Diari di Cineclub

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martedì 27 marzo 2012

I RICATTI DI MONTI di Antonio Moscato




I RICATTI DI MONTI
di Antonio Moscato

Monti minaccia sempre più frequentemente il parlamento e i partiti fantasma che lo compongono. Minaccia di andarsene, ma in realtà fa capire che se fosse messo in minoranza non esiterebbe a ricorrere alle urne in un momento in cui i partiti sono particolarmente screditati. Lo fa soprattutto nei confronti del PD, che ha avuto qualche piccolo sussulto di dignità dopo essere stato a lungo bastonato e ricattato, e che potrebbe facilmente spaccarsi, avendo all’interno del suo gruppo dirigente non pochi esponenti decisamente favorevoli al governo delle banche e dei capitalisti, e praticamente nessuno schierato davvero dalla parte dei lavoratori (quelli che appaiono tali, come i Fassina o i Damiano, sono in realtà solo preoccupati che tirando troppo la corda Monti provochi reazioni incontrollabili da parte dei lavoratori).

Ma dobbiamo domandarci perché Monti porta avanti con tanta decisione un programma di attacco alle poche residue conquiste fatte dai lavoratori negli anni Sessanta e Settanta e smantellate poi sistematicamente, con la valida collaborazione di CISL, UIL e CGIL: a mio parere semplicemente perché è un uomo del grande capitale, e quindi sbilanciato logicamente verso la destra di Alfano, Casini, Fini; non a caso ostenta perfino buoni rapporti con Berlusconi: era infastidito solo dalle sue imprudenze e ostentazioni di frequentazioni col malaffare, perché ne indebolivano la politica.

Riprendo un volantino dello SLAI Cobas dell’Alfa, che ricorda le responsabilità precedenti di Monti come dirigente FIAT. Avevo già utilizzato questo materiale, indubbiamente utile, ma lo avevo fatto solo parzialmente, perché rimango sempre perplesso verso tutte le teorie sui misteriosi centri di manovre occulte, come Trilateral, Bilderberg o il think tank Brueguel, che vengono riprese nella parte conclusiva del volantino. Ero stato sempre scettico anche sulla stessa P2, che è stata utilizzata per "criminalizzare" come manovra di pochi delinquenti occulti quella che era invece una tendenza generalizzata verso soluzioni sempre più autoritarie, tendenza presente in tutto il capitalismo di questi tempi incerti, in Europa e nel mondo. Licio Gelli non era un "deus ex machina", era un furbetto che aveva fiutato l’aria e utilizzando le idee che circolavano da tempo (basta ricordare la "Nuova repubblica" di Pacciardi, per un certo tempo appoggiata da Pannella), aveva costruito una sua area di influenza, piena anche di gonzi che cercavano una scorciatoia per far carriera...

Per queste ragioni, di Monti, di Passera, e di buona parte dei suoi ministri (salvo i tre o quattro inseriti come decorazione “umanitaria” di un governo pessimo), mi basta ricostruire i loro legami con la grande industria e i suoi crimini, anche finanziari. A partire da Tangentopoli, dallo smantellamento programmato dell’Alfa Romeo e di gran parte della FIAT, dalla corruzione di un numero straordinariamente alto di politici asserviti, e di giornalisti senza vergogna (ad esempio, per usare una notizia fresca fresca, mi piacerebbe sapere da dove venivano i due milioni e mezzo di euro in contanti che Emilio Fede voleva depositare in Svizzera e che quel paese ha respinto per insolita prudenza...).
Perché dovremmo cercare le “prove” sul club Binderberg (che, tanto più se esiste così come viene descritto, saranno state accuratamente occultate) quando sui precedenti di questa "nuova classe politica" è già disponibile una documentazione enorme, giudiziaria e anche seriamente giornalistica, raccolta in molti ponderosi volumi?

Basterebbe far circolare sistematicamente questi materiali, in un formato agile e quindi facilmente leggibile, per smontare il culto di Monti “uomo probo e integerrimo” che è stato costruito dalla quasi totalità dei media, con la regia di Giorgio Napolitano, anche lui spacciato come uomo “al di sopra delle parti”, mentre è stato da decenni il fautore della cancellazione dell’identità della sinistra e della costruzione di quella “coesione nazionale” che ha permesso all’1% di governare sul 99%. Quindi l’uomo di una parte sola, quella che ha provocato l’indebitamento folle e la crisi attuale.

Cominciare a far questo, quotidianamente, è già il primo passo per costruire unilateralmente un audit (un’indagine, potremmo tradurre) cittadino e popolare, che spieghi l’origine illecita e disonesta delle enormi ricchezze accumulate da pochi, e prepari quindi le condizioni per non pagare il debito contratto da altri, e per rifiutare in blocco l’amarissima e dannosa medicina che ci stanno propinando, con la scusa di non finire come la Grecia, e che è identica a quella somministrata ai greci.

27 marzo 2012

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                                    SLAI COBAS


Mario Monti: dirigente FIAT dal 1979 al 1993.
NON SA NULLA DELLE TANGENTI DATE A CRAXI ?

Dopo il regalo dell'Alfa Romeo, la FIAT prese precisi impegni con lo Stato su Arese e Pomigliano: perché Monti non li fece rispettare?
Nessuno ne parla ma il bocconiano Mario Monti non è solo l'uomo delle banche e della finanza (prima COMIT e Generali e poi Goldman Sachs), ma è stato innanzitutto un “UOMO FIAT”. Monti ha fatto parte dei CdA della FIAT dall'età di 36 anni (1979) all'età di 50 anni (1993); dopodiché, dal '94 al 2004, è stato Commissario UE.
E alla FIAT non era un comprimario ma comandava:

· CdA Gilardini (FIAT) dal 1979 al 1983;

· CdA FIDIS (FIAT) dal 1982 al 1988;

· Cda e comitato esecutivo FIAT dal 1988 al 1993;

oltre a Mario Monti, facevano parte del comitato esecutivo FIAT Gianni e Umberto Agnelli, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens.
Dal 1° gennaio 1987 la FIAT ha avuto in regalo l'Alfa Romeo dall'IRI (Prodi) e dallo Stato (Craxi, Andreotti, Amato, Darida, ecc..) impegnandosi per iscritto con il CIPI a mantenere i 40.000 lavoratori di Arese e Pomigliano e a pagare quattro soldi allo Stato con 5 comode rate annuali a partire dal 1993. Ma nel novembre 1993 riduce a 4.000 (e poi a zero) i lavoratori di Arese e così poi con Pomigliano. E mentre la FIAT ridimensiona e poi chiude l'Alfa, riceve 1.000 miliardi dallo Stato solo per costruire gratis lo stabilimento di Melfi. E in questi anni la FIAT, mentre si sbarazzava di 40.000 operai Alfa Romeo, ha ricevuto “aiuti” di Stato di 2mila miliardi di lire per Arese e altrettanti per Pomigliano.

TUTTO CIO' E' AVVENUTO GRAZIE ALLE TANGENTI PAGATE DALLA FIAT AI POLITICI.
E TUTTO CIO' E' AVVENUTO MENTRE MARIO MONTI ERA A CAPO DELLA FINANZA FIAT (FIDIS) ED ERA UNO DEI 5 MEMBRI DEL COMITATO ESECUTIVO DI TUTTA LA FIAT.

Per le tangenti FIAT il 9 aprile 1997 il Tribunale di Torino ha condannato Romiti e Mattioli a oltre un anno di carcere, con sentenza confermata in Cassazione nel 2000 ma cassata qualche anno dopo con la legge di Berlusconi che ha depenalizzato il falso in bilancio. I 150 operai dello Slai Cobas che si costituirono parte civile nel processo di Torino furono comunque poi risarciti con 1milione e 600mila lire a testa.

"Una gran brutta notizia". E' questo il commento dell'amministratore delegato dell'Ambroveneto, Corrado Passera, alla notizia della sentenza di Torino (La Repubblica, 10 aprile 1997).
Ma la tangentopoli FIAT è solo di Romiti? Ma non scherziamo!

Soldi avvolti in carta da giornale "I pacchi di denaro arrivavano avvolti in carta da giornale accuratamente sigillati con nastro adesivo. Dal sesto piano di Corso Marconi, quartier generale della Fiat, le banconote - mezzo miliardo a pacco - venivano quindi portate al quinto piano, nell'ufficio della Signora Maria Nicola, addetta contabile e soprattutto segretaria di fiducia dell'Amministratore delegato C. Romiti. La funzionaria, impiegata presso la cassa centrale della Fiat S.p.A., ora in pensione, provvedeva poi a dividere il denaro in piccole mazzette" (La Repubblica 15.6.95).

"Sulla conoscenza da parte di Mario MONTI delle tangenti FIAT rimane perlomeno un ragionevole dubbio": Lo si può leggere a pag.627 di MANI PULITE “ LA VERA STORIA (di Barbacetto, Gomez, Travaglio)

Poteva il presidente onorario della FIAT, il senatore a vita Giovanni AGNELLI, non sapere nulla dei fondi neri e delle tangenti del suo gruppo? La Procura di Torino si è posta più volte questa domanda, ma non ha ricevuto alcuna notizia di reato né alcuna risposta utile dalle centinaia di testimoni e imputati interrogati (Pomicino avrebbe voluto parlarne fuori verbale ma, quando i pm torinesi gli hanno spiegato che non si può, si è avvalso della facoltà di non rispondere; Craxi ha giurato che di vil denaro si occupava Romiti, mentre l'Avvocato si limitava all'alta strategia). Così la Procura non ha potuto indagarlo.
Senonché il gup Saluzzo, nella sentenza che condanna Romiti e Mattioli, la invita esplicitamente ad aprire un'inchiesta sull'intero Comitato Esecutivo degli anni delle tangenti, e cioè su Giovanni e Umberto Agnelli, Gianluigi Gabetti, Franzo Grande Stevens e Mario Monti. I cinque vengono dunque inquisiti per falso in bilancio nel maggio 1998. Ma ogni tentativo di approfondire il loro eventuale ruolo nel sistema illecito si infrange dietro i "non so" e le negazioni di chi potrebbe inguaiarli. Così alla Procura non rimane che chiedere l'archiviazione, in quanto "non esistono sufficienti elementi di prova a carico dei membri del Comitato Esecutivo"...
Il 1° settembre 1998 il gip Paola De Maria archivia dunque il fascicolo sull'Avvocato e gli altri quattro, scrivendo che è "storicamente provato che Giovanni Agnelli avesse mentito agli azionisti nel negare" le tangenti FIAT, ma non è provato che le conoscesse. Anche se sulla conoscenza sua e degli altri quattro rimane perlomeno un "ragionevole dubbio".

Romiti, secondo i magistrati di Torino, in soli 10 anni avrebbe accantonato fondi neri per almeno 1.000 miliardi!

"Centododici miliardi di lire falsamente dichiarati per un solo bilancio: quello del 1991. Le riserve occulte tuttavia risalirebbero "a far data dagli esercizi precedenti ad almeno il 1984". E fra queste disponibilità vi sarebbero pure i "versamenti per almeno 4 miliardi di lire nella primavera ‘92 destinati al PSI" ("La Repubblica" del 13/12/95).

Questa tangente di 4 miliardi di lire fu versata con assegno da Romiti a Craxi il 20 marzo 1992. La fotocopia di questo assegno fu recapitata da Craxi (già allora ad Hammamet) allo Slai Cobas Alfa Romeo tramite l'avvocato Lo Giudice. Lo Slai Cobas consegnò la copia dell'assegno alla Procura di Torino.

