccontata come buona nel senso di una nazione che per altruismo, per amore della libertà violata, per odio verso le dittature fascista e nazista, per porre fine alle discriminazioni razziali e alla persecuzione degli ebrei nell’Europa sotto il dominio nazista, per contrastare l’autoritarismo militarista giapponese che dilagava nel Pacifico, decise di intervenire nel conflitto mondiale già in corso da due anni.

Insomma, gli Stati Uniti fanno le guerre in nome della libertà, della democrazia e per garantire la pace. Già nella Prima guerra mondiale, si presentarono al mondo come un paese che interveniva per estendere la democrazia e la libertà, nonostante l’intervento apparisse tardivo, quando ormai la guerra era in corso da tre anni, durante i quali avevano capitalizzato e valorizzato il bisogno di denaro, materie prime e armi dei belligeranti europei. Solo quando, col cedimento dello stato zarista russo a cavallo tra il 1916-17, si paventava la possibilità di una vittoria della Germania e dell’Austria-Ungheria, gli Stati Uniti scesero in campo per difendere i loro interessi in Europa. Anche nella Seconda guerra mondiale, presentata come una lotta irriducibile tra democrazia e totalitarismo, l’intervento degli Stati Uniti fu tardivo, furono trascinati nel conflitto perché aggrediti dall’imperialismo giapponese, quando la guerra era già in corso da più di due anni.

Nel 1939, lo scoppio della guerra in Europa aprì agli Stati Uniti opportunità interessanti per l’industria impantanata da quasi un decennio in una profonda crisi economica. Gli aiuti americani all’Inghilterra furono subordinati alla firma di un contratto che prevedeva per gli inglesi lo smantellamento, al termine della guerra, del sistema protezionista di tariffe che non proibiva ma limitava seriamente le esportazioni americane verso la Gran Bretagna e le sue colonie. Nell’immediato lo scenario più vantaggioso per l’establishment americano era che la guerra fra Inghilterra e Germania non si concludesse subito ma durasse a lungo in modo da poter continuare ad inviare rifornimenti al socio britannico. Temevano invece l’affermarsi di un’Europa sotto il dominio tedesco che avrebbe chiuso il mercato continentale alle merci e agli affari americani, si trattava quindi di una preoccupazione economica non certo inerente al tipo di regime politico che i nazisti stavano estendo in Europa. I piani americani consistenti nel trarre il massimo profitto economico e politico dalla guerra in corso, senza parteciparvi, subirono una modifica a causa dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, nel dicembre del 1941. Non furono tanto le persecuzioni tedesche verso gli ebrei che portarono in guerra gli Stati Uniti, il fatto decisivo fu l’attacco giapponese di Pearl Harbor, un’enclave dell’Impero americano nel Pacifico.

Una volta scatenata la guerra era logico che le parti in causa attribuissero una veste ideologica e politica al conflitto, una lotta tra opposte concezioni statuali e politiche, tra “civiltà” totalitarie e liberal-democratiche. Ma ciò che aveva disturbato i contendenti, costringendoli allo scontro, non era stata quest’ultima dimensione di carattere ideologico, quanto il contrasto sorto nella competizione tra stati e blocchi di stati imperialisti.

Guerra di difesa e di liberazione nazionale

In questo quadro l’estensione del conflitto e le iniziali travolgenti conquiste delle forze dell’Asse svilupparono nuove ragioni di guerre. Nell’estremo oriente, sotto l’incalzare dell’avanzata dell’imperialismo giapponese, si manifestò una guerra di difesa condotta dal popolo cinese contro l’invasione e la conquista giapponese che assunse i toni di guerra di liberazione nazionale dopo che i giapponesi, già prima della Seconda guerra mondiale, nel 1931 avevano invaso la Manciuria e formato un governo fantoccio. L’entrata in guerra del Giappone nel dicembre 1941 che non a caso aveva sottoscritto il Patto tripartito un anno prima, fu fortemente segnata dall’evoluzione del Secondo conflitto mondiale in Europa. La sconfitta repentina della Francia, le difficoltà in cui versava l’Impero britannico, isolato in Europa dal resto del continente caduto sotto l’occupazione tedesca, i successi travolgenti riportati sul fronte orientale contro l’Unione Sovietica con l’Operazione Barbarossa scatenata dai tedeschi nel giugno del 1941, l’occupazione dei Balcani e l’esito positivo delle operazioni militari in Africa delle truppe italo-tedesche, offrivano all’Impero del Sol Levante un’opportunità politica e militare da cogliere al volo. Era possibile mettere le mani, senza temere una reazione, sulle colonie francesi e inglesi in Asia, l’unico ostacolo a tale progetto espansionistico era dato dalla presenza della flotta statunitense a presidio della zona, che infatti fu attaccata a Pearl Harbor.

