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venerdì 6 marzo 2015

SYRIZA E PODEMOS: LA STRADA VERSO IL POTERE DEL POPOLO? di Eric Toussaint







SYRIZA E PODEMOS:
LA STRADA VERSO IL POTERE DEL POPOLO?
di Eric Toussaint



L’esperienza dimostra che i movimenti di sinistra possono arrivare al governo ma di certo non a conquistare il potere. La democrazia, vale a dire l’esercizio del potere per il popolo e da parte del popolo, richiede ben di più. Oggi il problema si pone in Grecia con Syriza, in futuro si porrà in Spagna con Podemos, se vincerà le elezioni generali alla fine di quest’anno. Lo stesso problema si è posto anche in Venezuela, a partire dalle elezioni generali vinte da Hugo Chávez nel 1998, in Bolivia con la vittoria elettorale di Evo Morales nel 2005, in Ecuador con quella di Rafael Correa nel dicembre 2006, o anche, qualche decennio prima, con l’elezione di Salvador Allende in Cile nel 1970.[1]

La questione si porrà per qualsiasi movimento di sinistra arrivi al governo in una società capitalista. Se una coalizione elettorale o un partito di sinistra arriva al governo, non ottiene il potere reale, perché il potere economico (che dipende dal possesso e dal controllo dei gruppi finanziari e industriali, dei grandi mezzi di comunicazione privati, del grande commercio, ecc.) resta nelle mani della classe capitalista, vale a dire dell’1% più ricco, che anzi è, spesso, anche meno dell’1% della popolazione. Inoltre, questa classe controlla lo Stato, il potere giudiziario, i ministeri dell’Economia e delle Finanze, la Banca centrale, ecc. In Grecia e in Spagna, come in Ecuador, Bolivia, Venezuela o Cile,[2] un governo deciso ad operare trasformazioni strutturali effettive dovrà scontrarsi con il potere economico per indebolire e poi eliminare il controllo della classe capitalista sui principali mezzi di produzione, sui servizi, sulle comunicazioni e sull’apparato dello Stato.

Proviamo a fare una comparazione storica: Nel 1789, grazie alla Rivoluzione Francese, la borghesia ha preso il potere politico in Francia, ma aveva già il potere economico. Prima di conquistare il potere politico, i capitalisti francesi erano i creditori del re di Francia e i proprietari delle principali fonti del potere economico (la banca, il commercio, le manifatture e parte delle terre). Dopo la conquista del potere politico, estromisero dallo Stato i rappresentanti delle vecchie classi dominanti (nobiltà e clero), sottomettendole o fondendosi con esse. Lo Stato si trasformò in una ben lubrificata macchina al servizio dell’accumulazione del capitale e dei profitti delle classi dominanti.

A differenza della classe capitalista, il popolo non è in grado di prendere il potere economico senza prima arrivare al governo. È impossibile che il popolo ripeta la progressiva ascesa al potere realizzata dai borghesi nel quadro della società feudale o della piccola produzione mercantile. Il popolo non accumula ricchezze materiali su grande scala, non dirige imprese industriali, banche, il grande commercio o altri servizi. È a partire dal potere politico (ossia dal governo) che può cominciare a costruire un nuovo tipo di Stato, basato sull’autogestione. Dirigendo un governo, la sinistra ha accesso alle fonti istituzionali, politiche e finanziarie per poter avviare cambiamenti profondi in favore della maggioranza della popolazione.

L’autorganizzazione del popolo, la sua azione autonoma nella sfera pubblica e nei luoghi di lavoro sono condizioni imprescindibili per l’insieme del processo.

Per effettuare reali cambiamenti strutturali è fondamentale mettere in moto un rapporto interattivo tra governo di sinistra e popolo. Quest’ultimo deve rafforzare il proprio livello di autorganizzazione e costruire dalla base strutture di controllo e di potere popolare. Il rapporto interattivo, dialettico, può diventare conflittuale se il governo esita a prendere le misure richieste dalla “base”. Il sostegno popolare ai cambiamenti promessi e la pressione che il popolo può esercitare sono vitali per convincere un governo di sinistra ad approfondire il processo di cambiamenti strutturali che implichino la redistribuzione della ricchezza in favore di quelli/e che producono. Questo è vitale anche per assicurare la difesa di un governo di questo tipo di fronte ai creditori, ai garanti del vecchio regime, ai proprietari dei principali mezzi di produzione, ai governi stranieri.