Dato che Mario Monti è anche:

1. "Presidente europeo della commissione Trilaterale e presidente onorario di Brueguel, il think tank che lui stesso ha fondato nel 2005" (Libero, 15-11-2011);

2. "L’Italia sarà il primo Paese al mondo ad avere un capo del governo che fa parte allo stesso tempo del comitato esecutivo della Trilateral e del Bilderberg group, considerati come due superlobby globali più influenti di stretta osservanza liberista"(Il fatto Quotidiano);

3. Mario Monti fa anche parte dell'ASPEN Institute, abbondantemente foraggiato con centinaia di milioni di lire al colpo con i fondi neri tangentizi FIAT, come comprovato dal processo Romiti a Torino, lo SLAI COBAS chiede a Mario Monti di chiarire la sua posizione sulla FIAT e sulle Tangenti FIAT prima di dare altri soldi a sbafo a Marchionne e alla FIAT per licenziare e portare gli stabilimenti e i soldi all'estero.

Arese-Pomigliano, 13 dicembre 2011

Slai Cobas  www.slaicobas.it

dal sito  http://antoniomoscato.altervista.org/index.php

lunedì 26 marzo 2012

DEMOCRITO: UN LIBERTARIO NON MATERIALISTA di Carlo Felici



DEMOCRITO: UN LIBERTARIO NON MATERIALISTA
di Carlo Felici



Spesso accade di leggere nei manuali di filosofia alcune grossolane semplificazioni, come il fatto che Democrito fu un materialista. Non mi pare tuttavia che Democrito possa essere definito tale. E' questo anche un modo per capire come sia destinato al tramonto lo iato tra spiritualismo e materialismo, erroneamente individuato con la nascita delle teorie atomistiche di Democrito, il quale non fece altro che polverizzare lo sfero parmenideo per ottenere lo stesso effetto eterno ed infinito con gli atomi.
Come spiega bene Geymonat: "Democrito non è affatto partito dal sensibile per giungere all'atomo, ma al contrario è partito dall'atomo (ammesso in base ad una postulazione della ragione) per rendere conto del sensibile" e dunque la lettura Aristotelica che accusa l'atomismo di "ridurre tutta la realtà al sensibile" è infondata.

Democrito scrive esplicitamente che noi percepiamo aggregati di atomi non singoli atomi.
Il non essere parmenideo in Democrito semplicemente diventa lo spazio non più interpretato come negazione metafisica di ogni essere, ma come "mancanza di atomi".
Se dunque approfondiamo almeno un pochino, ci rendiamo conto che c'è di più dei cosiddetti "manuali di filosofia"e delle loro definizioni restrittive.

Parmenide e Democrito infatti sono meno agli antipodi di quanto ci abbiano raccontato, l'atomismo infatti può essere considerato proprio come uno dei più efficaci tentativi di risolvere le gravissime difficoltà già mostrate da Anassagora e Zenone nel concetto di infinita divisibilità delle grandezze geometriche.
Per risolvere tali difficoltà Democrito, a torto inserito tra i presocratici nei manuali, mentre, essendo vissuto quasi un secolo, è contemporaneo di Socrate, introduce la distinzione tra il suddividere matematico e il suddividere fisico. Il primo che non trova rispondenza nella realtà, è a suo avviso proseguibile all' infinito e si usa per determinare aree e volumi di figure geometriche, il secondo invece è condizionato dalla natura di quel che si vuol suddividere e non è proseguibile oltre un certo limite.
Così la suddivisione fisica si può fare finché si tratta di dividere corpi composti, non si può fare invece quando si tratta di esseri semplici, a cui si arriva prima con il lògos che con l'esperienza.
Ecco dunque affiorare l'ipotesi che esistano in realtà degli esseri semplici che attuano, ciascuno in se stesso, alcuni caratteri fondamentali dell'essere parmenideo: gli atomi, intrasformabili, indivisibili, impenetrabili. Se dividere un corpo può voler dire separare gli atomi, non possiamo in ogni caso dividere gli atomi.

Sia Parmenide che Democrito procedono quindi con il logos verso il medesimo intento di “semplificazione” anche se gli esiti possono apparire diversi e persino opposti.
Per Democrito l'atomo è indivisibile, non è dunque pensabile che possa essere ulteriormente diviso.
Democrito descrive gli atomi con le stesse caratteristiche dell'essere parmenideo: afferma che essi sono pieni, immutabili, ingenerati ed eterni.
Comunque, a proposito di materialismo e spiritualismo antichi, abbiamo una bella definizione di uno dei massimi studiosi di filosofia antica, purtroppo scomparso ma che resta uno dei migliori che l'Italia e il mondo abbiano mai avuto:

"Tuttavia bisogna fare attenzione quando si adoperano queste categorie. Nel Sofista Platone presenta un grande contrasto tra due visioni del mondo: una è quella materialistica e l'altra è quella che egli attribuisce agli "amici delle idee". Nel descrivere la concezione materialistica Platone dice che essa è propria di uomini che credono solo in quello che toccano, quindi il materialismo è fondato su una conoscenza di tipo sensibile: quello che non si tocca, quello che non si vede, quello che non si odora, non esiste. Ora, se noi dovessimo applicare questo criterio anche a Democrito, ci accorgeremmo che gli atomi di Democrito non si toccano, non si vedono, non si odorano e quindi essi non sono o non dovrebbero essere materiali. Potremmo dire che gli atomi di Democrito non si vedono, non si toccano e non si odorano allo stesso modo che non si vedono, non si toccano e non si odorano le idee di Platone; e come Platone ritiene reali, anzi, veramente reali le idee, ugualmente Democrito ritiene reali, anzi, veramente reali gli atomi. Da questo punto di vista, contrapporre la filosofia di Democrito alla filosofia di Platone come materialismo e idealismo è al di fuori del quadro storico del V e IV secolo a. C.; tanto peggio, poi, se addirittura si sostiene che la filosofia di Democrito è superiore a quella di Platone perché materialista o se si dice che quella di Platone è superiore a quella di Democrito perché è idealista."
(Gabriele Giannantoni)

Siamo troppo legati a vecchie concezioni ed Aristotele, in particolare, ha condizionato enormemente la visuale della filosofia e della fisica ma non sempre in maniera corretta.
Nel Frammento 198 si parla addirittura di idee indivisibili, "forme atomiche"
Plut. Adv.Colot.8p110F -Che cosa sostiene Democrito? Tutto l'universo sono le idee indivisibili "atomous ideas" (le forme) Per Democrito tutte le realtà sono costituite dalle cosiddette "forme atomiche"-
E ancora: -Secondo Democrito l'anima è una mescolanza di idee aventi forma sferica "sphairikàsechònton tas idéas"-

Per osservare come le tesi di Giannantoni abbiano valore, basta considerare le recenti conferme date dagli studi sulla fisica contemporanea, per la quale i confini tra spirito e materia sono molto sfumati L’ultimo mezzo secolo della fisica ha infatti sconvolto la tradizionale contrapposizione esistente tra il soggetto osservatore e l’oggetto osservato sfumando i tranquillizzanti e positivistici confini tra lo spirito e la materia, lo spazio e il tempo, la vita e la morte, la causa e l’effetto.
Il fisico quanto più profondamente è penetrato nei regni delle dimensioni subatomiche e supergalattiche, tanto più intensamente è diventato consapevole che la loro struttura è paradossale e sfida il senso comune. Il mondo del fisico, basato sulla teoria della relatività e sulla teoria dei quanti è in effetti un mondo dell’impossibile.

Heisenberg sostiene che gli atomi non sono cose. Quando si scende a livello atomico, il mondo oggettivo non esiste più nel tempo e nello spazio e i simboli matematici della fisica teorica si riferiscono semplicemente a un mondo di possibilità e non di fatti.
Suo è il Principio di Indeterminazione: se si osserva la velocità dell’elettrone è la sua posizione a diventar confusa e viceversa. Ciò per l’impossibilità di rendere conto contemporaneamente della natura ondulatoria e corpuscolare con cui si evidenziano le particelle subatomiche a seconda del modello descrittivo adottato.

Koestler osserva che la fisica moderna sembra obbedire a una delle leggi che il Signore aveva ordinato a Mosè: "Non vi farete immagini scolpite" né di divinità né di protoni.

"L’assenza nel neutrino di proprietà fisiche grezze , e le sue caratteristiche quasi eteree, incoraggiano le ipotesi sulla possibile esistenza di altre particelle che fornirebbero il legame che ci manca tra la materia e la mente" (Koestler).

E’ di Eddington nel 1928 questa affermazione: "la sostanza del mondo è la sostanza della mente".
A questo proposito l’astronomo Firsotff ipotizza addirittura l’esistenza di particelle elementari della sostanza della mente: i "mentoni".
Tra l'altro, è bene evitare di confondere ambiti molto differenziati come meccanicismo e materialismo, appartenenti ad epoche molto lontane e diverse, il meccanicismo trova una sua prima definizione con La Place nel 1796, il materialismo trova una sua definizione autonoma non tanto con Platone ma con Cartesio, il quale scinde nettamente la res cogitans da quelle extensa.

Il determinismo infine è un concetto indissolubilmente legato al libero arbitrio e quindi, per quanto remota possa essere la sua origine non può arrivare a prima dei pensatori cristiani e arabi e in particolare sul piano filosofico a prima dell'anno mille (Omar Khayyam) Va rimarcato inoltre che il giudizio di Dante su Democrito (che 'l mondo a caso pone) non sembra rispondere alla reale concezione del filosofo di Abdera.
Secondo Democrito, infatti, il movimento degli atomi è vorticoso, ed è unico; si tratterebbe quindi di un unico grande vortice cosmico al centro del quale si sarebbero raccolti gli atomi più grossi e la loro unione avrebbe originato la terra, mentre agli estremi si sarebbero raccolti gli atomi più leggeri, i quali avrebbero formato gli astri, infiammati dal movimento.
Dandosi tale continuità in un unico movimento, non è dunque possibile che qualcosa avvenga per caso, ma solo che noi pensiamo che sia avvenuto per caso, perché ignoriamo la necessità.
Altrimenti, il ragionamento di Democrito risulterebbe contraddittorio. Nella filosofia greca tutti questi concetti che come etichette noi appiccichiamo secondo le nostre tendenze e gusti o preferenze discriminanti ai vari filosofi, risultano vani ed incomprensibili.

Se spostiamo la questione dall'ambito ontologico a quello gnoseologico certo le differenze possono apparire più rilevanti. Però, anche considerando l'aspetto gnoseologico, bisogna pur rilevare che secondo Democrito gli oggetti che noi percepiamo ci appaiono caldi o freddi, amari o dolci, ma queste qualità appartengono alla sfera di quello che la cultura del v secolo a.C. raggruppava sotto la categoria del nòmos, ossia di ciò che è variabile, convenzionale, instabile, contrapposto al piano stabile e immutevole della natura. La vera conoscenza è quella che consente di accedere al piano nascosto che sfugge ai sensi. Qui essa trova i costituenti di tutte le cose: gli atomi (atoma somata) e il vuoto (to kenon).
Inoltre va ricordato anche un altro aspetto, anche ammesso e non concesso che si possa parlare di determinismo fisico in Democrito, esso tuttavia non investe affatto la sfera delle decisioni umane.
Postulando che siamo in grado di scegliere tra il bene ed il male, si riconosce la libertà umana.
Democrito muove tuttavia da una profonda distinzione tra felicità e piacere, e sottolinea che la felicità non consiste nelle ricchezze, e nemmeno nello stesso piacere, ma nella eutymia, ovvero la serenità spirituale.
E questa si perde se si inseguono i piaceri, perché l'eccesso di piaceri provoca turbamenti dell'anima e squilibrii. Sul piano morale egli predica innanzitutto il rispetto di sé stesso. Non si deve agire correttamente solo per evitare di violare le leggi: si deve agire per incrementare correttamente la propria integrità e serenità.