Più in generale, una guerra guerra di liberazione nazionale si sviluppò tra i popoli oppressi delle colonie dell'Africa e dell'Asia contro l'imperialismo britannico, francese, giapponese, italiano. Legittimamente queste popolazioni cercavano di sfruttare le contraddizioni tra colonialisti vecchi e nuovi per porre fine ad antiche dominazioni. Volendo fare un esempio significativo si può richiamare il caso dell’India, colonia inglese. Grandi movimenti di massa si ebbero nell’agosto 1942 in India, repressi duramente. Già nell’ottobre 1939 gli operai dell’industria di Bombay avevano proclamato un grande sciopero contro la guerra. All’inizio del conflitto, il partito del Congresso aveva offerto la propria collaborazione alla sforzo bellico a condizione che venisse riconosciuto il diritto all’indipendenza con la formazione di un governo nazionale provvisorio, ma la Gran Bretagna aveva rifiutato.




Guerra contro lo Stato operaio sovietico

Quando il 22 giugno del 1941 l’armata tedesca scatenò l’Operazione Barbarossa, l’invasione dell’Unione Sovietica, la Seconda guerra mondiale che fino allora si era svolta nel quadro di rivalità intermperialiste, assunse un nuovo significato: qui si apriva uno scontro tra l’armata dell’imperialismo tedesco, coadiuvata dal contributo di altri paesi alleati, e uno Stato le cui caratteristiche strutturali non erano più propriamente capitalistiche. L’Unione Sovietica, infatti, uscita dalla rivoluzione d’ottobre, non era un paese imperialista, bensì uno Stato operaio, nonostante le aberrazioni politiche della gestione stalinista del potere. La guerra interimperialista si combinava con la guerra difensiva cui era costretta l’Unione Sovietica per la sua stessa sopravvivenza contro la proclamata volontà di colonizzazione da parte della Germania nazista.

Un inatteso e non certo cercato alleato scendeva in campo contro i tedeschi e gli italiani. Di fronte all’attacco tedesco all’Unione Sovietica, l’élite americana si augurò che la guerra sul fronte orientale durasse a lungo, così da logorare entrambi i contendenti. Grazie alla guerra dilagante in Europa, agli Stati Uniti era data la possibilità di uscire dalla grande depressione che durava ormai da dieci anni, poiché i mercati della Gran Bretagna e dell’URSS si aprivano ai prodotti industriali americani. L’incubo dei difficili anni Trenta, segnati da una ripresa economica che stentava a ripartire, da una domanda di mercato che non cresceva, terminò grazie al conflitto: la produzione salì all’aumentare della domanda bellica, salirono i profitti, scese la disoccupazione. Di qui l’interesse che la guerra durasse a lungo senza vittorie lampo, come diceva una nota diffusa dal senatore Harry S. Truman il 24 giugno 1941 e riportata nel libro di Jacques R. Pauwels, Il mito della guerra buona. Gli Usa e la Seconda guerra mondiale (Datanews, 2003): «se vedremo che la Germania sta vincendo aiuteremo la Russia e quando starà vincendo la Russia aiuteremo la Germania in modo che si logorino il più possibile». Dopo l’attacco subito a Pearl Harbor, per uno scherzo non previsto della storia gli americani, come gli inglesi, si trovarono a combattere il nazifascismo a fianco di quelli che consideravano il loro nemico più pericoloso: il comunismo sovietico.

Se sulla stampa caddero i toni anticomunisti, tipici degli anni precedenti, l’élite americana non poteva non essere preoccupata per la presenza di questo strano alleato, ideologicamente ed economicamente avverso al sistema americano. La strategia americana adottata in accordo con gli inglesi, consistette nel lasciare che le armate tedesche e sovietiche si consumassero nelle grandi battaglie sul fronte Orientale, ciò soprattutto per volontà inglese. A differenza di Roosevelt, disposto ad aprire al più presto un secondo fronte in Europa per alleggerire il peso della guerra che ricadeva tutto sull’Armata Rossa, Churchill si opponeva. In merito, diversi analisti hanno sostenuto che già nell’estate del 1942 era possibile tentare di aprire un secondo fronte sulle coste francesi o da qualche altra parte delle coste occidentali. A favore di quest’ipotesi è stato ricordato che in quell’anno i tedeschi disponevano ad occidente di sole 59 divisioni contro le 260 schierate sul fronte russo, che non erano ancora trincerati bene come lo saranno nel 1944, poiché l’ordine di costruire il Vallo Atlantico fu dato da Hitler nell’agosto del 1942.

