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venerdì 23 gennaio 2015

IL NODO EUROPEO E LE ELEZIONI IN GRECIA di Claudio Bellotti




IL NODO EUROPEO E LE ELEZIONI IN GRECIA
di Claudio Bellotti 




Alla vigilia delle elezioni politiche in Grecia riemergono, irrisolti, tutti i nodi della crisi europea.
Il leader di Syriza Alexis Tsipras, indicato come probabile vincitore, sottolinea come oggi “Syriza non viene più considerata un grave pericolo, come nel 2012, bensì come uno stimolo al cambiamento” (intervento sull’Huffington Post del 6 gennaio).


E in effetti, mentre nelle passate elezioni ci fu contro Syriza una vera e propria campagna di terrorismo psicologico, in Grecia e in Europa, oggi non mancano, anche nei piani nobili, parole di apprezzamento per Tsipras che ha moderato le sue posizioni, non minaccia più l’uscita dall’euro e si è dimostrato persona ragionevole. Qualche settimana fa l’editorialista del Financial Times Wolfgang Münchau si è spinto a dire che le uniche proposte ragionevoli sul problema del debito in Europa sono quelle di Syriza e Podemos, che ne chiedono la rinegoziazione.

Il programma di Syriza

Al tempo stesso Syriza ha approvato il “Programma di Salonicco” con una serie di misure sociali che, ci tiene a sottolineare lo stesso Tsipras, andrà implementato “indipendentemente dal negoziato coi nostri finanziatori” (ossia la Troika) in quanto “efficiente in termini di costi e fiscalmente equilibrato”.

Le misure fondamentali di questo che potremmo definire un programma minimo di emergenza sono chiaramente condivisibili e potrebbero garantire la vittoria elettorale a Syriza. Ecco le principali:
• 4 miliardi di investimenti pubblici;
• ripristino di stipendi e pensioni;
• elettricità gratis e buoni pasto per 300mila famiglie sotto la soglia di povertà;
• 30mila appartamenti;
• restituzione della tredicesima a oltre un milione e 200mila pensionati sotto i 700 euro al mese;
• assistenza medica e farmaceutica gratuita per i disoccupati non assicurati;
• abbassamento dell’imposta di consumo per riscaldamento e gasolio;
• moratoria per i debitori a reddito zero;
• dilazione e riscadenzamento dei debiti verso lo Stato e gli enti previdenziali;
• progressività dell’imposta sulla casa con esenzione per le prime case (non quelle di lusso);
• ripristino del salario minimo a 751 euro;
• creazione di 300mila posti di lavoro per i disoccupati di lunga durata;
• ripristino dei contratti collettivi di lavoro e dei diritti sul lavoro cancellati dai Memorandum della Troika;
• abolizione di tutte le norme che consentono licenziamenti di massa e ingiustificabili, nonché l’affitto di manodopera;
• ripristino dell’Ert (la radiotelevisione pubblica).

Per la prima volta da circa 35 anni abbiamo un partito con un programma di riforme sociali effettive che si candida a vincere le elezioni in un paese europeo. Si tratta quindi di un passaggio di importanza fondamentale. È un dovere elementare sostenere qualsiasi seria misura che Syriza prenderà in favore delle classi popolari, che sono state letteralmente depredate in questi anni di politiche di austerità che hanno causato il crollo del reddito dei greci dal 30 al 50 per cento.

Ma proprio per la speranza che questo programma susciterà non solo in Grecia, abbiamo il dovere di dire apertamente che alla base della proposta di Tsipras c’è una speranza utopica, ossia quella di risolvere la crisi greca applicando una strategia riformista sul piano nazionale e internazionale. “Cancellare la maggior parte del valore nominale del debito pubblico in modo che diventi sostenibile, nel contesto di una ‘Conferenza europea del debito’.”

