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lunedì 23 marzo 2015

L'INTRECCIO TRA LIBERISMO E MALAFFARE AL TEMPO DELLA CRISI di Marco Bertorello





L'INTRECCIO TRA LIBERISMO E MALAFFARE AL TEMPO DELLA CRISI
di Marco Bertorello



Solo in questi ultimi giorni sono esplosi gli scandali che ruotano attorno al ministero dei trasporti e la corruzione di un imprenditore italiano realizzata in Congo, ma alcuni mesi fa c'è stato il caso Expo di Milano, poi Mafia-Capitale, prima ancora il Mose di Venezia, e l'elenco potrebbe andare avanti a lungo. Ogni volta che uno scandalo di questo tipo sale alla ribalta delle cronache per un po' strappa le prime pagine dei media alla noiosa politica politicante, come si dice. Un po' di dibattito tra giustizialisti e garantisti (i termini qui sono molto relativi o perlomeno imprecisi), si parla di quali potrebbero essere i provvedimenti che la politica può assumere in funzione deterrente (curioso affidare ormai tale ruolo a quella stessa sfera che è parte direttamente in causa del malaffare), fino a giungere ai ritornelli sull'indole umana oppure sul più circoscritto carattere italico, cioè la nostra presunta e congenita predisposizione all'illecito.
Tutto questo teatro mediatico finisce, seppur da direzioni e con moventi diversi, per condurre all'impotenza, contribuendo all'assuefazione e alla rassegnazione. Come potrebbe la politica prendere dei provvedimenti se il problema sono gli italiani oppure gli esseri umani in genere? In questi ragionamenti si potrebbe affermare che banalmente c'è una parte di vero, ma se vengono assolutizzati e oscurano altro diventano unicamente fuorvianti.

Proverei a riflettere su tali avvenimenti prendendola dal punto di vista economico. Se rimaniamo all'Italia, seppur in qualità e quantità diverse tali dinamiche siano condivise da tutti i paesi occidentali, possiamo riflettere sul fatto che vi sia un crescente nesso tra attività economiche e crimine. Certo l'illecito ha sempre accompagnato il lecito, ma a partire dalla seconda metà degli anni Settanta questa tendenza a strabordare dell'illecito è andata gonfiandosi. É l'intreccio tra economia legale e criminale che ha compiuto un salto di qualità. Da Tangentopoli in avanti il fenomeno è andato cronicizzandosi, fino a giungere all'attuale situazione, in cui praticamente non c'è grande opera che non sia attraversata da fenomeni di corruzione e allo stesso tempo non ci sia crescita economica attesa senza grandi opere. Queste ogni volta che vengono messe in cantiere dovrebbero fungere da volano per l'intera economia, ma si ha sempre più l'impressione che invece abbiano un senso di per sé, per gli interessi che smuovono nell'immediato, non certo per ciò che stabilmente e in prospettiva potrebbero rappresentare. Basti pensare ai giochi olimpici invernali di Torino oppure alle olimpiadi di Atene. Tutti casi di grandi eventi che sono stati semplicemente il preludio alla crisi e non la sua attenuazione o addirittura la soluzione. Nella migliore delle ipotesi le grandi opere vengono fatte solo per allontanare la crisi, mai per anticiparla o ridimensionarla. Il valore aggiunto che portano con sé non è mai collettivo, ma si esaurisce spesso nel tornaconto dei soggetti a vario titolo direttamente coinvolti, mentre spesso i costi ecologici ed economici successivi se li sobbarca la collettività.