Invece dello sbarco ad occidente gli angloamericani aprirono il fronte aereo, cioè l’inizio di una serie massiccia di bombardamenti sulle città e sulle industrie tedesche. Tali bombardamenti non riuscirono però ad evitare l’incremento della produzione bellica tedesca, che raggiunse il suo apice nel 1944, per poi crollare vertiginosamente negli ultimi mesi di guerra. Essi provocarono tra la popolazione civile centinaia di migliaia di vittime e non produssero l’aspettato crollo psicologico tra la popolazione tedesca, anzi, incrementarono l’odio verso gli alleati. Le cose cambiarono dopo la battaglia di Stalingrado, la riconquista dei territori russi e l’affacciarsi dell’Armata Rossa ai confini dei paesi dell’Europa Orientale non rendeva particolarmente felici gli angloamericani in quanto consideravano perlomeno incresciosa la prospettiva di dove spartire coi sovietici il ruolo di guardiani dell’Europa nel dopoguerra. Quando fu chiaro che buona parte dei paesi orientali del vecchio continente sarebbero stati invasi dai sovietici, gli angloamericani si convinsero della necessità di aprire il secondo fronte per arrivare il più presto possibile, e possibilmente prima dei “rossi”, nel cuore della Germania, visto anche il fallimento della cosiddetta via mediterranea al Terzo Reich intrapresa con lo sbarco in Sicilia del giugno 1943, che arrancava con fatica nel risalire la penisola italiana.

Guerra di Resistenza in Europa

Nei paesi europei occupati dall'imperialismo nazista coadiuvato in alcuni casi dall’esercito italiano, soprattutto in Jugoslavia e Grecia, si manifestò il fenomeno della Resistenza che trovò consenso tra le popolazioni a causa delle disumane condizioni esistenti nei paesi occupati: fame, sfruttamento, bombardamenti, precarietà del vivere quotidiano, deportazioni di massa in Germania, mancanza dei diritti elementari di libertà; tutto ciò spingeva alla lotta e nella lotta ad incontrare ideologie politiche che davano senso e coerenza all’azione. La Resistenza assunse toni e prospettive non univoche perché si sviluppò in un intreccio di variabili, occupazione straniera, collaborazionismo di forze autoctone con il regime nazista e fascista, dettate dal modo stesso in cui tedeschi e italiani procedettero nell’amministrazione dei territori occupati. Ciò concorre a spiegare le motivazioni diverse, anche se non necessariamente contrapposte, che conteneva la Resistenza europea.

Per comprendere le caratteristiche assunte dalle forze che parteciparono alla Resistenza bisogna tener conto dello stravolgimento prodotto dall’espansione fascista e nazista nei paesi dell’Europa. Intanto, quando scoppiò la guerra già esistevano in Europa un insieme di Stati fascisti, oltre la Germania e l’Italia naturalmente, in Ungheria, Romania e Bulgaria, sorti per impulso combinato di forze autoctone e di pressioni italiane e tedesche. Ad essi si aggiunse la Slovacchia, creata dopo lo smembramento della Cecoslovacchia nel 1939. Nei territori via via conquistati nel primi anni di guerra in Europa si ebbero varie forme di regimi detti collaborazionisti in quanto costituitisi per affiancare e condividere l’opera degli occupanti. In Occidente i casi più evidenti di regimi collaborazionisti con gli occupanti tedeschi, furono quelli norvegese e francese, ma non meno rilevanti furono gli sviluppi del collaborazionismo in Belgio e Olanda. Ad Oriente si manifestarono forme varie di regimi di occupazione. A parte la Polonia, che dopo l’occupazione tedesca fu germanizzata, episodi di collaborazionismo si verificarono nei territori dell’Unione Sovietica occupati dalla Germania, non solo nei Balcani, ma anche in Ucraina, dove un atavico odio antirusso si mescolava coll’avversione al comunismo accompagnato da un persistente antisemitismo. Nei Balcani, a seguito dell’invasione della Jugoslavia si verificò la distruzione della sua unità territoriale, sorse il Regno di Croazia, mentre altre parti del territorio furono sottoposte all’amministrazione diretta dei tedeschi o degli italiani. Dopo l’occupazione della Grecia nel paese si costituì un governo alle dipendenze degli italiani e dei tedeschi.