Per realizzare le trasformazioni strutturali, si deve rompere in primo luogo con la proprietà capitalista in settori chiave dell’economia quali le finanze e l’energia, trasferendoli al settore pubblico (servizi pubblici sotto il controllo dei cittadini), come pure sostenendo o rafforzando altre forme di proprietà con funzione sociale: la piccola proprietà privata (soprattutto nell’agricoltura, nella piccola industria, nel commercio, nei servizi), la proprietà cooperativa e la proprietà collettiva basata sulla libera associazione.[3]

In due dei tre paesi sudamericani richiamati sopra (in Venezuela tra il 2002 e il 2003,[4] in Bolivia tra il 2006 e il 2008 [5]), il governo entrò in conflitto aperto con la classe capitalista,[6] però non si sono ancora realizzati i cambiamenti decisivi sul piano economico. Quelle società continuano ad essere chiaramente capitaliste.[7]

Ovviamente, ci sono stati reali progressi in favore del popolo, ad esempio: l’adozione in tutti e tre i paesi di nuove Costituzioni, dopo alcuni processi costituenti profondamente democratici (elezione a suffragio universale dell’Assemblea costituente, elaborazione della nuova Costituzione adottata da questa dopo ampio dibattito nazionale; referendum per l’approvazione della nuova Costituzione); un vasto recupero per il controllo pubblico delle risorse naturali;[8] l’aumento della riscossione delle imposte sui più ricchi (specie nel caso dell’Ecuador) e sulle grandi società private, nazionali o straniere; un significativo miglioramento dei servizi pubblici o delle “misiones” dei servizi pubblici; la riduzione delle disuguaglianze sociali; il rafforzamento dei diritti delle popolazioni native; il recupero della dignità nazionale di fronte alle grandi potenze, in particolare gli Stati Uniti.

Non potremmo capire la politica di questi paesi senza tener conto delle importantissime mobilitazioni popolari che ne costellano la storia. In Ecuador, furono costretti a scappare quattro presidenti di destra, lasciando il potere, tra il 1997 e il 2005, grazie alle mobilitazioni della popolazione. In Bolivia ci furono importanti battaglie contro la privatizzazione dell’acqua nell’aprile del 2000 e a fine 2004. Le mobilitazioni attorno alla privatizzazione del gas nell’ottobre 2003 fecero cadere e scappare (negli Stati Uniti) il presidente Gonzalo Sánchez de Lozada. In Venezuela vi furono fin dal 1983 importanti mobilitazioni, inaugurate dalle grandi lotte sociali contro il Fondo monetario internazionale che scossero il pianeta negli anni 1990 e agli inizi degli anni 2000 e alla fine del 2004. Vi furono anche eventi più spettacolari quali le enormi mobilitazioni popolari del 12 aprile 2002. Quelle mobilitazioni ebbero come effetto il ritorno di Hugo Chávez al palazzo presidenziale di Miraflores, già dal 13 aprile 2002.

Mentre i cambiamenti politici democratici vengono sistematicamente passati sotto silenzio nella stampa dei paesi più industrializzati, si orchestra una altrettanto sistematica campagna di denigrazione allo scopo di presentare quei capi di Stato come dirigenti populisti autoritari.

Le esperienze dei tre paesi andini in fatto di adozione di nuove Costituzioni sono eccellenti e dovrebbero ispirare i popoli e le forze politiche di altri paesi. Basti paragonarle con la situazione europea, con l’assenza di un procedimento democratico nell’adozione del Trattato costituzionale nel 2005 o del TSCG (Trattato sulla stabilità, il Coordinamento e la Governance….) nel 2014.

