Diari di Cineclub

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Rivista Cinematografica online e gratuita

venerdì 20 settembre 2013

IL DIRITTO DI FARE JOGGING




IL DIRITTO DI FARE JOGGING
di Laglasnost 



Faccio sport praticamente da sempre. Da piccola le arrampicate sulla casa in costruzione, ‘u cchiappareddu, la palla matta, e poi ginnastica, la corsa, la bicicletta, il nuoto, la danza. Ricordo le volte che sfidavo la sorte perché da femmine fare un percorso in bicicletta, pare fosse sconsigliato. Eppure io volavo e non c’era nessuno che potesse fermarmi. Arrivavo in bici al bosco e poi facevo chilometri di corsa, non sempre in compagnia. Ci fu la volta che sbagliai la scelta della scarpa e andarono in frantumi i capillari delle caviglie. Danni collaterali. Chi fa sport sa di cosa parlo. Poi c’erano le avventurose passeggiate in spiaggia, per chilometri, perché tra rocce e insenature, riuscivi a superare paesi e paesini a partire dal mare e questo dava una sensazione di grande libertà. E poi la corsa, cadenzata, per arrivare in fondo, cercando la battigia che risulta meno problematica da attraversare, ché quella inclinata che scivola verso il mare è veramente pessima. Ho sempre familiarizzato con posti sconosciuti, scoperto angoli di mondo che sicuramente non erano nuovi per nessuno, ma l’esperienza di “scoprire”, respirare aria buona, osservare la natura, non dovrebbe essere qualcosa di precluso alle persone, perché lo è, precluso, quanto meno per le donne.

Le mie uscite erano sempre accompagnate da tante raccomandazioni. I miei vicini dicevano, ovviamente, che ero matta. Invece che cucirmi il corredo partivo, bevanda e nutrimento, libro in borsa, e bici per andare chissà dove. Donna perduta che pretendeva di fare quello che faceva suo fratello.

La “pazza” usciva dal centro abitato, potevi incontrarla per una stradina provinciale, poi vedevi quella bici ferma da qualche parte e andavo a correre. Chissà perché lo fa, era la domanda. Già. Chissà.

Non puoi andare in bici, fare prove di danza, correre, vestita di tutto punto. Indossi tute, pantaloncini, magliette scollate. Dunque agli appellativi per la mia presunta stranezza s’aggiungevano quelli di chi faceva una perfetta sintesi e arrivava alla conclusione che fossi una “puttana”. Perché solo le puttane fanno sport, non lo sapete?

Quando inventarono quegli strumenti tech anacronistici dai quali potevi sentire musica in cassetta, gli antenati del lettore mp3, le cuffie mi salvarono da commenti e sguardi e tutta una serie di attenzioni non richieste che ad un uomo che corre e si allena non sono riservate.

A lui nessuno dice “perché vai lì a correre da solo?”. Nessuno gli diceva “attento a non andare nel bosco che c’è il lupo”. Perché, come sappiamo, la favola di cappuccetto rosso è solo al femminile, tant’è che crescendo ho sempre immaginato che una cappuccetta rossa dovesse andare per boschi armata, quasi sempre, perché donna al bosco è certamente uguale al lupo.
Ancora adesso se vado a correre in spiaggia devo scegliere orari in cui ancora c’è gente, anche se questo significa dribblare picciriddi e uomini che giocano a pallone, scansare donne che prendono il sole fino a consumare l’ultimo raggio, guardarsi attorno con sospetto per scoprirsi in solitudine – e com’è bella – in un tratto desolato in cui la natura sembra intatta, lasciarsi spaventare e condizionare dalle cronache dei quotidiani. Se vedo l’immigrato in giro, e non mi ha mai, e dico mai, molestato un immigrato in tutta la mia vita. E se vedo un cane senza padrone, di quelli che mi corrono dietro e poi mi mordono? Anzi. Prendersela con i padroni se mandano in giro da soli i cani che abbaiano e corrono dietro chiunque si muova. Ed è strano mettere al riparo le fobie che la cattiva informazione dà e tornare a decostruire e razionalizzare in momenti in cui l’istinto dice solo che devi correre più forte.

C’è la palestra che sembra diventato il rifugio per persone timorose. Lì puoi farti chilometri sul tapis roulant e nessuno ti disturba. Ma non c’è aria. Non c’è sole. Non c’è il mare. Non c’è il bosco. E’ una costosa prigione.

Allora ecco che arrivi in un posto immaginando di essere protetta dal fatto che è giorno, sei andata con un amico, ci sono altre persone che corrono nei dintorni, senti voci, risa, non sei affatto sola. E’ lì che tutta la prudenza va a farsi benedire e chissà: arriva un pazzo, tira fuori un coltello, è italiano, non c’entra nulla coi migranti, né tantomeno con i cani, è solo parecchio maschilista e pensa che la pazzia sia una scusa sufficiente per fare quello che in generale per cultura trova giustificazione.Tu sei lì, corri, lui ti vede e dato che non gliela dai allora ti ammazza.  E io non posso che pensare a quanto mi sia andata di culo in tutto questo mio tempo passato a sfidare la sorte.

Già immagino, comunque, i dibattiti di gente fedele ai securitarismi. Quelli che inseriscono la tabella “rosa” per circuiti sicuri per lo sport delle donne, quelli che vorrebbero telecamere ovunque, ché poi, diciamolo, così si soddisfano i pruriti morbosi di quelli che vade retro alle prostitute che forse puoi trovarle lì di sera, o vade retro ai ragazzetti che vanno a farsi una canna o una pomiciata con qualcun@. Quelli che tanto per fare marketing istituzionale consigliano posti di polizia in ogni buco del culo del mondo. E io invece so che è solo un problema di mentalità e che non c’è security che tenga per farmi stare al sicuro. Piuttosto divento controllabile, la mia privacy buttata al vento, la mia vita sempre condizionata.

Quel che vorrei passasse, in linea di principio, è solo un fatto: vorrei avere il diritto di fare jogging dove e quando cazzo mi pare. Vorrei la giornata libera, la notte libera, la vita libera, la strada libera. O dobbiamo ancora uscire in branco o con un protettore a fianco per restare incolumi?



19 settembre 2013

dal sito Abbatto i muri





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