In ogni paese invaso - ha sottolineato Claudio Pavone - si trovarono persone disposte a collaborare con l’occupante al di là della semplice imposizione delle forze d’occupazione, che facevano leva su nazionalismo, razzismo antisemita, sull’avversione alla democrazia liberale e, naturalmente, al socialismo: «il collaborazionismo fu dunque, come la Resistenza, un fenomeno europeo, trasversale ai singoli paesi nelle cui storie specifiche pur affondava le radici e collegato ai piani di unificazione coatta dell’Europa perseguiti dalla Germania nazista» (La Seconda guerra mondiale: una guerra civile europea?, in Gabriele Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, 1994). Le Resistenze che si svilupparono in Francia, Olanda, Norvegia, Danimarca, Belgio, Jugoslavia, Grecia, Polonia e dietro le linee tedesche in Unione Sovietica, ebbero caratteristiche ideologiche e politiche dipendenti dal tipo di avversario o di avversari che l’occupazione tedesca e italiana dei territori aveva imposto. Tra queste Resistenze, quella italiana fu l’ultima arrivata, si sviluppò infatti solo a partire dagli eventi del 1943: crollo del regime fascista, armistizio, invasione tedesca e costituzione della Repubblica Sociale Italiana. Quest’ultima incarnazione dello Stato fascista non è facilmente riconducibile alla nozione di collaborazionismo, perché il nostro paese vantava il triste primato di aver inventato il totalitarismo fascista e di aver partecipato come alleato dei tedeschi alla guerra mondiale. La sopravvivenza di esso, sotto la cappa dell’occupazione tedesca, dopo l’8 settembre del 1943, era il tragico epilogo di una storia tutta nostra, il proseguimento della fedeltà alla parola data ai tedeschi, come recitava la propaganda del fascismo repubblicano.

Un discorso a parte merita la Resistenza tedesca al nazismo. Certo, soprattutto nel corso della guerra, essa non ebbe la rilevanza e la dimensione di partecipazione a una lotta, che era anche armata, riscontrabile negli altri paesi. Ciò è imputabile al fatto che i nazisti, giunti al potere nel 1933, avevano spietatamente represso ogni focolaio di resistenza, individuando ed eliminando decine di migliaia di oppositori politici fisicamente o internandoli nei campi di concentramento. Strategia che proseguirono nel corso della guerra contro i militari sospettati a torto o ragione di complottare contro il regime nazista. Quando, ad esempio, fallì l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, la reazione dei nazisti fu ampia e violenta, eliminarono più di settemila persone. Tuttavia queste tragiche cifre dimostrano che tentativi di resistenza ci furono e percorsero tutta la storia del regime nazista coinvolgendo opposizioni ideologicamente diverse: dall’aristocrazia militare a frange religiose protestanti e cattoliche, dai socialdemocratici ai comunisti: a proposito di questi ultimi è interessante il piccolo libro di T. Derbent, La resistenza comunista in Germania 1933-1945, pubblicato nel 2011 dalla casa editrice Zambon.

La Resistenza in Italia o le Resistenze in Europa sfuggono quindi ad una definizione univoca, contengono al loro interno motivazioni, soggetti e attori agenti, mossi da intenti non tutti eguali o coincidenti. Il tipo di dominio cui fu sottoposta l’Europa sotto il tallone tedesco e italiano generava forme di ribellione che univano lotta di liberazione dall’occupante straniero, guerra civile là dove regimi collaborazionisti autoctoni affiancavano l’opera dell’occupante e lotta di classe prodotta dalle classi subalterne contro i regimi collaborazionisti, gli occupanti e il padronato.