Naturalmente, le esperienze di Venezuela, Bolivia ed Ecuador presentano contraddizioni e importanti limiti, che occorre analizzare.[9]

Le grandi mobilitazioni popolari costituiscono il fattore decisivo nell’esistenza e sopravvivenza dei governi di sinistra. Potremo certamente parlare anche delle grandi mobilitazioni popolari del 1936 in Francia che indussero Leon Blum – che si sarebbe accontentato di “gestire onestamente” la casa della borghesia – a mettere in moto reali misure di sinistra, per non parlare delle mobilitazioni in Spagna nello stesso periodo, o di quelle successive alla Seconda guerra mondiale in gran parte dell’Europa.

Torniamo a Syriza e Podemos

Se i governi, diretti oggi da Syriza e domani da Podemos, vogliono rompere realmente con le politiche di austerità e di privatizzazioni che si stanno attualmente sviluppando in tutt’Europa, entreranno immediatamente in conflitto con le potenti forze conservatrici sia a livello nazionale sia a quello europeo. E, questo, per il solo fatto di affermare che il loro governo intende applicare le misure richieste dalla popolazione che rifiuta in modo massiccio l’austerità. Syriza ora - Podemos domani – sta incontrando la dura opposizione delle istanze europee, della maggior parte dei governi dell’UE, così come dei dirigenti e dei grandi azionisti delle principali imprese private, per non dimenticare il FMI.

Pur autolimitando il proprio programma di cambiamento, Syriza continuerà a trovare una forte opposizione, giacché, di contro, le classi alte e le istanze europee (intimamente legate e solidali) vogliono spingere ancor più in là il maggiore attacco concertato sul piano europeo contro i diritti economici e sociali dei popoli, senza dimenticare l’intenzione di limitare con forza l’esercizio dei diritti democratici.[10]

È illusorio credere che si possa convincere le autorità europee e il padronato delle grandi imprese (soprattutto finanziarie e industriali) ad abbandonare il corso neoliberista rafforzato dal 2010. Segnaliamo che François Hollande e Matteo Renzi, che propongono timidamente di allentare un po’ la cinghia dell’austerità, cercano al tempo stesso di adottare il modello tedesco nei rispettivi paesi: una più avanzata precarizzazione dei diritti di contrattazione collettiva e della salvaguardia delle conquiste dei lavoratori.[11] Costoro non sono gli alleati di Syriza ora o di Podemos domani.

Bisogna inoltre riflettere su un altro elemento, se si confronta la situazione del governo di sinistra oggi in Grecia (o di un altro domani) con quella cui si sono trovati di fronte Hugo Chávez (a partire dal 2000), Evo Morales o Rafael Correa. A partire dal 2004, il rilevante aumento dei prezzi delle materie prime (petrolio, gas, minerali) che quei paesi esportavano consentì loro di incrementare notevolmente la raccolta fiscale, che venne utilizzata per avviare ampi programmi sociali e grandi progetti di investimenti pubblici. I governi dei tre paesi andini applicarono un progetto che potremmo chiamare neokeynesiano sviluppista:[12] forte investimento pubblico, aumento del consumo popolare, aumento dei salari più bassi, nazionalizzazioni (nel caso del Venezuela e della Bolivia) compensate da generosi indennizzi ai proprietari nazionali o alle sedi straniere.

Gli strati popolari più poveri ottennero un notevole miglioramento delle loro condizioni di vita; migliorò anche l’infrastruttura di questi paesi e i profitti dei capitalisti locali non si videro colpiti (nel settore finanziario, i profitti privati aumentarono addirittura). Evidentemente, un governo di sinistra in un paese periferico dell’Unione Europea non potrebbe disporre dello stesso margine di manovra dei governi dei tre paesi andini. I paesi europei della Periferia si trovano schiacciati dal peso di un insostenibile debito. Le autorità europee pensano di esercitare tutta la pressione di cui sono capaci, come dimostra la reazione della BCE nei confronti della Grecia ai primi di febbraio 2015.

La conclusione che si impone è che non sarà facile la strada per mettere in moto un programma economico e sociale che rompa con l’austerità e le privatizzazioni. I governi di sinistra dovranno disubbidire ai creditori, alle autorità europee e al FMI (gli uni e gli altri si confondono largamente) per essere fedeli ai loro impegni elettorali. Dispongono di legittimità e di un sostegno notevole, sia nei rispettivi paesi sia in ambito internazionale, evidenziando il livello del rigetto dell’austerità e delle politiche europee.