Nel frammento 264 egli afferma: "Non devi aver rispetto per gli altri uomini più che per te stesso, né agir male quando nessuno lo sappia più che quando lo sappiano, ma devi avere per te stesso il massimo rispetto e imporre alla tua anima questa legge: non fare ciò che non si deve fare."
Vi è in ciò il riconoscimento di una necessità, quella dell'uguaglianza degli uomini nell'opportunità di essere degni di tale serenità interiore. Democrito fu infatti anche tra i primi a predicare l'uguaglianza tra tutti gli uomini, sostenendo che ogni terra ed ogni città possono essere patria dell'uomo, arrivando ad una visione cosmopolitica. Si schierò per la democrazia contro l'oligarchia, asserendo che "è meglio vivere liberi e poveri in democrazia, che ricchi ma non liberi in una oligarchia."

Prendiamo la concezione dello Stato, non tutti conoscono la posizione in merito di Democrito, nota attraverso un suo frammento tramandatoci da Stobeo. Il frammento è il 252 e vi si legge: «È necessario porre l’interesse dello Stato al di sopra di tutti gli altri, perché lo Stato sia governato bene, e non cercare continui pretesti per andare contro l’equità né permettersi di tentare sopraffazioni contro il bene comune. Perché uno Stato ben governato è la più grande fortuna, e quando vi è questo vi è tutto, e se questo è salvo tutto è salvo e se questo perisce tutto perisce».
Da questo testo risalente al V secolo a.C si ricava la lucida consapevolezza che Democrito ha maturato non solo della centralità dello Stato nella vita associata ma anche dell’esigenza che esso sia ben amministrato.

Solo in questo modo potrà rappresentare il bene comune contro i tentativi dei singoli di attentare all’equità per difendere interessi particolari. Tò chrestòn tò toû xunoû, il bene comune, è proprio l’interesse generale, l’utile della comunità, ciò che risponde ai bisogni di tutti i cittadini e non a quelli di una parte di essi.

Spesso è più ciò che unisce di ciò che divide...a ben vedere.

Aggiungiamo a queste brevi note le considerazioni di Severino nel merito specifico: "
D'altra parte, l'atomismo tien fermo il principio parmenideo che l'esistenza del molteplice implica l'esistenza del non essere….dal punto di vista della verità, l'essere è quindi estensione piena (ossia l'essere è ciò che rende piena l'estensione), il "non essere" è estensione vuota. Gli aspetti qualitativi sono quindi estensione illusoria, cioè mantengono il carattere che Parmenide aveva assegnato alla totalità dei fenomeni" Severino "Filosofia" pag. 96-97

E quindi ecco una conferma che non vi è divisione netta tra Parmenide e Democrito.

Severino nel suo libro "Filosofia", che alcuni usano anche come manuale, sebbene sia a mio avviso adatto ad un pubblico di lettori già al corrente dei contenuti dei manuali, scrive: "Gli atomi sono l'essere, e quindi ogni atomo possiede le proprietà dell'essere, quali sono state rilevate da Parmenide: è un'unità indivisibile, ingenerabile, incorruttibile, eterna, non percepibile dai sensi ma dalla ragione..." (Filosofia pag. 97)

Bisogna quindi essere, a mio parere, molto prudenti nell'accostare gli antichi filosofi a coloro che li seguirono anche traendone ispirazione per lo sviluppo del loro pensiero, e specialmente con quelli che hanno fatto del materialismo la loro bandiera.


25 febbraio 2012

dal sito  http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/





giovedì 22 marzo 2012

PERCHE' HO VOTATO CONTRO AL DIRETTIVO DELLA CGIL di Giorgio Cremaschi






Il direttivo nazionale della Cgil non si è concluso all'unanimità e questo non certo sulla scelta di decidere 16 ore di sciopero e di costruire il massimo della mobilitazione per fermare Monti e il suo disastro, non solo sull'articolo 18. Su questo, almeno da parte nostra, non ci sono dissensi e incertezze.

Il punto vero su cui si è a lungo discusso riguarda la posizione concreta che la Cgil assume sull'articolo 18 e un po' su tutto il resto. Nel corso della discussione, e ancor più nelle conclusioni del segretario generale è emersa con chiarezza la seguente posizione. Oramai il danno è terribile, questo governo va avanti come un treno con i consensi, anche istituzionali che ha. Il governo Monti è sostanzialmente contro di noi, ma per combatterlo dobbiamo costruire alleanze e proposte tali da metterlo in difficoltà. Per questo sull'articolo 18 non si può mantenere la posizione sinora assunta dagli organismi - quell'articolo non si tocca -, ma bisogna essere disponibili a delle mediazioni che salvino la sostanza. Per queste ragioni il direttivo ha respinto a maggioranza, 73 contro 30, un emendamento al documento finale presentato da Nicola Nicolosi e Maurizio Landini e votato anche dai segretari generali della conoscenza e della funzione pubblica che, in maniera semplice e chiara chiedeva di confermare la posizione sull'intangibilità dell'articolo 18. Il fatto che questo emendamento sia stato respinto a favore di un testo apparentemente simile, ma in realtà aperto a diverse interpretazioni, chiarisce che la segreteria della confederazione vuole un mandato per limitare i danni. Questa posizione non poteva essere condivisa da chi ritiene che la battaglia sull'articolo 18 sia una battaglia di principio di fondo e non un elemento contrattualizzabile.

Per queste ragioni nel voto finale ai 95 sì, compresi Nicolosi e Pantaleo, si sono contrapposte 13 astensioni, tra cui quelle di Landini e Rinaldini, e con 2 voti contrari, il mio e quello di Fabrizio Burattini.

Quella del direttivo è stata dunque una discussione vera, che riguarda un'organizzazione che rischia moltissimo in questo momento, come rischiano drammaticamente e ancor di più i lavoratori. Non credo che il governo sia disponibile a mediazioni sull'articolo 18. Quello che ha deciso di fare è scritto nella lettera del 5 agosto della Banca centrale europea, ed è per questo che appaiono un po' ridicoli scandali e improvvise sorprese. Lo scalpo dell'articolo 18 va portato sull'altare delle banche, delle finanze, dello spread. Poco importa se questo ha o non ha un senso dal punto di vista economico. Tante cose fatte in Grecia, in Spagna o in Portogallo non lo hanno nella loro ferocia, eppure sono state fatte lo stesso, perché il governo finanziario dell'Europa non capisce e non è in grado di produrre un'altra politica economica. Per questo la politica della riduzione del danno, ancora una volta praticata dal gruppo dirigente della Cgil, rischia di essere non solo sbagliata nei contenuti - alla fine si accettano danni comunque irreparabili -, ma anche inefficace. Il governo ha scelto una linea di rottura da destra della concertazione. Non è sperando che essa torni che si risolvono i problemi e si affrontano gli avversari, ma ricostruendo un vero conflitto con piattaforme dai contenuti in grado di incidere realmente sugli interessi in campo. Quindi la lotta deve essere per il diritto al lavoro e ai diritti del lavoro, per il reddito, contro le banche e le grandi ricchezze, per un cambiamento profondo del modello economico e sociale. La lotta deve essere su obiettivi incompatibili con le scelte dell'attuale governo, obiettivi che a questo punto appaiono sempre di più gli unici realistici, visto che gli altri, quelli pragmatici e riformisti, sono umiliati e sbeffeggiati. Questo è l'errore della maggioranza della Cgil. Aver perseguito una politica di compromesso e accordo con il governo, con le forze politiche, con Cisl e Uil, non aver ottenuto alcun risultato, eppure continuare a perseguirla come se nulla fosse avvenuto. Alla fine sull'articolo 18 si sta profilando lo stesso disastro delle pensioni.

Per questo il nostro no è tanto netto quanto siamo convinti che le lotte siano necessarie e che dovranno servire per affermare una posizione diversa. Cioè un'alternativa profonda alle politiche economiche e alle scelte antisociali di questo governo. Per questo la manifestazione del 31 marzo a Milano, prima vera manifestazione nazionale dichiaratamente contro Monti, può incidere profondamente nel percorso di tutte le lotte e dei loro obiettivi.

22 marzo 2012

LE IDI DI MARZO




È una cosa veramente molto naturale e consueta desiderare di
accrescere il proprio potere; e sempre, quando gli uomini che
possono farlo lo fanno, saranno lodati e non biasimati

(Il Principe di Niccolò Machiavelli)



In un rapporto finanziario della Morgan Stanley appare quasi come una nota la notiziola secondo la quale l’Italia avrebbe pagato dai 3 ai 4 miliardi di dollari per liquidare derivati contrattati nel 1994. Una somma che equivale al 50% della tassazione imposta agli italiani dal tanto venerato governo Monti ed effettivamente prelevata per soddisfare tale pagamento.
Occorre poi precisare che il Dott. Mario Draghi, attuale presidente della BCE, a quel tempo, quando vennero contrattati tali derivati, era Direttore Generale al Tesoro.
Ma la notizia bomba riportata da Bloomberg è che Mario Rossi Doria, attuale sottosegretario del ministro Monti, obbligato a rispondere ad una interrogazione parlamentare, ha dovuto ammettere che il Tesoro ha una esposizione “nozionale” pari a 211 miliardi di dollari in CDS (Credit Default Swap) che corrisponderebbe all’11% del PIL del paese dei campanelli.
Ora il rapporto debito PIL dell’Italia si aggira attorno al 144,3%. Tenendo conto del debito determinato dai collaterali, i livelli di indebitamento dell’intera eurozona è sicuramente molto più grave di quanto viene pubblicizzato cosa che dovrebbe allarmare ulteriormente i lavoratori del continente sul futuro che li aspetta.
Dopo le varie “riforme” sottoscritte da un sistema politico italiano ormai castrato da ogni possibile espressione di virilità, non ultima la cancellazione dell’articolo 18 operato da una quota rosa imposta da certo femminismo istituzionale, il governo del Principe dovrà proseguire ulteriormente nel prelievo sul salario per continuare a mantenere in vita un sistema finanziario nel quale la speculazione sta presentando il conto ed i contratti spaventosi stabiliti nell’epoca in cui dominavano i maiali, pronti a divorare anche la merda, verranno soddisfatti da lavoratori che nel frattempo sono stati allegramente dissanguati ma pronti a plaudire un Principe ed una corte la cui flemmatica strafottenza farebbe incazzare anche il poverello di Assisi.
Vorrei inoltre informare i professori di economia e gli osservatori di ogni risma che il Dott. Mario Draghi, dopo il regalo di Natale di 503 miliardi, ha garantito, nella sorpresa dell’uovo di Pasqua, un ulteriore prestito di 530 miliardi di euro, a tasso agevolato, alle Banche Europee che ancora una volta si sono premurate di mantenere congelati presso la BCE in attesa di investimenti più fruttuosi mentre i coglioni di casa nostra continuano a fare appello perché sia ristabilito il credito alle imprese ed alle famiglie. La “paccata di soldi” della piagnucolosa ora sorridente Foriero, necessari per la “riforma” del mercato del lavoro, sarà ancora una volta garantita dagli stessi lavoratori leccaculo alla Bonanni e Angeletti con la povera Fiom che deve trastullarsi gli incazzati.