Le tre guerre di liberazione

In Italia l’uso del termine guerra civile ha animato il dibattito storiografico fin dai primi anni del secondo dopoguerra. Usato dalla storiografia neofascista, a cominciare dall’opera di Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia 1943-1945, tale termine incontrò resistenze e diffidenze nell’ambito della ricostruzione storica del significato della Resistenza fatta da storici antifascisti nei primi decenni del dopoguerra. Eppure questa nozione era di uso comune sulla stampa di sinistra. Su «L’Unità», edizione romana del 5 ottobre 1943, per esempio, si poteva leggere che quella in corso era una: «guerra contro l’aggressore nazista, guerra civile contro i fascisti suoi alleati; lotta politica contro le forze reazionarie». Il comunista Emilio Sereni il 6 agosto 1945 ai Primo Congresso dei CLN della provincia di Milano parlava esplicitamente di «due anni di guerra civile»; Concetto Marchesi, un anno dopo, considerava la Resistenza una guerra civile, ossia la «più feroce e sincera di tutte le guerre». Tale concetto ritornò periodicamente negli studi e nelle riflessioni degli storici e dei politici di sinistra. Pietro Secchia nel 1960 ricordò la Resistenza come conclusione di una guerra civile cominciata nei primi anni Venti dalle squadre fasciste, come sostenne lo stesso Leo Valiani sul «Corriere della sera» dell’8 settembre 1990; d’altronde Piero Calamandrei fin dal 1952 aveva sottolineato il legame tra la guerra civile del 1919-1926 e quella del 1943-45, così che «la guerra civile tra fascisti e antifascisti può essere considerata una specie di ricapitolazione e di resa finale dei conti in una partita che si era aperta tra il 1919 e il 1922» (Claudio Pavone, in Norberto Bobbio, Claudio Pavone, Sulla guerra civile, Bollati Boringhieri, 2015). Storici di area comunista come Giorgio Candeloro e Paolo Spriano, nelle loro opere ricorrono all’uso di questa definizione che compare anche nei romanzi di Italo Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno), di Beppe Fenoglio (I ventitré giorni della città di Alba) e di Cesare Pavese (La casa in collina). Il filosofo torinese Norberto Bobbio in un discorso sulla Resistenza del 1965, affermava che in Italia la Resistenza fu contemporaneamente un movimento contro un nemico interno, il fascismo e uno esterno, il nazismo, quindi lotta di liberazione nazionale contro i tedeschi e lotta politica (civile) contro la dittatura fascista, per la conquista dell’indipendenza e della libertà politica e civile che conteneva però anche un terzo elemento, meno indagato e sottolineato dalla recente storiografia: la Resistenza fu infatti lotta per l’emancipazione sociale, per instaurare una società e uno Stato nuovi. Di qui la diversità e gli intenti delle forze che vi presero parte e dei contrasti che, pur nell’unità della lotta, divisero i combattenti. Pertanto, concludeva, «la lotta per l’abbattimento del fascismo poteva essere intesa, ora come restaurazione dello Stato liberale soffocato dalla dittatura, ora come instaurazione di uno Stato socialista contro il baluardo dello Stato borghese. Alcuni partiti combattevano nel fascismo soprattutto il regime politico; altri combattevano soprattutto il regime sociale e di classe» (Norberto Bobbio, Discorso sulla Resistenza, in Norberto Bobbio, Claudio Pavone, Sulla guerra civile, Bollati Boringhieri, 2015). Una lotta contro la borghesia quindi, considerata la maggiore responsabile dell’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania. Una guerra di classe per il rovesciamento dei rapporti sociali tra classi dominanti e dominate, rivoluzionaria quindi che, come tale, rientra nella categoria di guerra civile.

Usando solo la generica definizione di guerra di liberazione si nega alla lotta resistenziale il carattere di progetto e di proposta politica che essa ha avuto, si dimentica che le forze che animarono la Resistenza si ponevano il problema dell’esercizio del potere, dei modi della partecipazione popolare ad esso, nello Stato che doveva sorgere alla fine del conflitto. Non si trattava solo di cacciare i tedeschi, battere i fascisti della Repubblica sociale e ripristinare un formale sistema rappresentativo, quanto di promuovere un profondo rinnovamento delle istituzioni politiche e della società. Così declinata la guerra civile assumeva i termini di una guerra di civiltà, secondo l’accezione propria dello storico Guido Quazza. La guerra civile, nella casistica storica, richiama due parti di uno stesso popolo che si combattono per conquistare il governo di una nazione, di una città, di un impero: fu il caso, ad esempio dello scontro fra Silla e Mario, fra Pompeo e Cesare, fra bianchi e neri nella Firenze guelfa. Diverso è il caso se per guerra civile s’intende uno scontro non unicamente mosso da un mero conflitto per il potere ma da contenuti civili, cioè concezioni opposte di organizzazione sociale e politica. La Resistenza in quest’accezione assumeva i toni non solo di una guerra di liberazione e patriottica, ma di contrasto tra diverse e opposte concezioni dello Stato, della vita e della storia, era una lotta per affermare una civiltà, un modo di vivere e di organizzare la società, opposti a quello propugnato dai fascisti e dai nazisti.

Con questa formulazione Quazza dava al termine guerra civile, usato abbondantemente dalla storiografia fascista post resistenziale, il significato di guerra partigiana combattuta per la civiltà: «cioè per una concezione del vivere civile che vede nel fascismo e nel nazismo la propria totale negazione». Non fu un caso, proseguiva, che dopo la liberazione furono i fascisti ad adottare la definizione di guerra civile perché, così facendo, si mettevano «sullo stesso piano dei vincitori» e poter dire che si era combattuta «una guerra tra due fazioni per la conquista del governo dello Stato, combattuta con eguali diritti tra italiani e italiani, dunque una guerra fratricida» e civile nel senso classico del termine prima ricordato (Guido Quazza, La guerra partigiana: proposte di ricerca, in L’Italia nella Seconda guerra mondiale e nella Resistenza, Franco Angeli, 1988). Questa fu una delle ragioni che impedì per decenni un dibattito sereno sul tema “guerra civile”.