Il rifiuto di pagare una parte sostanziosa del debito costituirà un elemento chiave nella strategia del governo,[13]come pure la decisione di non continuare a privatizzare e di ristabilire appieno i diritti sociali attaccati dalle politiche d’austerità. Questa combinazione è vitale, dato che abbiamo già sentito levarsi da parte dei creditori voci che propongono di ridurre il peso del debito della Grecia in cambio della continuazione della politica di riforme (vale a dire di controriforme, di privatizzazioni, di precarizzazione dei contratti di lavoro, dei diritti sociali, ecc.).

Non vediamo facilmente come un governo di Syriza possa evitare la socializzazione del settore bancario (e cioè, l’esproprio delle azioni private e la trasformazione delle banche in un servizio pubblico sotto controllo dei cittadini), di prendere rigorose misure di controllo dei movimenti di capitali, di incassare l’imposta sul patrimonio dell’1% più ricco, di respingere i prestiti della Trojka condizionati dalla prosecuzione di austerità e privatizzazioni, di rifiutarsi di pagare un debito ampiamente illegittimo, illegale, insostenibile dal punto di vista dell’esercizio dei diritti umani, ed anche odioso.

Uno dei tanti strumenti di cui dispone un governo di sinistra per facilitare la partecipazione e il sostegno popolare, rafforzando al contempo la propria posizione rispetto ai creditori, è l’audit del debito con la partecipazione attiva dei cittadini, al fine di individuare la quota del debito che non andrebbe pagata e che sarebbe indispensabile ripudiare. A partire di qui, tutto alla fine diverrebbe possibile.

12 febbraio 2015

Traduzione di Titti Pierini

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NOTE


[1] Per l’esperienza cilena, si veda: Frank Gaudichaud, Chili 1970-1973: Mille jours qui énranlèrent le monde, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2013. In italiano : Gaudichaud - Cile 1970-1973: Il respiro spezzato del potere

[2] Cuba conobbe un processo diverso da Venezuela, Ecuador, Bolivia e Cile, in quanto la sinistra andò al governo dopo aver vinto una lotta armata sostenuta, nella sua fase finale, da un’enorme sollevazione popolare (fine del 1958-primi giorni 1959).Cfr., tra l’altro, l’intervista a Fernando Martínez di E. Toussaint, “Du XIXe au XXIe siècle: une mise en perspective historique de la Révolution cubaine”, 24 dicembre 2014, http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article3391 (in castigliano: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=193926 ).

[3] Nei tre succitati paesi andini, soprattutto in Ecuador e Bolivia, è anche fondamentale sostenere le tradizionali forme di proprietà delle popolazioni native (che conservano in genere un elevato livello di proprietà collettiva).

[4] In Venezuela, le battaglie più aggressive scatenate dalla destra iniziarono dopo tre anni di governo di Hugo Chávez, agli inizi del 2002 e si trasformarono in scontri di fondo con il colpo di Stato dell’aprile 2002, lo sciopero generale del dicembre 2002-gennaio 2003, l’occupazione di piazza Altamira a Caracas da parte di generali sediziosi e dirigenti dell’opposizione politica. L’intensità diminuì dopo l’agosto 2004, grazie alla vittoria del “No” al referendum di revoca del presidente Chávez. Da allora, la destra ricerca occasioni per riprendere l’iniziativa, ma la sua capacità di mobilitazione si riduce notevolmente. Dal 2013, un rilevante settore della classe capitalistica partecipa attivamente alla destabilizzazione del governo creando una situazione di penuria di molti generi di prima necessità, ad esempio farmaci, e tramite il mercato parallelo delle divise (al mercato nero, il dollaro si cambia a quasi 10 volte il suo valore ufficiale).

