Diari di Cineclub

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Rivista Cinematografica online e gratuita

lunedì 30 settembre 2013

IL NEMICO DEL MIO NEMICO NON E' NECESSARIAMENTE MIO AMICO di Guillermo Almeyra




IL NEMICO DEL MIO NEMICO NON E' NECESSARIAMENTE MIO AMICO
di Guillermo Almeyra



La vecchia idea che il nemico del mio nemico è mio alleato se non addirittura mio amico ha una vita altrettanto lunga di quella, altrettanto nefasta, che in nome della lotta contro il “nemico principale” sostiene che bisognerebbe tollerare i peggiori crimini dell’alleato o del “nemico secondario”. Quelli che pensano in termini di nazioni senza tener conto dei diversi settori in lotta tra loro che le compongono, e ancor meno dei lavoratori che all’interno di esse sono vittime dei “loro” governanti, non possono capire che è essenziale distinguere e separare “gli statunitensi”, ecc., contrapponendo gli sfruttati agli sfruttatori, e togliendo agli agenti del grande capitale tutti i pretesti possibili per portare avanti la loro politica bellicista. Di conseguenza, sostenendo la tesi aberrante che Bashar al Assad rappresenta il popolo siriano e nascondendo la sua dittatura, quelli che pensano solo in bianco e nero e vedono solo due campi, disarmano l’’opposizione interna a Obama e gli permettono di parlare in nome della “democrazia”. Non ci sono solo due opzioni, l’imperialismo, in tutte le sue varianti, e la “nazione aggredita”, presumibilmente rappresentata dal suo governo, anche se questo è criminale: c’è, al contrario, una terza opzione antimperialista e al tempo stesso antidittatoriale e socialista.

venerdì 27 settembre 2013

SESSO, POLITICA E AFFARI di Nicola Tranfaglia




SESSO, POLITICA E AFFARI
di Nicola Tranfaglia



Non fanno ormai più molta notizia le rivelazioni giudiziarie su quel che ha fatto l'ex presidente del Consiglio Berlusconi negli anni del suo maggior potere in Italia che si collocano, a mio avviso, nel 2009-2010 quando i canali televisivi fremevano per le sue apparizioni, la Protezione civile era nelle mani salde del fido Bertolaso e anche le holding pubbliche, come ad esempio Finmeccanica, presieduta da Guarguaglini. Dovevano tener conto di un dominio che durava da quasi un decennio e non sembrava tramontare. Ricordo in quegli anni che anche molti editori di insospettabile fede democratica tremavano di fronte all'uomo di Arcore anche a causa dei fidi bancari di cui non potevano fare a meno per andare avanti. Ora in questi ultimi stiamo vedendo i frutti del ventennio populista e viviamo in città piccole o grandi che sono piene zeppe di supermercati, povere di librerie e caratterizzate da fondazioni culturali che ricevono soltanto pochissimi contributi da enti locali e regionali ridotti a bilanci che definire magri sarebbe ancora troppo.
Ma allora in quegli anni 2008, 2009, 2010 tanti politici e imprenditori non riuscivano a prevedere che il durare del populismo berlusconiano avrebbe portato l'Italia alle condizioni che oggi si vedono nelle strade di grandi città del nord come Milano o Torino percorse da troppi mendicanti e percorsi da veri e propri cortei di giovani disoccupati e di vecchi senza i mezzi per arrivare alla fine del mese. Per carità, i mali del paese Italia - come lo chiamava lo storico Ruggiero Romano - sono antichi, basta pensare all'insoluta questione meridionale o alla povertà angosciante delle nostre classi politiche per esserne convinti e non da oggi.

sabato 21 settembre 2013

MEDIO ORIENTE, SIRIA. Intervista a Noam Chomsky




MEDIO ORIENTE, SIRIA. 
Intervista a Noam Chomsky
gli 11 settembre pesano nella politica estera USA


 ... la mia idea è che dovremmo concentrarci sul primo 11 settembre, quello in Cile, che fu un attacco molto peggiore, in molte dimensioni.




Pubblichiamo questa intervista, raccolta da Democracy now! a N.Chomsky, sul Medio Oriente e la situazione in Siria in rapporto alla politica estera degli USA, che apre uno squarcio inedito sul portato degli 11 settembre sulle scelte messe in atto dall'amministrazione americana.