Nel frattempo i lavoratori della CGIL scenderanno in piazza quando ormai i giochi sono stati fatti, una manifestazione di facciata che servirà a consolare le anime belle.

mercoledì 21 marzo 2012

LA CGIL NELLA TRAPPOLA di Antonio Moscato





LA CGIL NELLA TRAPPOLA
di Antonio Moscato


La CGIL è alle corde: può solo lamentarsi, ma è in trappola. Ha accettato la finzione di una “rappresentanza delle parti sociali”, che ha avuto la stessa funzione che aveva nella crisi del 1929 la Camera delle Corporazioni: i rappresentanti del padronato (che erano veri) chiedevano una riduzione dei salari del 30%, quelli dei lavoratori (che erano fasulli, o meglio erano direttamente al soldo del padronato) protestavano blandamente, e “rivendicavano” che il taglio fosse appena del 10%, poi il governo “mediava” e i salari venivano ridotti “solo” del 15 o 20 %.
La mancanza di coraggio nel difendere la condizione dei lavoratori di fronte al governo più aggressivo del dopoguerra si era già manifestata sul grave attacco alle pensioni: la CGIL si era comportata esattamente come le altre confederazioni, e aveva protestato, ma senza scioperare. Esattamente quello che fa ora …
La trappola era stata costruita con l’accordo del 28 giugno, con la foto di gruppo della Camusso mani nelle mani con Emma Marcegaglia e i suoi due scudieri Bonanni e Angeletti. Una volta smarrita perfino la memoria della ragione per cui i sindacati rappresentavano i lavoratori, e la Confindustria i padroni (pardon, oggi si dice i “datori di lavoro”, anche se il lavoro non lo danno ma lo tolgono…), diventa impossibile reagire nell’unico modo in cui un vero sindacato può farsi sentire: con lo sciopero generale prolungato fino a far cedere la controparte.
Diventa anzi difficile perfino spiegare all’opinione pubblica che la Confindustria ha semplicemente giocato a presentarsi un po’ insoddisfatta per ottenere di più, lamentando ad esempio che la “mobilità in uscita” (altro eufemismo per definire la libertà di licenziare senza limiti) non è così facile e automatica come aveva auspicato, o che ci sono costi “eccessivi” per le aziende (come il contributo dell’1,5% per un fondo per gli ammortizzatori sociali, davvero troppo per i poveri padroni). Un po’ come fanno le banche, che hanno un governo formato da loro esponenti, ma si lamentano se devono concedere un conto corrente gratis ai pensionati più poveri…
La Camusso è incapace di dire una cosa semplicissima: Confindustria e ABI rappresentano interessi contrapposti da sempre a quelli dei lavoratori… E non è un’attenuante che questa politica di collaborazione di classe, intervallata ogni tanto da finti scioperi generali, vere parate simboliche senza conseguenze, era cominciata ben prima che lei arrivasse alla massima carica di Corso Italia. Basti pensare alla eliminazione della scala mobile e l’inizio della distruzione del sistema pensionistico nel corso delle concertazioni degli anni Novanta, oltre al poderoso contributo dei vertici confederali allo smantellamento della forza operaia della FIAT nel 1980.
Non è un’attenuante neppure che la Camusso abbia dovuto barcamenarsi tra la pressione della FIOM e quella fortissima del ceto politico del PD, a cui l’apparato CGIL è ancora indissolubilmente intrecciato, e che aveva dietro di sé la spudorata ingerenza di Napolitano, pronto a dare un avallo in nome dell’interesse generale del paese, a ogni porcata del suo governo di “tecnici” specializzati nella cancellazione di ogni residua conquista dei lavoratori.
La pressione della FIOM pesava meno non solo per la sua dimensione rispetto al resto della confederazione, ma perché da tempo aveva cominciato ad ammorbidire la sua battaglia di opposizione in CGIL, anche per il peso, all’interno del suo gruppo dirigente, dell’influenza della SEL, che è agganciata a qualunque prezzo al carro elettorale del PD, e quindi ostile a ogni inasprimento della battaglia interna alla CGIL. È una catena di condizionamenti e di ricatti: se si cerca ad ogni costo un'alleanza elettorale col PD, bisogna ingozzare anche tutte le sue compromissioni col malaffare e col governo. Come ignorare che le dichiarazioni degli Ichino e dei Fioroni sull’art. 18 hanno contribuito notevolmente ad avallare le proposte della Fornero?
Va detto che la difficile battaglia della FIOM era sostenuta solo da qualche gemito dei dirigenti di alcune delle categorie martoriate e beffeggiate da questo governo, come la scuola e il pubblico impiego (non certo dallo SPI, l’enorme “sindacato” che raccoglie i pensionati ma li usa come massa inerte per contrastare ogni proposta di sinistra, gonfiando le cifre della maggioranza in ogni consultazione interna). Il problema è che negli organismi confederali pesa solo un apparato di sindacalisti a vita, che non conoscono altro mestiere che quello di burocrate, e non riescono neppure a immaginare un’alternativa all’esistente.
E allora? Se si vuole organizzare una resistenza all’attacco padronale, che non si fermerà certo alla vittoria quasi solo simbolica sull’art. 18 (che ogni anno veniva utilizzato solo da un piccolissimo numero di lavoratori, anche se aveva una funzione deterrente e obbligava almeno a motivare decentemente la “causa” del licenziamento, in modo di farla apparire "giusta" a un giudice), bisogna contrapporre all’unità con i burocrati filo padronali di CISL, UIL e UGL, e all’intesa interclassista con Confindustria, l’unità dei lavoratori, a partire da quelli che hanno lasciato da tempo le confederazioni e si sono organizzati in sindacati di classe, più piccoli, ma spesso ben rappresentativi in diverse situazioni. O che sono fuori da ogni sindacato, ma presenti in quella miriade di associazioni che avevano contribuito al successo sorprendente dei referendum sull’acqua (a partire dalla raccolta di firme).
Se ne è vista un’anticipazione nella preparazione della manifestazione del 9 marzo, e lo si è visto nelle iniziative contro il pagamento del debito e a sostegno dei No TAV (in cui, non a caso, la Camusso sta dall’altra parte). Ma occorre fare passi più sistematici in questa direzione, o sarà più facile isolare la FIOM riducendo la sua lotta a una battaglia di retroguardia, come quella dei soldati giapponesi che hanno continuato a resistere – senza speranza - nelle foreste per anni dopo la fine della guerra…

21/03/2012

dal sito   http://antoniomoscato.altervista.org/index.php





L'ANIMALISMO E' ANTICAPITALISMO di Marco Piracci





Non si può spezzare nessuna specie di servitù
senza spezzare ogni specie di servitù
Karl Marx

L'ANIMALISMO E' ANTICAPITALISMO
di Marco Piracci



Quale partito costruire nel XXI° secolo?


Non c’è alcun dubbio, la fase storica che stiamo vivendo segna il crollo di tradizioni consolidate che erano o sembravano dominanti. Si tratta di un disfacimento lungamente maturato che si muove lungo un percorso poco omogeneo. Abbiamo davanti vecchi e nuovi nemici dell'uomo: il sistema democratico globale dei paesi capitalistici, l'impero burocratico cinese e la Russia, finte istituzioni internazionali come l'O.N.U. che spargono morte e distruzione reprimendo ogni tentativo di autodeterminazione di popoli e comunità, cominciando guerre che non finiscono, devastando il pianeta e le sue risorse, rendendo incerto ogni aspetto della vita delle persone, dal cibo alla salute, fino ai diritti più elementari. Tutto ciò ci pone davanti a un bivio. O iniziamo a ripensare il senso e l'idea stessa di società e di umanità o ci accontentiamo di vivere nelle barbarie.
Come ha ben spiegato Giulio Girardi in "La violenza dei cristiani":

"Le masse si possono riconciliare con un sistema disumanizzato perché non sanno cosa sia essere uomo. Allora accettano di non esserlo".

Ma l'emotività umana ha bisogno di riscattarsi, di vedere ciò che si cela dietro le illusioni del sistema. Occorre dedicare molta attenzione alle problematiche inerenti la psicologia delle dinamiche sociali (come ha bene messo in evidenza il percorso della Scuola di Francoforte). Il risultato di una società spettacolarizzata è una realtà dominante che presenta come inevitabile l'oppressione e la sofferenza che ne consegue. Ciò che appare nel mondo sembra sovrastare gli uomini. Risulta spesso incomprensibile l'origine dello sfruttamento e delle tragedie quotidiane che ci affliggono, e ciò aumenta il rischio di rassegnazione e di adattamento.
E' la stessa oppressione che dichiarava inevitabile lo schiavismo, la subordinazione delle donne, la gerarchia delle etnie, etc.
Si tratta di guardare la società che ci circonda nei termini della possibilità, della trasformazione possibile. Una diversa umanità comincia dai tentativi di costruire realtà differenti.
Lottare contro il sistema oppressivo contemporaneo deve voler dire prima di tutto preservare la nostra umanità. Preservare cioè uno spazio che si sottragga alle logiche dell'individualismo e della meritocrazia, dalle quale origina poi l’oppressione capitalistica.


Le sinistre italiane


Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno
guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali

Theodor Adorno



Storicamente, le correnti di sinistra nascono per "portare avanti" gli interessi degli oppressi. Tradizionalmente le persone e le forze di sinistra si richiamano a questi interessi. I problemi sorgono (e dopo oltre due secoli di storia del movimento operaio mi sembra impossibile negarlo) quando si qualifica in quale modo si concepiscono questi interessi. Contrariamente alle convinzioni invalse per due secoli di discussioni, polemiche e scissioni, la questione non riguarda unicamente le strategie e le tattiche che devono venir adottate, ma i criteri stessi dell'identificazione tra le diverse tendenze e i loro referenti principali. E' un concetto che potrebbe apparire complesso ma che riveste un’ importanza profonda. Se nel '17 il problema per Lenin era quello della presa del potere, oggi il contesto socio-economico ci pone di fronte anche ad altri nuovi problemi. Ad esempio, durante la Rivoluzione Russa rivestiva un ruolo centrale la produzione di grano. Oggi quel grano è prodotto in eccesso. La lotta per l'aumento di produzione ha condotto l'umanità in un sistema economico nel quale oltre l'80% del prodotto è superfluo. Ed è interessante notare che anche in zone fortemente depauperate come molte regioni dell'Africa Centrale, si abbia una sovrapproduzione di beni alimentari. A tal proposito centrale è lo studio dei teorici della Teoria della decrescita (come Serge Latouche e Mauro Bonaiuti) che proprio questo principio mettono bene in luce (1).