[5] In Bolivia, la destra ha portato avanti vere e proprie battaglie nel 2007 e 2008, dopo meno di due anni di governo Morales. Ricorse varie volte alla violenza, scegliendo una strategia di scontri frontali nel 2008. La vittoria di Evo Morales nel referendum di revoca dell’agosto 2008, con il 67,4% dei voti non ridimensionò la violenza della destra, anzi questa andò aumentando per varie settimane dopo la sconfitta nel referendum, soprattutto perché si sentiva in grado di raccogliere una maggioranza in alcune province chiave del paese. La forte reazione del governo e la mobilitazione popolare di fronte al massacro dei seguaci di Evo Morales nella provincia di Pando (accanto a questo, vi fu la condanna internazionale, in particolare dell’UNASUR, che convocò una riunione straordinaria nel settembre 2008 a sostegno del governo boliviano), riuscirono a ottenere un armistizio (provvisorio). Dopo un anno di boicottaggio, la destra si impegnò ad accettare il referendum sulla nuova Costituzione. Il referendum si concluse con la vittoria di Evo Morales a fine gennaio 2009; la nuova Costituzione fu approvata con il 62% dei votanti. Nell’ottobre del 2014, Evo Morales fu rieletto con il 61% dei voti.

[6] In Ecuador non vi fu un periodo di scontro tra il governo e la classe capitalista nel suo complesso, anche se si verificarono notevoli tensioni nel 2008, soprattutto a Guayaquil, il porto principale del paese.

[7] Ho analizzato il processo che si andava sviluppando nei tre paesi nel mio saggio: “Venezuela, Équateur et Bolivie: la roue de l’histoire en marche”, 2 novembre 2009, http://cadtm.org/Venezuela-Equateur-et-Bolivie-la (la versione a stampa è uscita su Inprecor nel 2009). Si veda inoltre: Éric Toussaint, El Banco del Sur y la nueva crisis internacional , El Viejo Topo, Mataró (Barcelona), 2008, ed anche il lavoro collettivo: Frank Gaudichaud (a cura di), Le Volcan latino-américain. Gauches, mouvements sociaux et néolibéralisme en Amérique latine, Textuel, Parigi, 2008.

[8] La Bolivia ha nazionalizzato il petrolio e la produzione di gas nel 2009. Evo Morales spedì l’esercito a controllare i campi petroliferi e del gas, pur essendo lo Stato proprietario dei giacimenti.

[9] Si veda la posizione del CADTM rispetto al rapporto del governo ecuadoriano con la CONAIE e altri movimenti sociali del paese: http://cadtm.org/Carta-a-Rafel-Correa-Presidente (lettera pubblicata il 19 dicembre 2014). Dalla fine del 2014, il governo ecuadoriano ha fatto marcia indietro e la CONAIE non è stata sloggiata dalla sua sede.

[10] Cfr.  http://cadtm.org/La-Union-Europea-conculca-las  , 19 dicembre 2014.

[11] Cfr. http://cadtm.org/El-modelo-aleman-exportado-al , 9 gennaio 2015.

[12] L’aggettivo “sviluppista” si riferisce alle politiche che si realizzarono nel periodo 1940-1970 in una serie di paesi latinoamericani. Queste politiche consistevano nel fatto che lo Stato contribuiva notevolmente allo sviluppo economico, ma mantenendo la sua guida. Si veda la definizione datane dall’economista argentino Claudio Katz, in:http://katz.lahaine.org/?p=232 (in castigliano).

[13] I governi di Venezuela, Bolivia ed Ecuador potevano continuare a pagare il debito e, al tempo stesso, sviluppare politiche contro l’austerità, perché il gravame del debito era sostenibile dal punto di vista del bilancio. L’Ecuador si sospese unilateralmente il pagamento di parte del debito dopo aver effettuato l’audit dello stesso e riuscì a sconfiggere i suoi creditori, anche se, dal punto di vista finanziario, avrebbe potuto pagare integralmente. L’interesse nel rifiutarsi di pagare debiti illegittimi, risparmiare le entrate fiscali destinate al pagamento del debito utilizzando in cambio quel denaro a vantaggio del popolo fu quel che portò il governo ecuadoriano a prendere la legittima decisione di rifiutarsi di pagarne una parte. Il Venezuela, che ha seguito un’altra politica, si trova ora di fronte a gravi problemi di rifinanziamento del suo debito.


dal sito Movimento Operaio




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