AMY GOODMAN: Il nostro ospite per quest’ora è il professor Noam Chomsky. Nel 2007, Noam, Democracy Now! ha intervistato il generale Wesley Clark, il generale pensionato a quattro stelle che era il comandante supremo della NATO durante la guerra del Kosovo. Il generale Clark ha descritto come un ufficiale non nominato del Pentagono, appena dopo gli attacchi dell’11 settembre, aveva parlato di un documento che affermava che gli Stati Uniti avevano programmato di far fuori sette paesi in cinque anni, Siria compresa.

GENERALE WESLEY CLARK: Circa dieci giorni dopo l’11 settembre ho visitato il Pentagono e ho incontrato il Segretario Rumsfeld e il Vicesegretario Wolfowitz. Sono sceso al primo piano giusto per salutare alcuni dei membri del personale congiunto che aveva lavorato per me e uno dei generali mi ha chiamato nel suo ufficio. Ha detto: “Signore, deve entrare a parlare con me un secondo”. Io ho detto: “Beh, lei è troppo occupato”. Ha detto: “No, no”. Dice: “Abbiamo preso la decisione di entrare in guerra con l’Iraq”. Era il 20 settembre o giù di lì. Ho detto: “Entriamo in guerra con l’Iraq? Perché?”. Lui ha detto: “Non lo so”. Ha detto: “Immagino non sappiano cos’altro fare.” Così io ho detto: “Beh, hanno scoperto informazioni che collegano Saddam ad al-Qaeda?” Lui ha detto: “No, no”. Dice: “Non c’è nulla di nuovo al riguardo. Hanno semplicemente deciso di dichiarare guerra all’Iraq.” Ha detto: “Immagino sia, tipo, che non sappiamo cosa fare a proposito dei terroristi, ma abbiamo un buon esercito e siamo in grado di abbattere governi.” E ha detto: “Immagino che quando l’unico attrezzo che hai è un martello, ogni problema deve sembrare un chiodo”.
Così sono trovato alcune settimane dopo e all’epoca stavamo bombardando in Afghanistan. Ho detto: “Stiamo ancora per entrare in guerra con l’Iraq?”. E lui ha detto: “Oh, è anche peggio”. Ha detto … si è chinato in avanti sulla scrivania. Ha raccolto un pezzo di carta e ha detto: “Ho appena ricevuto questo da sopra”, intendendo dall’ufficio del segretario alla difesa, “oggi”. E ha detto: “E’ un documento che descrive come faremo fuori sette paesi in cinque anni, cominciando con l’Iraq, e poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e, per finire, Iran.” Ho detto: “E’ segreto?” Ha detto: “Sì, signore.” Ho detto: “Beh, non me lo mostri.” E l’ho rivisto un anno fa, o giù di lì, e ho detto: “Si ricorda?” Ha detto: “Signore, io non le ho mostrato quel documento, non gliel’ho mostrato!”

venerdì 20 settembre 2013

IL DIRITTO DI FARE JOGGING




IL DIRITTO DI FARE JOGGING
di Laglasnost 



Faccio sport praticamente da sempre. Da piccola le arrampicate sulla casa in costruzione, ‘u cchiappareddu, la palla matta, e poi ginnastica, la corsa, la bicicletta, il nuoto, la danza. Ricordo le volte che sfidavo la sorte perché da femmine fare un percorso in bicicletta, pare fosse sconsigliato. Eppure io volavo e non c’era nessuno che potesse fermarmi. Arrivavo in bici al bosco e poi facevo chilometri di corsa, non sempre in compagnia. Ci fu la volta che sbagliai la scelta della scarpa e andarono in frantumi i capillari delle caviglie. Danni collaterali. Chi fa sport sa di cosa parlo. Poi c’erano le avventurose passeggiate in spiaggia, per chilometri, perché tra rocce e insenature, riuscivi a superare paesi e paesini a partire dal mare e questo dava una sensazione di grande libertà. E poi la corsa, cadenzata, per arrivare in fondo, cercando la battigia che risulta meno problematica da attraversare, ché quella inclinata che scivola verso il mare è veramente pessima. Ho sempre familiarizzato con posti sconosciuti, scoperto angoli di mondo che sicuramente non erano nuovi per nessuno, ma l’esperienza di “scoprire”, respirare aria buona, osservare la natura, non dovrebbe essere qualcosa di precluso alle persone, perché lo è, precluso, quanto meno per le donne.