Le prospettive di miglioramento che sono perseguite da parte delle varie formazioni, inserite negli schemi classici del socialismo non sono precisate in senso proprio. Non affondano le proprie radici sugli aspetti psicologici umani. Anzi, questi vengono dati per scontati, oppure vengono pensati e considerati in maniera del tutto generica. In altri termini, si considera il miglioramento come un fatto oggettivo legato unicamente alla sconfitta o al ridimensionamento degli oppressori, da raggiungere utilizzandone gli stessi mezzi. Non si pone invece al centro della riflessione chi sono, chi possono e vogliono essere le donne e gli uomini cui si rivolge, e di conseguenza che mondo vogliono costruire. Cercano cioè di muovere la gente su questioni esclusivamente contingenti piuttosto che recepirne i sentimenti e le ragioni più intime e provare ad indirizzarli complessivamente sulla via della trasformazione globale, attraverso la presa di coscienza. Si rimettono al giudizio delle masse, ma queste vengono considerate come numeri per il proprio potere, ovvero come coloro che affidano o delegano ai propri rappresentanti politici le speranze di cambiamento. E' lo stesso copione della rivoluzione borghese del 1789 in Francia: gli oppressi e gli emarginati sono gli spettatori di cui hanno bisogno gli attori politici per legittimare il proprio ruolo e farne le fortune. L'importanza della moltitudine consiste nel consenso che fornisce politicamente o sindacalmente, al massimo ed eccezionalmente negli scossoni che provocano le loro ascese a patto che siano riassorbibili ed adattabili alle soluzioni già previste (in questo senso riveste un ruolo esemplificativo quanto accaduto a Kronstadt). In nessun caso primeggia il protagonismo umano che le persone esprimono nella loro lotta. Ma proprio questo protagonismo è quello che sospinge la gente di sinistra, che le fa sentire di sinistra. E’ questo protagonismo che alimenta la loro voglia di lottare, di veder cambiare il contesto in cui vivono. Ma i dirigenti delle formazioni della sinistra italiana sono preoccupati esclusivamente del loro risultato politico. Per queste formazioni vale il principio secondo il quale tutto dipende dalle masse in lotta, l'ultima e decisiva parola spetta invece alla loro attività. Dietro la presunta fiducia incondizionata nelle masse si nasconde spesso la sfiducia profonda verso le capacità creative e costruttive connaturate all'uomo e alla donna, premesse e motivi decisivi di qualsiasi ipotesi di autoemancipazione. Invece, tutto dovrebbe dipendere dalle persone che vogliono autoemanciparsi facendo leva sui loro valori etici (diametralmente opposti a quelli dominanti). In questo quadro e solo in questo quadro, le lotte e le rivoluzioni sono davvero decisive. La Comune parigina del 1871 e alcuni passaggi della rivoluzione russa come il primo Soviet del 1905 e quello libero di Kronstadt ci mostrano come i Consigli possano essere un'espressione di alta comunanza, un embrione di potere inclusivo e diretto e non semplicemente strumenti della rivoluzione.

La tematica dell’animalismo e i limiti della sinistra italiana. Il caso del Partito Comunista dei Lavoratori.

In questo quadro, analizzare il ruolo svolto dalle sinistre liberali in Italia (in particolare Sinistra e Libertà e i Verdi) è di particolare importanza. La tematica dell’animalismo è esemplificativa dei forti limiti di queste formazioni. Per queste infatti l’animalismo è una semplice appendice settoriale della propria proposta. Si difende l’animalismo in un 'ottica buonista ma guai a volerlo inserire in una proposta politica organica complessiva (dove la tematica risulta impopolare e non conveniente in termini di riscontro elettorale). Sembrerà assurdo, ma formazioni costruite sulla base di associazioni settoriali (ambientaliste, animaliste, etc.) come nel caso dei Verdi, nel momento in cui devono presentare il proprio programma organico risultano profondamente contraddittorie e in molti casi anche repressive perfino nell’ambito specifico che vorrebbero rappresentare. E questo almeno per due ragioni:

  Vi è in queste formazioni una eccessiva preoccupazione per i risultati elettorali e il consenso immediato. Per questo aspetto una proposta realmente animalista risulterebbe controproducente;

*   In secondo luogo e soprattutto, queste formazioni cadono nei limiti di una visione liberale della società. L’oppressione capitalistica, le logiche individualistiche e meritocratiche, non solo non sono contrastate ma sono addirittura condivise. E’ il caso di SEL, un partito fondato sul MITO DELLA MERITOCRAZIA.

E così accade che SEL e Verdi risultino profondamente carenti nella proposta politica e che di fatto il loro ruolo nella lotta animalista sia profondamente negativo. In questo quadro non è un caso che l'impostazione più chiara e costruttiva emerga da una piccola formazione dell’estrema sinistra italiana: il Partito Comunista dei Lavoratori.
Il documento approvato nell’ultimo Congresso del PCL infatti esprime idee più chiare di quelle mediamente riscontrabili nell’ambiente delle sinistre italiane (SEL, Verdi, Rifondazione) e dello stesso attivismo animalista spesso insabbiato in prospettive contraddittorie e non realmente emancipative (neanche per gli stessi animali che si pretende di tutelare) .
Il documento del PCL invece, prova a ripercorrere alcune delle tappe concettuali imprescindibili per rendere effettiva la prospettiva della liberazione animale.
Tra queste vi è la constatazione che la storia del dominio e delle società gerarchiche si sia sviluppata a partire dalla domesticazione degli animali che, consentendo la produzione di un surplus di ricchezza e di energia, ha reso possibile la nascita delle svariate forme di discriminazione che storicamente si sono realizzate. E’ proprio il dominio dell’uomo sugli altri esseri viventi che ha poi prodotto il dominio dell’uomo sull’uomo. E’ una tesi centrale, ma che fino ad oggi non ha trovato cittadinanza in altre formazioni politiche. Proprio da questo aspetto non è possibile prescindere se si intende costruire una società non oppressiva. Il documento, comunque, può e dovrebbe essere migliorato, ad iniziare dall'inserimento d'importanti aspetti quali ad esempio la critica, incredibilmente assente, degli allevamenti intensivi.

Quella animalista è insomma una tematica dalla quale è impossibile prescindere. Solo cambiano le sensibilità e le prospettive culturali umane sarà possibile costruire una società libera. Ma libertà è solo liberazione. E' necessario intraprendere percorsi di autoemancipazione e di autoliberazione, aver fiducia nelle capacità umane.
Solo allora sarà possibile distruggere ogni forma di oppressione, della quale il capitalismo è solo l’ultima e più tremenda incarnazione.



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NOTE

(1)  Si fa qui riferimento alla Decrescita declinata in senso anticapitalistico. In particolare si sottolineano quei punti della Decrescita spesso sottovalutati ad iniziare dal principio della Redistribuzione di Latouche che pone il limite minimo del reddito garantito per tutti a 1.000 euro e quello massimo a 3.000 euro. Per un approfondimento si rimanda al volume curato da Mauro Bonaiuti “Obiettivo Decrescita”, EMI, 2005.


dal sito  http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/

giovedì 15 marzo 2012

I DEBITI ILLEGGITTIMI Intervista a François Chesnais




I DEBITI ILLEGGITTIMI
Intervista a François Chesnais *


François Chesnais, professore associato di economia all’Università di Paris 13, ha un lungo passato di studioso e militante. È stato membro del partito trotskista e ha partecipato alla nascita, nel 2009, del Nuovo Partito Anticapitalista. È redattore della rivista marxista “Carré Rouge” e consigliere scientifico di ATTAC. Nell’ambito della sinistra radicale francese, Chesnais sollecita una visione il più possibile internazionale della crisi politica e sostiene la necessità d’integrare questione sociale e questione ecologica. I suoi diversi studi sulla mondializzazione si accompagnano a una grande attenzione per i movimenti antisistemici. È in quest’ottica che è opportuno leggere il suo ultimo libro Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, uscito in Francia nel 2011 e tempestivamente tradotto da “DeriveApprodi”. Chesnais non si limita a realizzare un’ennesima analisi della crisi del debito europeo, ma offre uno strumento di prassi politica, elaborando il concetto di "debito illegittimo"  e di indagine da parte di comitati cittadini sulla natura del debito pubblico. Sappiamo come, anche in Italia, questi temi siano all’ordine del giorno, grazie al lavoro di economisti come Andrea Fumagalli e alla campagna lanciata da Guido Viale sul “manifesto” a fine dicembre. La campagna internazionale contro il debito illegittimo, promossa dal Forum sociale mondiale di Nairobi nel 2007, è diventata nel frattempo una questione politica cruciale non solo per i paesi del Sud del mondo, ma anche per gli ex-opulenti paesi del Nord. Per Chesnais, quindi, questa fase della crisi presenta anche un’opportunità per ricondurre una serie di lotte locali e nazionali ad un fronte comune, capace di attraversare il fossato tra paesi ricchi e paesi poveri.



 Vorrei riprendere una riflessione fatta da molti commentatori nel corso di questo periodo: mi riferisco ad esempio all’editoriale di Serge Halimi su «Le Monde Diplomatique» che sintetizza il problema: mentre il capitalismo attraversa la peggior crisi dal 1930, mentre le politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni hanno chiaramente mostrato i loro fallimenti, perché i partiti delle sinistre europee «appaiono muti e imbarazzati» e l’offensiva spetta ancora una volta alle soluzioni della destra: austerità, rigore e azzeramento del Welfare?

Penso che ci sia stato un salto epocale: in un arco di trent’anni abbiamo visto la morte del vecchio movimento operaio con i suoi partiti e i suoi sindacati, con le sue illusioni e le sue menzogne, tanto sul fronte dell’Urss e dello stalinismo quanto su quello della socialdemocrazia, e a dire il vero non ci sono più partiti di sinistra. Si continua a usare questa parola per convenienza e per nostalgia.
Non so in che senso la utilizzi Halimi, ma ciò che da 18 mesi sta accadendo in Grecia, ovvero forme di resistenza per lo più impreviste, credo che abbia ancora un fondamento nelle organizzazioni politiche e sindacali ma che abbia anche inventato modelli di organizzazione e di lotta con obiettivi spesso disapprovati da questi stessi partiti. Ad esempio il movimento «Io non pago» non piace al partito comunista greco, né ai sindacati che esso controlla. Poi ci sono stati la Tunisia, l’Egitto e oggi «Occupy Wall Street» che annunciano un periodo fatto da un lato da convulsioni del sistema finanziario mondiale, con l’aggravarsi della recessione – forse non proprio una depressione come negli anni Trenta ma comunque una recessione molto lunga –, e dall’altro un progressivo contagio, che è il contagio dei movimenti che maturano e si organizzano al riparo dai proiettori e che scoppiano in un momento dato, o per ragioni del tutto accidentali come in Tunisia o per decisione da parte delle persone, come è accaduto a quelli che hanno lanciato «Occupy Wall Street». Io credo che non ci sia più niente da aspettarsi dai partiti di sinistra, perché il loro pensiero è in tutto per tutto esaurito nei vecchi stampi.

 Da profani, oggi potremmo avere l’impressione di essere quantomeno alla fine del pensiero unico e di assistere all’apertura di un vero e proprio dibattito intorno alle politiche economiche. Si tratta di un’impressione senza fondamento e la diversità dei punti di vista riguarda dettagli o siamo davvero di fronte a uno scontro di paradigmi economici e politici radicalmente diversi? In altri termini, il discorso esperto sull’economia è passato finalmente all’età polifonica o continua a parlare con un’unica voce?