Secondo Tsipras, ad opporsi a questa prospettiva sarebbe solo “una piccola minoranza, che trova il suo centro nella leadership conservatrice del governo tedesco e in una parte della stampa populista”. Ora, sarà anche una piccola minoranza, ma si tratta della forza dominante in Europa, che controlla gran parte delle istituzioni europee e le dirige in nome e per conto degli interessi del capitale e innanzitutto del capitale finanziario. Attorno alla signora Merkel e ai vari Schäuble e Katainen non si raduna una setta di ottusi cavernicoli dediti all’oscura religione del liberismo, bensì il nocciolo duro del capitale europeo. Per piegarli non servono le belle parole, bensì un conflitto di classe e una direzione decisa a combatterlo fino alle ultime conseguenze.

La crisi europea non vede fine

Nonostante tutte le promesse, la crisi europea continua ad avvitarsi: alla crisi dei debiti sovrani si è risposto con l’austerità, che a sua volta demolendo salari, pensioni, spesa sociale e investimenti pubblici sta gettando il continente in deflazione. Questa a sua volta renderà ancora più insostenibili i bilanci dei paesi più vulnerabili (meno crescita e prezzi in calo uguale aumento del debito reale e meno entrate fiscali). Le conseguenze sociali si stanno inoltre trasmettendo sul piano politico ed elettorale, rendendo sempre più deboli i partiti che sostengono l’austerità e gonfiando il consenso elettorale sia delle forze populiste di destra che di partiti come Syriza o Podemos. In risposta a questa crisi politica, e alle proteste di piazza che hanno attraversato numerosi paesi europei, la classe dominante reagisce blindandosi in governi sempre più autoritari. Sul Sole 24 ore (6 gennaio) Carlo Bastasin scrive, come se fosse una ovvietà: “Come sappiamo la democrazia parlamentare è stata accantonata in alcuni paesi, le elezioni sospese, i referendum ripetuti”. Insolita sincerità! “Come sappiamo” per fare ingoia-re le politiche di austerità a volte è necessario mettersi sotto i piedi anche le finzioni democratiche.

Il motivo per cui la crisi greca rimane intrattabile è quello di sempre: la moneta unica si è trasformata in una catena che lega economie strutturalmente diverse allo stesso destino. La moneta è unica, ma i bilanci sono nazionali, così come lo sono i debiti pubblici e le bilance commerciali. Questa contraddizione si è espressa nella crisi degli spread così come domani si può esprimere nella bancarotta di uno o più paesi (come nel caso di Cipro), ma al fondo deriva da un fatto inaggirabile: la somma dei debiti pubblici dell’eurozona ammonta a circa 9mila miliardi di euro, pari al 96,5 per cento del Pil (fine 2014). Questi debiti sono tutti denominati nella stessa valuta, ma sono emessi da paesi la cui credibilità sui mercati è assai diversa, passando da quella della Germania, che può permettersi tassi di interesse negativi (chi compra i bund tedeschi accetta di perdere soldi in cambio della sicurezza), fino alla Grecia che è di fatto fuori dal mercato dei capitali e si finanzia solo attraverso gli accordi capestro con la Troika.

Certo, attraverso i piani di “aiuto” alla Grecia, le banche creditrici sono state messe al riparo, sia quelle estere che quelle greche, e il debito greco è stato quasi integralmente trasferito sulle spalle del Fmi, della Bce e del fondo “salvastati”. Ma il problema strutturale rimane: permettere ad Atene di rinegoziare, ossia di cancellare, una parte consistente del proprio debito, porrebbe immediatamente un punto di domanda non solo sulla Grecia, ma sul reale valore del debito pubblico di altri paesi quali Portogallo, Spagna, Italia, destabilizzando nuovamente la moneta unica.

Mario Draghi il riformista?

Per lo stesso motivo la Commissione europea, che si è arrogata il potere di verificare i bilanci dei singoli stati, si opporrà duramente a qualsiasi politica di riforme sociali in Grecia e sosterrà tutte le resistenze esterne ed interne alle misure più progressiste proposte da Tsipras. La grande borghesia vede chiaramente quello che Tsipras non vede (o finge di non vedere): non esiste possibilità di riforme sul piano nazionale se non vengono infranti i vincoli degli accordi capestro sottoscritti con la Troika. In nessun modo può passare in Europa il messaggio che per uscire dall’incubo dell’austerità è sufficiente votare a sinistra e rimettere in discussione gli accordi capestro.