Le mie uscite erano sempre accompagnate da tante raccomandazioni. I miei vicini dicevano, ovviamente, che ero matta. Invece che cucirmi il corredo partivo, bevanda e nutrimento, libro in borsa, e bici per andare chissà dove. Donna perduta che pretendeva di fare quello che faceva suo fratello.

giovedì 19 settembre 2013

NON CI SONO SOLO LE LARGHE INTESE di Antonio Moscato




NON CI SONO SOLO LE LARGHE INTESE 
di Antonio Moscato


A volte si da la colpa alle “larghe intese” di tutto quel che fa di male il governo Letta, e cioè si attribuisce ogni colpa come al solito a Berlusconi. Il quale, naturalmente, anche se ha un po’ di guai, si può consolare pensando che il governo Letta realizza integralmente il suo programma come a lui non sarebbe riuscito se avesse governato da solo, e gli lascia per giunta la possibilità di fare un po’ di fronda per tenere in forma i muscoli in vista di elezioni comunque non lontane (l’anno prossimo, anche senza crisi del governo, ci sono comunque le europee, qualcosa di più di un semplice test di mezzo termine). Così ha fatto agitazione sull’IMU e l’ha spuntata, mentre nessuno si è preoccupato delle centinaia di migliaia di “esuberi”… Se finora ha mantenuto la fiducia al governo non è certo per generosità o senso civico (che non ha), ma perché un governo così non lo potrebbe riavere facilmente. Quando ricatta, lo fa per poter cantare vittoria, dopo aver costretto il partito concorrente (avversario non si potrebbe proprio dire) a screditarsi difendendo goffamente questa o quella tassa, e apparendo inoltre un governo dei rinvii o delle “lunghe attese”.

lunedì 16 settembre 2013

RAZZISTI PER TRADIZIONE di Maaza Mengiste




RAZZISTI PER TRADIZIONE 
GLI INSULTI CONTRO CÉCILE KYENGE DERIVANO ANCHE DALL'INCAPACITÀ ITALIANA DI FARE I CONTI CON IL PASSATO COLONIALE

di Maaza Mengiste 




Il 4 settembre, di fronte alla sede del X municipio di Roma, dove era attesa la visita di Cécile Kyenge, prima donna nera alla guida di un ministero italiano, sono stati trovati tre manichini coperti di sangue finto. Accanto c'erano dei volantini su cui si leggeva: "L'immigrazione è il genocidio dei popoli. Kyenge dimettiti". È l'ultimo di una serie sconvolgente di attacchi e minacce contro la ministra. Un ex ministro ha detto che somigliava a un orango e un vicesindaco l'ha paragonata a una prostituta. Infine, qualcuno le ha lanciato delle banane durante un discorso. La sua nomina a ministra dell'integrazione non ha solo scoperchiato i problemi dell'Italia con la tolleranza razziale, ma ha anche smentito il luogo comune degli "italiani brava gente". È questo luogo comune che mi ha spinto a scegliere l'Italia come argomento del mio nuovo libro. Un'idea che contraddice le esperienze di mio nonno, e della sua generazione, che combatté contro l'invasione fascista dell'Etiopia e subì cinque anni di occupazione italiana. Il partito fascista e Benito Mussolini governarono a Roma dal 1922 al 1943, e durante quel periodo l'Italia ampliò il suo impero oltre la Libia, l'Eritrea e la Somalia. Nel 1935 invase l'Etiopia con una miscela devastante di guerra aerea e attacchi terrestri. Gli etiopici dovettero subire il gas mostarda, i campi di concentramento e i massacri, tattiche che l'Italia mise a punto in Libia, dove si svolse per trent'anni una lotta brutale che gli italiani definirono "campagna di pacificazione".
I resoconti della guerra in Etiopia erano censurati e si parlava invece della missione civilizzatrice portata avanti dall'Italia. Inoltre, si sottoponeva la lingua ad accurate manipolazioni per convincere gli italiani non solo che avevano diritto di prendersi la terra di un altro popolo, ma anche che si trattava di un gesto di benevolenza. La cosa che più colpisce è che la vicenda coloniale italiana è quasi assente dai libri di storia e dal dibattito nazionale. Solo nel 1996, sessant’anni dopo, il ministero della difesa ha ammesso l'uso del gas mostarda nella campagna d'Etiopia. La Germania ha avuto i processi di Norimberga, il Sudafrica la sua Commissione per la verità e la riconciliazione. Nell' Italia del dopoguerra è mancato un dibattito simile che avviasse il paese sul difficile cammino verso la pacificazione.