Stamattina Paul Jorion , alla trasmissione radiofonica di France Culture, replicava a un giovane ma alquanto reazionario giornalista, Brice Couturier. E diceva un certo numero di cose condivisibili. Molti dibattiti apparentemente di opposizione, ad esempio, sono in realtà discorsi e ricerche politiche che tentano di salvare il sistema stesso. In questa seconda fase della crisi mondiale e soprattutto in Europa, a causa dell’estrema fragilità della zona euro, si è sviluppato un dibattito che non ha avuto la stessa intensità nel 2008, e credo che questo vada inteso come l’indice del grado di estrema vulnerabilità a cui è giunto il sistema finanziario mondiale. La grande preoccupazione si accompagna all’estrema diversità delle soluzioni e delle ricette proposte. Ma il dibattito si colloca in tutto e per tutto nell’idea di prolungare la vita di questo sistema finanziario e della forma di globalizzazione che gli serve da supporto. Quello che mi ha colpito è come il problema climatico, un problema di grandissima urgenza, il problema dei problemi, di nuovo in discussione a Durban in Sudafrica, sia del tutto eclissato dal tentativo, negli Stati Uniti e in Europa, di salvare un sistema che ha accelerato e aggravato tutti i problemi ecologici del pianeta, che ha accelerato il cambiamento climatico. Credo che se fra un secolo ci sarà ancora qualcuno in grado di fare la storia di questo periodo, si chiederà «Ma a cosa stavano pensando quelli? In che tranello si erano ficcati?». Oggi facciamo un bilancio della totale irresponsabilità che ha portato alla guerra del 1914 e la si guarda con un certo stupore e l’idea del suicidio dell’Europa è diventata…

…una constatazione

Sì, è un’idea che viene per lo meno condivisa da una vasta schiera di persone negli ambienti intellettuali e questi stessi ambienti, rispetto alla situazione odierna, o non capiscono niente o hanno una tale paura dell’abisso… C’è una bella espressione inglese, uncharted waters, che risale al XVI secolo, quando i battelli partivano da Genova o Amsterdam o Londra e approdavano in regioni del mondo la cui cartografia non era mai stata fatta prima. Stiamo per entrare in un periodo storico che ha questi tratti, che ha dunque questo riflesso molto generalizzato di paura e conservatorismo nel quale ci si dice: meglio quello che c’è piuttosto che…

Sì ma ho l’impressione che anche tra le fasce sociali più sfavorite ci sia questo stesso riflesso, cioè che persino le persone che hanno pochissimo da perdere da un cambiamento più radicale preferiscano aggrapparsi alle politiche di rigore difese dalla destra, come a dire meglio tirare avanti nelle difficoltà che conosciamo piuttosto che venirne fuori con qualcosa di estraneo…

Sono d’accordo e si tratta di un riflesso molto diffuso. Siamo partiti da questa domanda di Serge Halimi nei confronti dei dirigenti politici, che sollecitano la fiducia da parte di coloro che hanno meno strumenti materiali e intellettuali, per ottenere la loro delega… Io invece mi interrogo sul grado di paralisi degli intellettuali, del personale politico della sinistra, mentre la borghesia, per farla corta, è sempre mossa dal riflesso di preservazione del proprio dominio, è ciò che la mette in moto e che fa sì che per essa la lotta di classe non abbia mai fine…

Dunque, secondo lei neanche oggi in piena crisi ci sono spazi sui media ufficiali e dentro la politica istituzionale per proporre un’alternativa alle politiche di austerità?

Il problema è che la soglia è molto alta e la situazione comporta diverse variabili impreviste. La variabile imprevista con la quale mi sono scontrato più direttamente durante le presentazioni del mio libro sul debito illegittimo è stata far capire che se non abbiamo dei piani pronti per impadronirci del sistema bancario, per renderlo di nuovo pubblico e per socializzarlo, il non pagamento dei debiti, persino di debiti piccolissimi, può provocare il crollo del sistema bancario, in ragione della sua attuale fragilità. Dobbiamo affrontare il fatto che qualunque potere politico che cerchi di rompere con la condizione attuale delle cose deve denunciare tutti i trattati, e in Europa deve denunciare tutti i trattati europei. Qualunque politica seria deve stabilire immediatamente un divieto alle delocalizzazioni delle imprese e deve invitare gli operai a impadronirsi e ad autogestire le imprese che cercano di chiudere… Dietro questo dibattito sulla deglobalizzazione (1) ci sono cose giustissime, perché ci sono momenti in cui, a partire da criteri stabiliti e noti alle parti in causa del commercio internazionale, occorre negoziare forme di scambio ed è impossibile tollerare la concorrenza selvaggia con la corsa al ribasso dei salari come unico modello.

Occorrerebbe reintrodurre un concetto tabù come quello di protezionismo?

Preferisco l’idea di condizioni negoziate dello scambio, che sono altrettanto indispensabili rispetto al problema del cambiamento climatico… Uno degli aspetti dell’altissimo consumo energetico sono le filiere produttive globalizzate con il relativo impatto dei trasporti. Tutto questo per dire che la sfida è alta e sono in pochissimi ad assumersela. A «Le Monde Diplomatique» c’è chi se l’assume, e tra questi Frédéric Lordon, o Emmanuel Todd, a modo suo e a partire da un’altra formazione… Si tratta di gente con un pensiero che non mette pezze al sistema…

In effetti, leggendo ciò che scrive, ho avuto l’impressione che lei sia tra quei pochi che riescono ad affrontare dentro la stessa cornice analitica tanto la crisi finanziaria, con gli strumenti della tradizione marxista, tanto la crisi climatica, con strumenti molto più recenti. Ho l’impressione che ancora oggi queste due crisi abbiano tendenza a essere trattate con analisi che si escludono a vicenda. Sembra difficile dare lo stesso peso, e all’interno di un unico discorso, alla lotta di classe e alla guerra che la nostra specie ha scatenato contro il resto del pianeta.

Non le nascondo un certo imbarazzo nel risponderle. Per ora siamo ancora in questa situazione di dispersione. Questo perché la perversione del capitalismo ultraconcorrenziale è penetrata persino tra le fila di persone che dovrebbero essere portate a parlarsi, ad avvicinarsi e a lavorare insieme, e invece siamo prigionieri di questa situazione. Si tratta di un fatto. Ho provato a rileggere Marx, perché non ero del tutto soddisfatto del Marx ecologista dell’americano John Bellamy Foster (2). Io credo che occorra assumere le profonde contraddizioni di Marx su questa questione. Non si possono cancellare così le lettere che scriveva quando usciva dall’esposizione universale di Londra: vanno insieme all’intuizione che il capitalismo porta con sé forze distruttrici che si rivoltano contro i lavoratori ma che possono anche rivoltarsi contro la natura… Nel capitalismo gli uomini hanno un rapporto tale con la natura che si autodistruggono. Anche Engels ha avuto intuizioni: ha trovato esempi dell’antichità nel mediterraneo per dire che uomini spinti da determinate forze potevano trasformare un ambiente che era stato accogliente in qualcosa di completamente ostile. Ma diciamo che questo lavoro di rilettura l’ho fatto con non più di quattro o cinque persone e con non più di tre o quattro libri.

Appartengo a una generazione nella quale a partire da punti di appoggio nei partiti e nei sindacati, c’era un dibattito nel quale le parole avevano uno stesso significato per molte persone; a una generazione per la quale c’era concorrenza tra le idee ma non tra le persone, perché persone e idee erano ancora attribuite a strutture politiche e collettive… Per me la sorpresa delle sorprese è stata la scomparsa del Partito comunista italiano e di tutto quello che il Partito significava come spazio intellettuale e politico, e se me lo avessero detto nel 1975 avrei detto che erano follie, ma vent’anni dopo era cosa fatta. Solo per dire che siamo in molti a pensare in circoli ristretti. Io ho un piccolo gruppo legato a una rivista che si chiama «Carrés rouges» e ne sono molto contento. La pubblicazione del mio libro sui debiti illegittimi è stata molto importante, perché mi ha spinto nuovamente a discutere e ad ascoltare critiche, che hanno poi trasformato la mia stessa visione. Ma la variabile sconosciuta, quella che ha prodotto una vera sorpresa è stata «Occupy Wall Street», un movimento che con tutti i suoi limiti è nato proprio negli Stati Uniti.

L’ha sorpresa più delle rivolte arabe?

Certamente, perché per le rivolte arabe c’erano abbastanza informazioni per sapere che prima o poi sarebbero avvenute, tanto in Tunisia quanto in Egitto, dove sono state precedute da scioperi poco mediatizzati ma molto lunghi.

Con Frédéric Lordon lei sembra condividere l’idea che la crisi economica e finanziaria necessita non solo di narrazioni capaci di suscitare passione nei non specialisti, cioè i normali cittadini che ne subiscono le conseguenze. Oltre al problema della volgarizzazione del discorso, le sembra importante l’apporto che gli artisti, i poeti, la gente di teatro o del cinema possono dare alla comprensione della crisi?

Sì è fondamentale. Al momento non ci sono abbastanza artisti, scrittori, creativi che vi sono impegnati, ma penso che arriverà; è una questione anche di tempi lunghi tipici della produzione cinematografica, ma è assolutamente centrale, arriverà. Del resto io stesso ho fatto riferimento a Cleveland against Wall Street e Inside Job, anche se non ho ancora visto Debtocracy. Trovo che i documentari dell’argentino Pino Solanas sulla crisi del suo paese di una decina di anni fa fossero molto importanti.

Qual è la relazione tra la crisi economica e la crisi finanziaria?

Uso come filo conduttore un’osservazione di Marx nella quale spiega che il capitalismo si scontra con barriere, con limiti immanenti, limiti che gli sono consustanziali per le contraddizioni prodotte dai rapporti sociali sui quali è costruito e – dice Marx –, confrontato a queste barriere, il capitalismo cerca di superarle, ci riesce, ma produce condizioni nelle quali ritroverà queste barriere ancora più alte… Con questo filo conduttore e, prendendo la breve ma durissima crisi del ’73-75 come punto di partenza, possiamo dire che, dopo questo periodo nutrito dai bisogni della ricostruzione, durante i Trenta gloriosi (3) il capitalismo si trova confrontato a una crisi che traduce le sue contraddizioni interne e le prime soluzioni sono il tatcherismo, il reaganismo, la liberalizzazione, la deregolamentazione e prima di tutto la globalizzazione finanziaria e dunque la creazione di condizioni che hanno consentito il ridispiegamento del Capitale su tutto il pianeta, ma che hanno in modo contraddittorio portato alla distruzione degli strumenti di politica economica messi a punto durante la guerra e i Trenta gloriosi.

La crisi del ’73-75 è una crisi di sovrapproduzione dentro economie ancora chiuse ma interdipendenti: dunque la crisi si diffonde e diventa una crisi internazionale, e la liberalizzazione e la deregolamentazione costituiranno appunto la risposta generale per forzare questa limitazione. I paesi che si investono di più nella liberalizzazione finanziaria cominciano a scavare dei divari nei livelli di reddito e di patrimonio, che fanno sì che la domanda effettiva non sia più alimentata da una domanda sufficiente di beni di consumo e viene così a crearsi una situazione nella quale è la finanza a proporre una soluzione: alle persone viene proposto di indebitarsi. Si entra così nel ciclo dell’indebitamento degli anni Novanta. Contemporaneamente si avvia la terza grande misura. In Cina c’è una struttura politica, un’élite, che ha cominciato ad abbozzare processi di liberalizzazione e che ha schiacciato un movimento studentesco e operaio per poter consolidare questo processo. Siamo di fronte a una realtà che si rivela determinante per il futuro del capitalismo… Il progetto che era emerso solo in forma embrionale nel viaggio di Nixon e Kissinger a Pechino, si concretizza sul serio a partire dagli anni Novanta. Prosegue con l’investimento estero in Cina a partire dal ’92-93 e con l’apertura di negoziati sull’adesione della Cina al Wto. D’altra parte, credo che la maggiore vittoria del capitalismo neoliberista si sia prodotta nel 2001 con l’ingresso della Cina nel Wto. La Cina è diventata la manifattura del mondo e si è così integrata un’immensa macchina per produrre, che nei fatti è una macchina deregolamentata, perché si tratta di una macchina che non funziona alle condizioni di equilibrio del secondo volume del Capitale di Marx. È una macchina nella quale il settore 1, il settore dei beni di produzione, si autoalimenta in condizioni in cui il settore 2, il settore dei beni di consumo, è del tutto a traino: c’è una sproporzione mai esistita nella storia della crescita del capitalismo. C’è una situazione senza precedenti di crescita continua dell’investimento come parte del Pil cinese, ma di ribasso dei consumi se rapportato al Pil, con un Pil che aumenta dal dieci al tredici percento. Questo ribasso dei consumi significa, come frazione di un Pil che aumenta, che c’è comunque una diffusione dei beni di consumo. Ma rispetto alle capacità di produzione presenti si tratta di una capacità derisoria: le esportazioni sono una specie di paracadute del sistema. Il saldo commerciale della Cina non è di molto superiore al 5% del Pil, è dunque molto debole. E dal punto di vista della Cina il paracadute è sempre più fragile, anche se siamo comunque di fronte al 10% delle esportazioni mondiali. Noi lo avvertiamo leggermente, ma ci sono paesi che lo avvertono in modo significativo: la distruzione del tessile egiziano è un risultato diretto del Wto, della fine dell’accordo Multifib (4), e dei prodotti cinesi.