Il nazismo e Hitler nella storiografia popular dei vincitori

Gli Stati Uniti emersero dal Secondo conflitto mondiale come unici e veri vincitori. Erano la più grande potenza del mondo e si aspettavano che il XX secolo diventasse il “secolo americano”. I suoi nemici, Germania, Italia e Giappone, erano annientati, i suoi alleati economicamente abbattuti. La Francia era solo l’ombra dell’antica potenza, la Gran Bretagna era esausta, l’URSS aveva subito pesantissime perdite. Dai paesi liberati l’America si aspettava cooperazione, rispetto del libero commercio e porte aperte agli investimenti dei suoi capitali. Erano determinati a inondare il mondo non solo dei prodotti made in USA, ma simultaneamente della loro visione istituzionale del mondo fondata sulla democrazia liberale, la libera impresa e il libero commercio. Così sostanzialmente fecero in ogni paese liberato, imponendo il sistema socio-politico ed economico dello Stato liberatore. Erano i liberatori a decidere come punire o perdonare i fascisti, in quali forme la democrazia veniva ripristinata, quale spazio dovevano avere i movimenti della resistenza antifascista, quali riforme politiche, sociali ed economiche era possibile introdurre. Tale condotta diede a Stalin un’implicita carta bianca per procedere in modo analogo nei paesi liberati dall’Armata Rossa.

Terminata la guerra la storiografia popular statunitense e non solo, fece propria la narrazione della guerra giusta dei paesi democratici contro quelli totalitari fascisti e nazisti, mentre contemporaneamente si apprestava a una nuova guerra, quella poi chiamata fredda, contro il socialismo reale che, intanto, si era espanso in varie zone del mondo. I nazisti furono proposti e interpretati come dei sadici, una banda di gangster, criminali e avventurieri assetati di potere. La loro ascesa al potere divenne una tragica e misteriosa fatalità della storia e si tralasciarono volutamente studi, ricerche, riflessioni sulla dinamica sociale ed economica che aveva favorito l’avvento dei fascismi in Europa. Un silenzio storico-politico calò sugli intrecci tra il nazismo e il fascismo con gli oligarchi della finanza, la borghesia industriale e terriera, i vertici dell’esercito e delle istituzioni statali. Un velo scese a nascondere quella connessione così evidente, che faceva dire a Max Horkheimer: quelli che vogliono parlare di fascismo o di nazismo non possono tacere del capitalismo.




Fu Hitler la causa della Seconda guerra mondiale?

Trattato come una banda di criminali, guidati da un pazzo psicopatico, il nazismo divenne la causa della guerra e poiché a capo del partito nazista campeggiava la figura indiscussa di Hitler fu facile rispondere, come lo è ancora oggi, che fu il fuhrer l’origine di tutto. Si poneva un tema non nuovo alla storiografia marxista, quello del ruolo dell’individuo nella storia e, in questo caso di figure come Hitler, Mussolini, Churchill, Roosevelt, ecc., Ernest Mandel non lo ignorò e lo affrontò in un apposito saggio, Il ruolo dell'individuo nella storia: il caso della Seconda guerra mondiale, pubblicato sulla rivista «New Left Review» (n. 157, 1986), reperibile anche sul sito www.ernestmandel.org. Nel saggio richiamava alcuni presupposti metodologici di analisi della questione tipici del materialismo storico: il primato delle forze sociali più che delle azioni individuali nel determinare il corso della storia, senza per ciò negare che alcune persone giocano un ruolo unico; i limiti all’azione che le forze sociali in campo e la struttura economico- sociale, impongono all’agire delle personalità eccezionali, così che il talento individuale, il carisma del capo, la volontà di potenza, non possono oltrepassare i quei vincoli. Ad esempio, affermava Mandel, date le rispettive capacità delle forze produttive dell'Europa capitalista e degli Stati Uniti nel 1941, la Germania nazista, anche dopo aver conquistato tutta l'Europa, non aveva la possibilità di vincere una guerra contro la potenza economica Nord Americana, a meno che non fosse possibile incorporare con la guerra di conquista le risorse naturali e industriali dell'Unione Sovietica, che non a caso fu attaccata dalla Germania nel giugno del 1941.