TRASFORMAZIONE

Questi momenti di presa di coscienza ci hanno dimostrato che affrontare gli eventi dolorosi del passato cementa la memoria collettiva e contribuisce a creare un vocabolario del pentimento. Riavvicina quanti ebbero il potere di ferire e quanti hanno il potere di perdonare. Il compito dell'Italia dal 1861, l'anno dell'unificazione, è stato quello di accomunare gruppi di persone molto diverse e spesso in conflitto fra loro. Si attribuisce a Massimo d'Azeglio la frase: "Abbiamo fatto l'Italia. Ora dobbiamo fare gli italiani". L'identità collettiva dell'Italia, ammesso che esista, è stata costruita con cura. Un'identità che ha avuto tra le sue componenti la pelle bianca. E che oggi si sente messa in discussione dalla presenza della ministra Kyenge. Ma l'Italia, volente o nolente, sta subendo una trasformazione. Gli immigrati di prima o di seconda generazione, e altri italiani, stanno tentando di modificare le leggi discriminatorie, combattono per una maggiore consapevolezza del passato e delle potenzialità per il futuro. Ricordo una cena a Roma con amici e colleghi. Da un altro tavolo è stato fatto un commento ad alta voce sul colore della mia pelle, il cibo, e certe volgari allusioni sessuali. Gli amici che mi stavano accanto sono rimasti esterrefatti. Poco dopo un signore anziano mi ha fatto l'occhiolino, e quando ho protestato ha allargato le braccia e si è messo a ridere. Se non avessimo sentito tutti quel che aveva appena detto, sarebbe sembrato un tipo allegro che era stato frainteso e ingiustamente accusato. Un esemplare degli "italiani brava gente".
Invece gli insulti a Cécile Kyenge sono stati molto più virulenti, non c'era la decantata giovialità degli italiani. Un mito che resiste solo perché non ci sono sanzioni severe contro i politici e i gruppi responsabili di certe violenze verbali. Occorre fare i conti con il proprio passato, coinvolgendo tutti gli italiani. Ho chiesto a una mia amica italiana di origini somale cosa ne pensasse degli insulti a Kyenge. "Questo è il mio paese", mi ha risposto. "Stiamo lavorando per migliorarlo. Oggi più che mai, l'Italia ha bisogno di persone come me".


16 Settembre 2013

The Guardian, Regno Unito
Dalla rubrica "Come ci vedono gli altri"


Maaza Mengiste è una scrittrice etiopica-americana che vive negli Stati Uniti.

dal sito Il pane e le rose




mercoledì 11 settembre 2013

LA TRAGICA CONCLUSIONE DELL’ ESPERIENZA DI UNIDAD POPULAR IN CILE di Diego Giachetti




LA TRAGICA CONCLUSIONE DELL’ ESPERIENZA DI UNIDAD POPULAR IN CILE
di Diego Giachetti



Porque esta vez no se trata
de cambiar un Presidente
sera el pueblo quien construya
un Chile bien diferente!…

Echaremos fuera al yanki
y su lenguaje siniestro
con la Unidad Popular
ahora somos Gobierno