La crisi finanziaria è la componente di una crisi molto più vasta che in fondo nasce dal prolungamento oltre i propri termini di un periodo in cui il capitalismo sembrava aver messo da parte le proprie contraddizioni, respinto i propri limiti. Ma oggi i limiti si manifestano nella forma, in un certo senso molto più grave di quella finanziaria, di una sovraccumulazione e di una sovrapproduzione su scala mondiale, i cui punti di sostegno sono dispersi, ma che fa sì che le aziende continuino a chiudere in Europa, che  le tendenze recessive all’opera siano aggravate da politiche che favoriscono la finanza.

Che cosa s’intende per debiti illegittimi?

Il concetto di debiti illegittimi proviene dall’esame delle condizioni alle quali sono nati e cresciuti questi debiti ed è un’analisi che deve essere fatta paese per paese, e io posso rispondere per la Francia. La possibilità offerta dalla liberalizzazione della finanza – alla quale la Francia ha aderito all’inizio degli anni Ottanta, quando il governo dell’unione della sinistra vinceva le elezioni e cominciava il settennato di Mitterand – ha portato all’emissione dei buoni del tesoro su mercati aperti a investitori stranieri, ricorrendo così non al sistema monetario domestico né al risparmio domestico. Ne sono seguite spese che sono stati veri regali al capitale: le condizioni nelle quelle sono state realizzate le nazionalizzazioni e le privatizzazioni o le leggi di programmazione militare anch’esse estremamente improduttive per l’economia del paese, di cui hanno beneficiato gruppi come Dassault, il maggiore costruttore dell’aeronautica militare e civile francese. Si tratta di esempi della critica che si può rivolgere a grandi spese pubbliche fatte in alcuni momenti dai governi. L’altro aspetto è la diminuzione della fiscalità e l’estrema tolleranza nei confronti dell’evasione fiscale, incoraggiata dai trattati europei e dalla presenza del Lussemburgo e della Svizzera alle nostre porte, dunque della flessione di alcune categorie di fiscalità con mancanza di introiti e l’obbligo a emettere sempre più titoli di debito pubblico, avvitandosi in una situazione in cui occorre reindebitarsi per pagare gli interessi sul debito.

D’accordo, ma chi ha il diritto di stabilire che un certo debito pubblico è illegittimo?

La prima cosa è che quando si decretano politiche di austerità così rilevanti e con una tale continuità, e lo si fa in nome della necessità di pagare il debito, dovremmo avere l’obbligo, in quanto cittadini, di porre questa domanda: da dove viene questo debito? Perché è ciò che rende necessari i sacrifici e li fa ricadere sulle spalle della gente. Occorre fare questa domanda e guardare il debito più da vicino… Si tratta di un dibattito che non possiamo delegare al personale politico e agli esperti. Si tratta di questioni relativamente complicate, ma che possono comunque essere capite: è questa l’idea dell’audit sul debito attraverso meccanismi ai quali sono strettamente associati i cittadini.
Lei ha comunque ragione nel porre la domanda: chi può dichiarare illegittimo un debito? Il caso, ad esempio, del debito «odioso» ha degli appigli nel diritto pubblico internazionale. Appigli che risalgono agli anni Venti e Trenta e che sono stati riattivati negli anni Ottanta in America Latina. La questione del debito illegittimo è quella della democrazia diretta, dunque di processi reali di democrazia, che sono necessariamente determinati dalle condizioni politiche ed economiche di ogni singolo paese e che può comportare gradi di partecipazione molto diversi.

Che differenza c’è tra debito «odioso» e debito illegittimo?

Il debito odioso include un forte elemento di subordinazione di un paese e delle sue finanze a istituzioni internazionali o ad altri Stati. Quanto al debito illegittimo, l’unico vero dibattito è quello sulla delega attraverso il voto: “Voi siete stati consenzienti, perché avete eletto dei governi che hanno prodotto il debito e anche se non vi hanno fornito delle chiare spiegazioni, voi dovete accettare l’esito delle loro politiche”. Ma il principio dell’audit sul debito pubblico implica che si metta un termine a questa delega e che si faccia di tale questione il terreno per un esercizio della democrazia diretta. Questo significa darsi come forma d’organizzazione il comitato, che è la forma attraverso la quale l’autonomia può cominciare ad affermarsi.


* VERSIONE INTEGRALE A CURA DI ANDREA INGLESE DELL'INTERVISTA APPARSA IN VERSIONE RIDOTTA SUL n° 16 di "ALFABETA2"
Traduzione di Ilaria Bussoni



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NOTE
1) Lanciato in Francia da «Le monde diplomatique» e difeso da economisti come Frédéric Lordon, ma anche da intellettuali come Emmanuel Todd, e persino da uno dei candidati alle primarie socialiste, Arnaud Montebourg, che ha ricevuto il 17% delle preferenze, piazzandosi terzo [N.d.T.].

2) Sociologo statunitense, editorialista della «Monthly Review» [N.d.T.].

3) Gli anni dal secondo dopoguerra ai Settenta [N.d.T.]..

4) L’accordo «multi fibre» ha regolato il commercio internazionale di prodotti e tessili d’abbigliamento dal 1974 al 2005, attraverso l’imposizione di restrizioni alla quantità di prodotti tessili che i paesi in via di sviluppo potevano esportare verso i paesi sviluppati [N.d.T.].


dal sito  http://www.nazioneindiana.com/


martedì 13 marzo 2012

LE CATENE DELLA SCHIAVITU' di Stefano Santarelli


LE CATENE DELLA SCHIAVITU'
di Stefano Santarelli



La grandeur du crime est la seule différence qu'il y ait entre un conquérant et un brigand

J.P. Marat - Les chaînes de l'esclavage (1774)



Nessun protagonista della Rivoluzione Francese è stato così ferocemente calunniato come Jean-Paul Marat ed è questo un amaro destino per un uomo che forse più di ogni altro ha contribuito a creare la République. Eppure senza di lui ed altri uomini del suo stampo la grande Rivoluzione francese non sarebbe riuscita a sconfiggere l’Ancien Régime e quindi a trasformare il mondo con le sue idee di libertà e di uguaglianza.
Come Napoleone anche Marat in fondo è solo un francese di adozione essendo nato nel 1743 in Svizzera da un prete sardo che si era convertito al calvinismo, infatti l’originale cognome paterno era Mara.
Una gioventù trascorsa in una dignitosa povertà che solo l’abnegazione paterna aveva permesso al futuro rivoluzionario di far compiere e terminare gli studi secondari al collegio di Neuchâtel.
Nel 1759, a sedici anni, lascia la casa paterna per fare il precettore per il figlio di un ricco commerciante di Bordeaux dove inizia gli studi di medicina e due anni dopo giunge a Parigi. Nel 1765 si trasferisce a Londra dove inizia ad esercitare la professione medica. E a Londra il giovane Marat si interessa di argomenti filosofici e politici. Contrariamente ai Montesquieu o ai Voltaire non vede nell’Inghilterra quel regno della libertà che essi decantano, ma al contrario vede il feroce dispotismo del privilegio nobiliare di pochi proprietari terrieri i quali gestiscono il potere a proprio esclusivo vantaggio contrapponendosi alla maggioranza della popolazione che vive in assoluta miseria.
Ed è proprio qui che nel 1774 Marat scrive “Les chaînes de l'esclavage” o meglio “The chains of slavery” visto che questo libro viene pubblicato anonimamente in inglese e solo diciannove anni più tardi questa opera verrà tradotta in francese dallo stesso autore. Siamo ormai nel 1793 l’anno più determinante per la Rivoluzione francese che sarà poi anche l’anno del suo assassinio.
Come si può quindi comprendere “Les chaînes de l'esclavage” non ha avuto nessuna influenza diretta nello sviluppo della Rivoluzione, ma è un testo importante e fondamentale per potere comprendere il pensiero di questo grande rivoluzionario.
“Le catene della schiavitù” si ispira direttamente al “Contratto sociale” di J.J. Rousseau, infatti Marat è pienamente d’accordo con il famoso incipit: “L’homme est né libre e partout il est dans le fers”. Ma dopo questa constatazione del filosofo ginevrino per Marat solo la violenza e l’insurrezione possono rompere queste catene. Questo libro non è un trattato filosofico, ma anzi può essere tranquillamente definito come il primo trattato moderno dell’insurrezione.
Marat è infatti convinto che la pratica rivoluzionaria è necessaria per sostenere le teorie rivoluzionarie. E non è quindi un caso se Babeuf nel settembre del 1794 prende proprio alcune citazioni delle “Catene della schiavitù” per un suo messaggio al popolo francese.
Ma forse il miglior riconoscimento indiretto verso questa opera la possiamo trovare nella biblioteca di Marx dove questo libro ha tutta una serie di annotazioni di sua mano a dimostrazione dell’importanza che il fondatore del comunismo riconosceva per il pensiero di questo grande giacobino.
E anche Engels ricordando la rivoluzione tedesca del 1848 deve rendergli omaggio:

Quando più tardi ho letto il libro di Bougeart su Marat ho scoperto che per più di un aspetto noi non abbiamo fatto altro che imitare inconsciamente il grande modello autentico dell’Amico del Popolo (…) e che anche lui come noi, rifiutava di considerare la Rivoluzione come terminata, ma voleva che essa fosse permanente.”

Les chaînes de l'esclavage” è un opera fondamentale per potere comprendere il pensiero politico di Marat prima della rivoluzione. Avendo vissuto molto tempo in Inghilterra, molto di più di Montesquieu, conosceva meglio di lui i difetti della costituzione inglese. Una costituzione che dava al Re un potere enorme sul parlamento con la sua facoltà di nominare i Lords e ne critica la limitazione del diritto di voto e la condizione di possidente richiesta ai membri del parlamento.
Ma nonostante questi profondi limiti riconosceva che “al confronto delle altre, la costituzione inglese era un monumento di saggezza politica”.
Ma già in questo testo si possono intravedere le posizioni politiche che Marat esprimerà nel corso della Rivoluzione. Tra l’altro la condanna senza attenuanti della religione ed in particolare del cristianesimo come pilastro fondamentale dell’assolutismo monarchico.
Va sottolineato che Marat chiede l’abolizione della pena di morte, fatta eccezione per alcuni delitti particolarmente efferati. In questo anticipando il primo intervento che Robespierre farà alla Costituente proprio contro la pena capitale.
Questo libro costituisce anche un mezzo per far riflettere lo stesso Marat sul concetto di sovranità del popolo e già qui si intravede la sua grande simpatia per gli oppressi. Infatti emerge con forza la sua profonda indignazione per l’ingiustizia di certe leggi che colpivano con più severità i ceti più poveri della popolazione, denuncia con forza la pessima organizzazione degli ospizi e degli ospedali ed in queste pagine riusciamo già ad intravedere il futuro leader rivoluzionario colui che sarà il tribuno più amato dai sanculotti.
E quindici anni prima della rivoluzione Marat poteva scrivere:

Il male è nelle cose stesse ed il rimedio è violento. Dobbiamo portare la scure alla radice. Dobbiamo far conoscere al popolo i suoi diritti e quindi impegnarsi per rivendicarli; bisogna mettergli le armi in mano, assalire in tutto il regno i meschini tiranni che lo tengono oppresso, rovesciare l’edificio mostruoso del nostro governo e costruirne uno nuovo su una base equa. Le persone che credono che il resto del genere umano ha lo scopo di servirli per il loro benessere indiscutibilmente non approveranno questa soluzione, ma non sono loro che devono essere consultati; si tratta di risarcire un intero popolo dall’ingiustizia dei loro oppressori.”