E’ in questo contesto di limitazioni sociali e materiali che va considerata l’influenza della personalità nella storia che può esprimere una più lucida e immediata percezione delle esigenze storiche di una classe sociale, ma anche essere un impedimento al riconoscimento delle necessità oggettive. Attraverso la loro influenza passano decisioni che, nel breve termine, promuovono o ostacolano gli interessi delle forze sociali che rappresentano. Inoltre, le conseguenze della loro decisioni sono in gran parte incontrollabili per gli esiti nella storia nel lungo periodo e possono smentire le intenzioni dichiarate al momento in cui si prendono. Il 31 agosto 1939 - ricorda Mandel - Hitler, dando inizio alla Seconda guerra mondiale, non voleva certo ridurre il potere territoriale della classe dirigente tedesca a metà del Reich, come accadde alcuni anni più tardi, dopo la fine della guerra con la divisione della Germania. Ma paradossalmente, questa perdita di potere e di territorio fu proprio il risultato della successione degli eventi scatenati con l'invasione della Polonia il 1° settembre del 1939.

Evidentemente l'invasione della Polonia fu il risultato di una decisione presa da Hitler assieme al gruppo dirigente nazista, che ben esprimeva quelli che erano i caratteri della sua personalità: avventatezza, monomania, abile opportunismo e ipervolontarismo della volontà. Ma è anche vero che tale decisione si inseriva perfettamente in tendenze che, fin dal 1932, i principali circoli dominanti della classe capitalista tedesca avevano deciso conformemente ai loro interessi economici. Per superare la crisi economica che si era abbattuta sulla Germania, dopo il crollo della borsa statunitense del 1929, essa doveva sviluppare la propria egemonia nell’Europa centrale e occidentale. Sulla base di questa opzione e del conseguente massiccio riarmo tedesco, la guerra diventava prima o poi inevitabile; essa appariva come un modo, nel contesto dei rapporti di forza tra gli Stati dell’Europa di allora, per risolvere le contraddizioni che attanagliavano la struttura economico sociale tedesca. La ripresa produttiva dell’economia tedesca, trainata dal finanziamento statale del riarmo forzato dell’esercito, aveva due conseguenze. Da un lato scatenava un’altrettanta corsa al riarmo nei paesi rivali: Inghilterra, Stati Uniti, Francia e Unione Sovietica, al fine di bloccare la volontà di dominio tedesco in Europa. Quindi favoriva la determinazione degli ambienti militari e nazisti a scatenare la guerra prima che le forze produttive-militari dei paesi avversari fossero pienamente sviluppate, approfittando del fatto che la Germania godeva nell’immediato di una superiorità tecnologica nell’ambito degli armamenti. Dall’altro, il riarmo tedesco conduceva a una crisi finanziaria profonda del capitalismo tedesco. Le riserve di liquidità si stavano esaurendo e il pagamento degli interessi sul debito nazionale diventava sempre più insopportabile.

In queste condizioni, la continuazione della politica di riarmo, nonché la sopravvivenza di quello che è stato definito lo stato sociale di Hitler (Götz Aly, Lo stato sociale di Hitler, Torino, Einaudi, 2007) rendevano inevitabile il saccheggio delle economie dei paesi limitrofi, come effettivamente avvenne con la loro conquista, anche allo scopo di avere a disposizione un’organizzazione industriale su scala continentale paragonabile a quella degli Stati Uniti o dell'Unione Sovietica. Così, se la decisione finale di lanciare la Wehrmacht nella guerra il 1° settembre 1939 fu senza dubbio presa da Hitler, ma essa faceva parte di una spinta alla guerra fatta propria dalla maggioranza della classe dominante tedesca, le cui origini risalivano non alla naturale volontà sopraffattrice del militarismo tedesco, ma più prosaicamente alle contraddizioni interne dell'imperialismo tedesco, esasperate dalla sconfitta subita nella Prima guerra mondiale, dai conseguenti trattati di pace e dalle crisi economico-finanziarie del 1919-1923 e 1929-1932.

Ambiguità dell’antifascismo liberal-democratico negli anni Venti e Trenta

Le contraddizioni strutturali devono incarnarsi in progetti e ideologie politiche per diventare operative nella storia, e progetti e forme di organizzazione politica e statale sono condizionate dal reale processo di svolgimento storico col quale le classi sociali devono confrontarsi. La Germania era arrivata troppo tardi nell'arena delle grandi potenze imperialiste per poter acquisire un proprio impero coloniale fuori dell'Europa, che gli era indispensabile per dare uno sfogo alla sua capacità produttiva sul mercato mondiale. Ma questo era dominato dalle vecchie potenze imperialiste europee, tra le quali, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, spiccava per potenza l’imperialismo britannico. La Prima guerra mondiale fu lo sbocco inevitabile per tentare di risolvere con le armi ciò che imponeva la concorrenza liberal-capitalista imprigionata nei confini nazionali e imperialisti.