Inti-Illimani
Cancion del poder popular



La mattina dell’ 11 settembre 1973 reparti della marina cilena si sollevano a Valparaiso e occupano la città. Contemporaneamente nella capitale soldati e mezzi militari circondano il palazzo presidenziale della Moneda chiedendo le immediate dimissioni del Presidente Salvador Allende. La richiesta è firmata dal generale Pinochet, comandante in capo dell’esercito, dall’ammiraglio Merino, dal generale Guzman Leigh e dal comandante del corpo dei carabineros Mendoza. Dal palazzo, Allende risponde dichiarandosi “pronto a resistere con tutti i mezzi, anche a costo della vita, in modo che ciò possa costituire una lezione nella storia ignominiosa di coloro che hanno la forza ma non la ragione”.
Verso mezzogiorno le truppe golpiste sferrano l’attacco finale al palazzo con bombardamenti aerei e cannoneggiamento. Poco dopo viene mostrato il corpo di Allende morto suicida, secondo i generali, caduto combattendo secondo altre fonti. Nel frattempo soldati e carabineros circondano e perquisiscono a Santiago tutte le sedi dei partiti democratici, dei giornali, le banche e le fabbriche. Sacche di resistenza si stanno organizzando in alcuni quartieri proletari della città. Nel primo pomeriggio la giunta militare rilascia un proclama nel quale si afferma che le forze armate e la polizia sono unite per lottare “per la liberalizzazione del paese dal giogo marxista”. Viene proclamato il coprifuoco in tutto il paese, vengono messi fuori legge il Partito Comunista, il Partito Socialista e tutte le organizzazioni rivoluzionarie. Ventisette giornali vengono soppressi, non compariranno più nelle edicole.
L’indomani, il 12 settembre, nelle vie di Santiago e in quelle di quasi tutte le maggiori città si segnalano scontri tra gruppi di resistenti e le truppe golpiste che procedono ai rastrellamenti. La giunta militare trasmette di continuo bandi e proclami invitanti a cedere le armi, a fare opera di delazione nei confronti dei dirigenti delle organizzazioni di sinistra e del sindacato. Nel bando numero 32 si dichiara esplicitamente che “sono passabili di fucilazione coloro che si renderanno comunque colpevoli di propaganda sovversiva”. Le esecuzioni sommarie da parte dell’esercito e dei carabineros si succedono per le strade.
Il 13 settembre si forma il nuovo governo composta da militari e due civili. Il parlamento viene sciolto; la DC cilena, in un suo comunicato, inneggia ai generali quali “salvatori della patria”. Dopo aver ricordato la tradizionale fiducia nelle istituzioni, dimostrata delle forze armate cilene, nel comunicato si afferma che l’esercito si è assunto il compito di governare il paese onde “evitare grandi pericoli di distruzione e di totalitarismo”; per questa ragione “meritano la cooperazione di tutti i settori”, al fine di contribuire al ristabilimento della “normalità… della pace e dell’unità tra i cileni”.
Notizie sulla sanguinosa repressione in corso e sulla resistenza alla giunta militare cominciano a trapelare su alcuni giornali argentini. Si apprende così che i minatori delle miniere di Chuquicamata e di El Teniente hanno bloccato gli impianti e resistono con le armi all’esercito. Anche nelle città di Los Andes, Conception, Arica, Las Cuevas la resistenza è sostenuta. A Santiago, dopo una lunga resistenza, costata centoventiquattro morti e oltre seicento arresti, i militari occupano l’università tecnica. Anche la fabbrica Suma dopo una battaglia di viarie ore cade in mano all’esercito lasciando sul terreno i corpi di cinquanta lavoratori e centinaia di feriti. A questo punto la repressione assume sempre più le caratteristiche di un vero e proprio massacro indiscriminato che colpisce non solo i militanti di sinistra, ma le loro famiglie, i parenti i conoscenti e tutti quelli che si trovano nelle vicinanze del luogo dove il compagno o la compagna vengono individuati. I giornali dell’epoca, nei loro resoconti, riferiscono di interi palazzi fatti saltare con la dinamite e di quartieri bombardati a tappeto.