L’altra speranza illusoria di Tsipras è di potersi appoggiare su quel settore della classe dominante che è più preoccupato per gli effetti recessivi dell’austerità e che si dimostra più sensibile all’idea di una svolta verso politiche espansive, appoggiandosi sulla Bce contro l’intransigenza tedesca.

Le speranze si appuntano quindi su Mario Draghi e sul direttorio della Bce che si riunirà pochi giorni prima delle elezioni greche e dal quale in molti si aspettano il miracolo della svolta espansiva: la Bce si mette a stampare moneta e ad acquistare titoli di Stato, con la speranza che un po’ di inflazione riduca il peso dei debiti. Si aggiungono le solite proposte di emettere buoni europei (eurobond), vuoi a sostituzione dei debiti pubblici nazionali, vuoi a sostegno di un programma di investimenti pubblici.

Purtroppo queste speranze sono largamente condivise dai dirigenti di Syriza. È ancora Tsipras a tirare per la giacchetta Draghi iscrivendolo d’ufficio nel fronte dei buoni europeisti riformisti contro gli ottusi tedeschi nazionalisti. “Di fronte al futuro europeo siamo oggi in grado di distinguere due strategie diametralmente opposte. Da una parte c’è il punto di vista del signor Schäuble, secondo il quale, indipendentemente dal fatto che le leggi e i principi concordati funzionino, dovremmo continuare ad applicarli. Dall’altra c’è la strategia del ‘costi quel che costi’
– espressione adoperata per la prima volta dal capo della Bce – per salvare l’euro. In realtà le imminenti elezioni greche rappresentano uno scontro fra queste due diverse strategie.”
Analoga la speranza di Yanis Varoufakis, economista che Tsipras candida alle elezioni precisamente con l’intento di schierarlo nella trattativa con la Troika, che scrive sul suo blog:
“I miei lettori conoscono i miei sforzi di produrre una proposta ragionevole e modesta per risolvere la crisi dell’euro. Ho infine compreso che tali proposte non hanno alcuna possibilità fino a quando non verranno poste sul tavolo all’Eurogruppo, all’Ecofin e ai vertici dell’Unione Europea.”

Come se il problema fosse solo di produrre proposte “ragionevoli”! Le politiche fin qui seguite hanno prodotto il massacro sociale non solo in Grecia, ma in tutta Europa, ma hanno anche beneficiato un settore ben preciso della società, ossia il capitale finanziario, i creditori. Nessuna “ragionevolezza” potrà mai convincere le banche dell’utilità di deprezzare gran parte dei loro impieghi; possono accettarlo solo di fronte al rischio di una catastrofe generale, ossia quando perdere qualcosa, anche molto, è l’unica alternativa di fronte al perdere tutto.
Anche in quel caso, faranno in modo di scaricare sulle spalle del pubblico gran parte delle loro perdite e soprattutto lo accetteranno dopo avere ridotto il debitore insolvente ad uno stato di totale deprivazione, così da togliere qualsiasi tentazione di seguire il suo esempio.

È per questo motivo che sulla stampa tedesca si torna a parlare di uscita della Grecia dall’euro. Il settimanale Der Spiegel attribuisce questa tesi a fonti non precisate del governo di Berlino, e poco importano le successive smentite di rito. Il messaggio è chiarissimo: o i greci continuano a pagare, o li buttiamo a mare.

Le elezioni del 25 gennaio segneranno da questo punto di vista un passaggio decisivo. Non passeranno anni, ma pochi mesi o addirittura settimane, perché Tsipras si trovi di fronte al bivio: o piegarsi, o sollevare e mobilitare i lavoratori greci ed europei non per la ricerca di un utopico compromesso, ma per una lotta senza quartiere contro questo sistema economico e le sue istituzioni, nazionali ed europee.

21 Gennaio 2015


dal sito FalceMartello



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