Ma come siamo giunti a tutto questo? Penso che provando ad allungare lo sguardo si possa mettere a fuoco che la ragione di questo crescente nesso tra economia e criminalità sia da far risalire all'incapacità dell'economia a crescere a sufficienza e in maniera autonoma. Il capitalismo, infatti, necessità di ritmi di crescita costanti ed elevati, altrimenti la sua conformazione non regge. Invece tali ritmi negli ultimi decenni sono andati esaurendosi. Luca Ricolfi recentemente ha proposto lo schema 4-3-2-2-1 per dire che negli anni Sessanta l'economia dei paesi Ocse è cresciuta del 4%, nei Settanta del 3%, negli Ottanta e Novanta del 2%, nel primo decennio del nuovo secolo dell'1% e ora siamo nel decennio della crescita 0. Uno schema piuttosto disarmante per le necessità del mercato, che spiega però quelli che sono i processi di lungo periodo in corso. L'esaurirsi della crescita naturalmente non ha condotto, se non in un primo momento, alla riduzione dei profitti, anzi il primato del capitale è stato recuperato attraverso una dura e vittoriosa lotta condotta contro il lavoro e successivamente attraverso la creazione di un'economia sempre più finanziarizzata e fondata sul debito. Unico modo per consentire la duplice necessità di ridurre i salari, non indebolendo al contempo i consumi. Questa impalcatura però non è stata sufficiente, in parte è crollata nel 2008, ma in parte è stata puntellata anche dalla crescita della commistione tra economia reale e criminale, tra regime competitivo e corruzione dentro un quadro di smantellamento dello Stato sociale e di politiche pubbliche. L'economia reale si affanna e i suoi soggetti naturalmente tendono a trovare delle scorciatoie. Non può essere una coincidenza, non può essere un caso che la criminalità organizzata negli ultimi decenni sia salita a qualsiasi latitudine, mescolando le carte tra economia reale e criminale, facendo da porta girevole nel fare pulizia di denaro, nel contribuire a gestire il nuovo regime di appalti e subappalti che l'ideologia di mercato ha imposto a qualsiasi comparto economico che ha a che fare con la sfera pubblica.

Concludo facendo riferimento a un curioso confronto tra gli economisti Luigi Zingales e Marco Fortis sulle pagine del Sole 24 Ore di qualche giorno fa. Il primo in queste settimane è in vena di stupire (è di qualche settimana fa la sua denuncia del ruolo negativo dei paesi creditori rispetto alla Grecia) e scrive che è venuto il tempo che la fine dell'articolo 18 arrivi anche per le imprese e non solo per i lavoratori. Ora Zingales è un liberista, pensa che il mercato libero non sbagli mai, e quindi denuncia il fatto che in Italia la flessibilità non può essere richiesta solo al lavoro, ma anche all'impresa. Pone un problema di efficienza anche per il capitale. In risposta Fortis sostiene che di flessibilità ce ne sarebbe pure troppa e a sostegno della sua tesi fa il consueto elenco di imprese private che funzionano, che esportano, che crescono. Certo nessuno nega la loro esistenza, il problema è che da sole non riescono a dare da mangiare a un paese di 60 milioni di anime. Che la via all'esportazione competitiva dà vita a soggetti perdenti e non solo vincenti. Che il mercantilismo imperante deprime la domanda interna e fa morire tanta parte delle imprese che non reggono i forsennati ritmi globali ipercompetitivi. Non a caso Zingales chiede che il libero mercato faccia il suo corso, facendo chiudere ciò che ormai non è più produttivo e favorendo ciò che di vivo rimane. Il problema è che quello che sta morendo è troppo rispetto alla tenuta sociale di un paese come l'Italia. Il sistema lasciato liberamente agire conduce al collasso, o perlomeno a una crescita stazionaria inadeguata rispetto alle premesse. Nel suo rigore teorico Zingales questo non lo vede. L'impresa allora molto prosaicamente da un lato rivendica il libero mercato, per quel che conviene, ma allo stesso tempo ricorre alla collusione con il malaffare per sopravvivere. Il confine tra queste sfere è sempre più flebile per ragioni di carattere strutturale, piuttosto che per una predisposizione della natura umana. Con ciò non intendo assolvere nessuno, anzi proporrei un cambiamento generalizzato del sistema economico insieme alle sue classi dirigenti. Le due cose devono andare a braccetto altrimenti il rischio è che non cambi mai nulla.


19 marzo 2015

dal sito Communia

La vignetta è del maestro Mauro Biani


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