sabato 7 settembre 2013

LA GRANDE IMPOSTURA di Giorgio Riolo




LA GRANDE IMPOSTURA: IL BUON SAMARITANO E IL GRANDE NEMICO DEL GENERE UMANO
di Giorgio Riolo



Il prossimo 11 settembre saranno trascorsi 40 anni dal golpe in Cile contro il legittimo e democraticamente eletto governo di Salvador Allende. Oltre a Pinochet e ai criminali militari cileni, il grande fratello norteamericano aveva manovrato, organizzato e guidato il crimine, macchiandosi di sangue dalla testa ai piedi, al pari degli esecutori. La definizione del Che, contenuta nel Mensaje a la Tricontinental, secondo cui gli Usa erano e sono il grande nemico del genere umano era ampiamente fondato.
Il paese che ha utilizzato, unico nel mondo fino a oggi, le bombe atomiche su civili inermi (bambini, donne, uomini. A proposito di bambini, vedi "Lavori in corso" n.332, in  www.puntorosso.it, il bel intervento di Angelo D’Orsi). En passant, ricordiamo che il Giappone era già piegato e di lì a poco si sarebbe arreso. Le bombe furono impiegate per sancire definitivamente la egemonia Usa e, dopo due massacri di massa o guerre mondiali, quale successione all’egemonia britannica, con la Germania come contendente sconfitta. Le bombe furono impiegate per aprire nei fatti la “guerra fredda”, come monito grave all’Urss e al campo socialista (tra i quali i comunisti cinesi che, dopo la sconfitta del Giappone, avrebbero conteso la Cina con il Kuomintang, sostenuto dagli Usa).
Il Paese che ha usato il napalm, l’agente Orange (2 milioni di morti in Vietnam e cancri e malattie fino a oggi) e il fosforo bianco a tonnellate su inermi. Il paese che si arroga il diritto di decidere chi è buono e chi è cattivo (dicendo, per bocca di Henry Kissinger, che anche se uno è figlio di puttana, è assolto perché “è il nostro figlio di puttana”). Il paese che deve sempre cercare una ipocrita giustificazione “umanitaria” per azioni imperiali già decise o prospettate per i propri fini, dal punto di vista economico, politico o militare. Questo paese adesso ha deciso che non può tollerare che le armi chimiche siano usate da Assad. Qualora veramente i governativi siriani le abbiano usate.
Ricordo ancora una volta, se ce ne fosse bisogno. Nel lontano 1964, l’allora potente cardinale americano Spellman disse che gli americani erano i “buoni samaritani” del mondo e che in Vietnam gli Usa stavano difendendo la civiltà occidentale.
Molto c’è da dire. Ma una cosa sola occorre ricordarla. Gli Usa si servirono di quei campioni della democrazia e della civiltà quali erano i tagliagole mujahidin e l’internazionale islamica confluita lì (algerini, Bin Laden ecc.) in Afghanistan per poi ritrovarseli contro, come novelli apprendisti stregoni che non sanno più come fare per fermare i mostri che hanno evocato o creato. Così i “terroristi”, di varie specie e di varie formazioni combattenti in Siria, anch’essi campioni di democrazia e di civiltà, sono stati armati e foraggiati dai paesi del Golfo (i figli di puttana, ma nostri figli di puttana, questa volta non solo degli Usa ma anche di tutta Europa e Occidente) e, foss’anche indirettamente, dall’Occidente, con le tante armi finite nelle loro mani. Una ragione in più per rendere più complessa e problematica la realtà delle cosiddette “primavere arabe”. Vedi, sempre nell’intervento di d’Orsi, la lettera del cittadino arabo al Financial Times.
Naturalmente giornali e media, partiti politici, “americani” italiani sono arruolati. Vediamo quanto tempo regge il non intervento italiano. Nessuna parola, va da sé, del sicuro e garantito uso delle basi americane in Italia per i fini di cui sopra. Ma questo è l’atlantismo-servilismo congenito. Bipartisan ovviamente.



6 settembre 2013


da LAVORO & POLITICA






giovedì 5 settembre 2013

GLI STATI UNITI TEMONO UN COLLASSO DELLO STATO SIRIANO




GLI STATI UNITI TEMONO UN COLLASSO DELLO STATO SIRIANO

Intervista con Gilbert Achcar a cura di Jean - Pierre Perrin*



Come spiegare l' uso di armi chimiche da parte di un regime da tempo ormai sotto i riflettori ?