La sconfitta degli imperi centrali risolse nell’immediato quel problema riaffermando il ruolo egemonico del capitalismo britannico sui mercati, ma al contempo provocò una drammatica crisi delle vecchie classi dirigenti liberali, soprattutto nei paesi sconfitti o “vincitori mutilati”, come nel caso dell’Italia. Inoltre, la Grande guerra, aveva avuto in Russia un esito non previsto, la vittoria del bolscevismo e la costituzione di uno Stato socialista, la cui esistenza e i cui propositi di rivoluzione mondiale suscitavano apprensione e paure tra le classi dominanti uscite indebolite dalla guerra. Una minaccia percepita alla quale bisognava rispondere. Innanzi tutto provando a distruggere il nascente governo bolscevico, sostenendo le armate bianche russe controrivoluzionarie nella devastante guerra civile che travolse quel paese subito dopo la rivoluzione. L’impegno militare delle potenze europee, Stati Uniti compresi, fu diretto con aiuti militari e intervento di truppe britanniche, francesi, italiane. Il tentativo di stroncare sul nascere quell’esperienza fallì e il problema di contenere il dilagare della rivoluzione socialista si spostò nei paesi capitalistici dell’Europa: Austria, Francia, Germania, Italia, Ungheria. In quest’ultimo paese il 21 marzo 1919, dopo due mesi di rivolte operaie, fu proclamata la Repubblica ungherese dei soviet che resse pochi mesi, cadde nel novembre di quell’anno e nel paese si instaurò un governo dittatoriale.

L’instabilità politica, dovuta alla combinazione tra ascesa di movimenti di massa e crisi dei vecchi sistemi politici liberali, poneva alla borghesia il compito di trovare un soggetto politico capace di ristabilire l’ordine, il primo passo in questa direzione era arginare le tendenze rivoluzionarie. Prima in Italia e poi un decennio dopo in Germania, le classi dominanti si gettarono nelle mani del fascismo e del nazismo. L’instaurazione di questi regimi fu considerata all’epoca un toccasana provvidenziale non solo dalle classi dominanti dei due paesi, ma dall’insieme degli altri paesi capitalistici. L’avvento al potere del fascismo in Italia e del nazismo in Germania non suscitarono preoccupazione tra le potenze liberal-democratiche europee e tantomeno negli Stati Uniti, anzi riconobbero, implicitamente o esplicitamente, a quei regimi il merito di aver riportato ordine, pace sociale, impedito l’avvento di una rivoluzione comunista nonché di essere un baluardo nei confronti dell’Unione Sovietica.

L’establishment imprenditoriale americano ed europeo e quello politico guardarono con interesse e simpatia all’avvento di quei regimi, in quanto erano più anticomunisti che antifascisti. Politicamente quei regimi erano una riposta politica forte e positiva alla minaccia bolscevica, riportavano l’ordine padronale, erano un esempio che agli imprenditori piaceva perché distruggeva gli intralci che i sindacati ponevano al libero sfruttamento e asservimento della manodopera. Molte imprese americane fecero buoni affari con questi regimi. Senza i veicoli a motore americani - afferma Jacques R. Pauwels, nel libro Il mito della guerra buona. Gli Usa e la Seconda guerra mondiale (Datanews, 2003) - il caucciù, il petrolio, la tecnologia delle telecomunicazioni e della gestione delle informazioni fornita dall’ITT e dall’IBM, la Germania hitleriana non avrebbe potuto nemmeno sognarsi i clamorosi e rapidi successi militari dei primi anni della guerra lampo tedesca. Neanche l’ostentato e proclamato odio razziale antiebraico dei nazisti offendeva la sensibilità americana in quegli anni. Negli anni Venti e Trenta esso era diffuso non solamente in Germania, ma in molti altri paesi, inclusi gli Stati Uniti. Il più conosciuto antisemita americano, scrive Jacques R. Pauwels, fu l’industriale Henry Ford che ammirava Hitler e lo appoggiò economicamente e il cui libro antisemita, Internazionale ebraica, ispirò il futuro Fuhrer. Un’ammirazione ricambiata, infatti Hitler teneva un suo ritratto nello studio e nel 1938 gli conferì la più alta decorazione che la Germania potesse assegnare a uno straniero. La monomania di Hitler e dei nazisti nei confronti degli ebrei, oggi liquidata spesso come pazzia persecutoria da parte dei dirigenti nazisti, all’epoca s’inseriva in una “pazzia”, se così la vogliamo chiamare, condivisa e diffusa in tutti gli strati reazionari della società tedesca del tempo e non solo di quella.



dal sito Movimento Operaio




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