Dopo l'uso di armi chimiche nel mese di giugno , Barack Obama ha fatto un gesto , motivato dalle sue dichiarazioni secondo le quali il loro uso avrebbe costituito il superamento della " linea rossa". Aveva infatti dato il via libera alla fornitura di armi ai ribelli. E questo fatto ha permesso ai ribelli di segnare una importante avanzata dal punto di vista militare. Tutto questo ha messo in grande difficoltà il regime. E la periferia di Damasco [dove sono avvenuti gli attacchi con le armi chimiche, ndr] è un punto fondamentale per sconfiggere l'avversario . Saddam Hussein, trovatosi nella stessa difficile situazione, aveva proceduto allo stesso modo...

Ma il gas è stato utilizzato proprio mentre gli ispettori dell'ONU si trovavano a Damasco ...

È l'argomento del regime, il solo che sentiamo ripetere . Invece, il momento era ideale per l'uso delle armi chimiche: avrebbe potuto sostenere che non era assolutamente logico ricorrervi in queste condizioni. Inoltre, ha impedito agli ispettori di effettuare il loro lavoro in tempo utile... Con delle semplici visite lampo sui luoghi, come avrebbero potuto trovare prove flagranti ? Se i governi occidentali erano alla ricerca di prove che permettessero un intervento in Siria , beh, un tale modo di procedere appare perlomeno sospetto. Ma è chiaro a tutti che essi sono riluttanti ad intervenire .

Un attacco occidentale può cambiare la dinamica del conflitto ?

Tutto dipende dagli obiettivi . Se gli Stati Uniti distruggessero la flotta aerea a terra , il regime sarebbe notevolmente indebolito. Per gli altri obiettivi - i posti di comando, i missili... il governo ha avuto il tempo di spostare tutto.

Obama favorisce per la Siria la cosiddetta " opzione yemenita " ( il presidente Saleh è stato sostituito dal suo vice-presidente ) . Può funzionare anche in Siria?

Non credo. In effetti, gli Stati Uniti temono un crollo dello Stato siriano , che creerebbe una situazione analoga a quella in Iraq . Un vero e proprio incubo . Da qui la loro idea di trovare un compromesso tra il regime e l'opposizione. Cogliamo il tentativo di attuare questa politica nelle visite effettuate da John Kerry [ il Segretario di Stato americano , ndr ] in Russia . Se ci si trovasse veramente di fronte a relazioni antagonistiche tra Mosca e Washington , non vi sarebbero stati rapporti di questo tipo. Questo è il motivo per cui Obama ha per molto tempo scartato l'idea di armare l'opposizione.

Washington ha cambiato politica alla luce dell'offensiva condotta dal regime con il sostegno di Hezbollah e di fronte ai toni trionfalistici di Bachar al Assad . Ha fatto loro capire che l'opzione " soluzione negoziata " era finita se non ci fosse stata una fornitura di armi all'opposizione, con l'obiettivo di ripristinare almeno un certo equilibrio . E questo poiché Washington pensa che se il regime non vedrà aumentare le proprie difficoltà , continuerà a rimane sordo a qualsiasi appello e non si deciderà a negoziare. Per rendere immaginabile una soluzione alla crisi, appare dapprima necessario provocare una rottura all'interno del sistema . Ora , adottando il punto di vista di Washington , cioè privilegiare un accordo , che è in linea con l'idea di una rottura in seno allo Stato siriano, appare chiara la necessità di armare i ribelli. Obama non ha voluto farlo , temendo che, una volta armata, l'opposizione non si sarebbe fermata a metà strada. Conseguenza di tutto questo: il regime è ancora lì e, con l'aiuto dei suoi alleati , è stato in grado di marcare dei punti. Inoltre, è stata avanzata come scusante la minaccia di Al Qaeda non consegnare armi : ed è successo proprio il contrario . La politica di Obama dunque si è rivelata essere catastrofica . Non certo più intelligente di quella di Bush!


* Intervista apparsa nel quotidiano francese Libération del 31 agosto 2013. Gilbert Achcar è professore presso la Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra . È autore del recente volume Le peuple veut: une exploration radicale du soulèvement arabe (editions Actes Sud ) . La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà del Cantone Ticino.


dal sito Movimento operaio



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