E non si può assolutamente sottovalutare il suo ruolo anche teorico come si può vedere nel suo Plan de législation criminelle del 1780 dove anticipa il Proudhon che definiva “La proprietà è un furto”:

Il diritto di possedere deriva da quello di vivere; quindi tutto quanto è indispensabile alla nostra esistenza ci appartiene; e nulla di superfluo potrebbe appartenerci legittimamente, mentre altri mancano del necessario. Ecco il fondamento legittimo di qualunque proprietà, sia nello stato di società, sia nello stato di natura.”

Ma con questo non vogliamo però dare l’impressione di un Marat socialista, egli è ovviamente un uomo del suo tempo e certamente si possono vedere nelle chaînes de l'esclavage anche i limiti del suo pensiero politico.
Certo minaccia la nobiltà terriera, l’alto clero, vuole dare la terra ai contadini, ma in fondo non ha nessuna intenzione di abolire la proprietà privata che come insegna anche Rousseau “per natura” spetta a tutti gli uomini. Infatti il diritto di proprietà è per tutti i pensatori politici del seicento e settecento un diritto fondamentale che neanche Marat mette in discussione anzi per questo si oppone duramente alle proposte e alla linea politica degli Enragés.
Certamente nella sua visione sociale egli anticipa tutta una serie di forme di assistenza, di cooperazione o di intervento dello Stato a favore dei meno abbienti, in difesa dei poveri e contro l’arroganza dei nobili e della ricca borghesia, ma il tutto senza mettere in discussione il diritto di proprietà. E dobbiamo altresì ricordare che ci troviamo nel XVIII secolo in una Francia, che al contrario dell’Inghilterra, è un paese con una economia ancora rurale e dove non si trovano masse operaie, ma solo contadine.
Marat quindi non è un proto socialista, ma è invece un profondo intellettuale e come abbiamo potuto vedere con una prospettiva tutt’altro che provinciale, ma proprio perché è un uomo del suo tempo farà di tutto per entrare nell’Accademia delle Scienze o per avere un titolo nobiliare senza peraltro ottenere tali riconoscimenti. E’ un medico abbastanza stimato tanto che nel 1777 ha la responsabilità sanitaria della Compagnie des Suisses del Conte d’Artois, uno dei fratelli del Re, il futuro Carlo X. Ed è tra i primi a sostenere la possibilità dell’uso terapeutico dell’elettricità.
Ma è anche l’unico rivoluzionario preparato per gli avvenimenti che nel 1789 porteranno la Francia alla pagina più gloriosa e nel contempo più tragica della sua storia. Quando verranno convocati gli Stati Generali da Luigi XVI egli è già un uomo non più giovane avendo 45 anni, mentre Robespierre e Danton sono dei trentenni.
La sua esperienza inglese come fa notare lo storico Albert Mathiez lo porta ad essere estremamente pessimista anche sulla democrazia rappresentativa: “Mentre i francesi del 1789 si facevano le più ingenue illusioni sul valore del sistema rappresentativo, Marat (…) conosceva già molto bene i mezzi usati per dirigere la stampa, fare le elezioni, comprare i deputati ecc. Di qui la sua diffidenza, di qui il suo pessimismo, di qui i suoi giudizi acuti sugli uomini e sulle cose.”

Infatti si può osservare già nelle chaînes de l'esclavage un pessimismo di fondo che rimarrà una caratteristica di questo grande rivoluzionario. Ma in fondo è proprio questo pessimismo che contribuisce a renderlo il politico più acuto e lungimirante della rivoluzione e nel 1790 può ammonire in modo realistico che non si può più indietreggiare:

Lo ripeto: è il colmo della follia pretendere che uomini che da dieci secoli hanno la possibilità di dominarci, di derubarci e di opprimerci impunemente, si risolvano di buon grado ad essere soltanto nostri uguali: essi trameranno in eterno contro di noi, fino a che non saranno sterminati; e se noi non prendiamo questo partito, il solo che detta la voce imperiosa della necessità, ci sarà impossibile sfuggire alla guerra ed evitare che noi stessi finiamo per essere massacrati.”

Il suo giornale L'Ami du peuple sarà quindi uno dei principali punti di riferimento dei sanculotti e degli elementi più radicali dei Clubs repubblicani e probabilmente se non fosse stato ucciso dalla mano della Corday forse sarebbe stato l’unico che avrebbe potuto opporsi o attenuare il Grande terrore di Robespierre perché come già ammoniva nelle chaînes de l'esclavage :

per restare liberi occorre stare sempre in guardia nei confronti di chi governa”.


3 marzo 2012
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Bibliografia:

J.P.Marat – Les chaînes de l'esclavage – Union générale d’éditons- 1972

J.P.Marat- L’amico del popolo – Editori riuniti- 1977

L.R.Gottschalk- Marat - Dell’Oglio editore - 1964



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mercoledì 7 marzo 2012

IL GIOCO DELLE TRE CARTE di Antonio Moscato




IL GIOCO DELLE TRE CARTE
di Antonio Moscato


Ancora ieri era stato annunciato un modestissimo emendamento al decreto sulle semplificazioni che avrebbe permesso di assumere 10.000 tra docenti e personale tecnico-amministrativo. Era stato proposto dal PD e accettato inizialmente dal governo, e anche se era poco più di un cerotto sul corpo martoriato della scuola pubblica, bastava per far cantare vittoria a chi lo aveva proposto. Poi, subito dopo, nella notte, l’annuncio del governo che non se ne faceva più niente. Sarebbe stato necessario alzare le imposte su alcolici, superalcolici, birre, suscitando le proteste dei produttori e col rischio che una contrazione dei consumi riducesse le entrate previste. Insomma la conclusione è che non ci sono i fondi: evidentemente si trovano solo per scassare la val di Susa e per mantenervi sopra un vero corpo di occupazione militare permanente. Successivamente le assunzioni sono state spostate in un ipotetico futuro in cui si troveranno i soldi. Anzi, si è detto tra tre anni, tenendo conto delle variazioni demografiche, e delle disponibilità di fondi del ministero competente... Mai, cioè, se non si abbatte questo governo, che intende favorire la scuola confessionale non meno di quelli precedenti.

Stavo per prendermela di nuovo con l’ipocrisia gesuitica di questo governo e dei partiti che lo sostengono, come avevo fatto in Monti ha studiato bene, ma questa volta mi sono trattenuto: più che alla Compagnia di Gesù in generale (riscattata, ammetto, negli ultimi decenni in America Latina da tanti generosi teologi della liberazione) bisognerebbe far riferimento a quei “nipotini di padre Bresciani” sferzati da Gramsci, e che sono stati probabilmente gli ispiratori dei maestri di Mario Monti nel liceo Leone XIII. Ma sarebbe stato un riferimento poco comprensibile ai più. Meglio pensare più semplicemente all’antico gioco delle tre carte, in cui gli sprovveduti vengono spolpati grazie al ruolo di un complice. In questo caso il PD, ovviamente.

Insomma, ho pensato che fosse meglio non scherzare ancora con i santi, e i loro rappresentanti in terra, e non nominarli nemmeno, visto che per un articolino su Don Bosco e la Fornero ho ricevuto una mail di semischerzosa protesta da un’assidua visitatrice del sito, che mi ha scritto pregandomi di non confondere la Fornero con don Bosco, un "sindacalista" che, “per tutelare i giovani dai soprusi, si fece promotore del primo contratto di apprendista, che era firmato dal datore di lavoro, dal giovane, dal genitore, ed in sua assenza da don Bosco".

In realtà il bersaglio di quel breve articolo di Walter Peruzzi era l’incredibile dichiarazione di Elsa Fornero più che don Bosco. Devo dire che con la sua figura mi ero anche imbattuto occupandomi (nella mia prima ricerca storica) del movimento religioso di Davide Lazzaretti, il “messia dell’Amiata”, che negli stessi anni delle tasse (e fucilate) sui poveri aveva imboccato una strada decisamente diversa da don Bosco, ma lo stimava molto.
Tuttavia vorrei fare una piccola precisazione per spiegare meglio agli altri possibili ammiratori di don Bosco perché piace tanto alla Fornero. La sua impostazione paternalistica, in senso proprio (don Bosco firmava “in assenza del genitore”…), non aveva molto a che fare con un sindacato, ma casomai con un patronato. Peraltro la Fornero faceva riferimento anche alle dame di san Vincenzo De Paoli, un santo che ebbe il merito - si legge sul sito della Società che da lui prende nome - di “aver capovolto l'atteggiamento allora prevalente nei confronti dei poveri, che era di allontanamento ed emarginazione, per andarne in cerca e soccorrerli attraverso l'aiuto e la collaborazione di quanti più fosse possibile, ispirandosi alla carità evangelica, che vede nel povero la persona di Cristo”. Meravigliosa innovazione! Dopo quindici secoli di cristianesimo, di cui dodici in cui è stato associato al potere, e lo ha benedetto e assolto, agli inizi del 1600 diventa una conquista non bastonare o “allontanare ed emarginare” i poveri, come si faceva abitualmente, ma “soccorrerli”… Capisco che alla Fornero piaccia molto questo santo, vero anticipatore degli “ammortizzatori sociali".

Non è solo una battuta: tutto l’arco dei “nostri santi sociali”, e la stessa dottrina sociale della chiesa in quanto tale, sono paragonabili agli ammortizzatori sociali, che hanno la funzione di un robusto anestetico: non curano il male, ma impediscono di sentirlo, o lo rendono sopportabile. Come il famoso "oppio dei popoli" di cui si parlava un tempo...
A parte la necessità di fronteggiare il nascente movimento socialista, la dottrina sociale cattolica aveva come funzione essenziale appunto quella di attenuare i conflitti. Ai suoi margini, in alcuni momenti cruciali si sono prodotte a volte radicalizzazioni che sono confluite con il movimento comunista (il sindacalismo contadino di Miglioli, nel primo dopoguerra), o nel nuovo sindacalismo di classe (la FIM nel 1968-1969), e per un certo periodo, all’inizio degli anni Settanta, le stesse ACLI di Livio Labor, che diedero vita a un effimero Movimento Politico dei Lavoratori. Ma il grosso del sindacalismo cattolico ha avuto costantemente una funzione filo padronale, ed è ben rappresentato dalla CISL, dalla scissione del 1948 all’appoggio a Berlusconi e dalla guerra contro la FIOM insieme a Marchionne.

Va detto che attualmente la differenza tra CGIL e CISL non è più facilmente percepibile, e non perché la CISL si sia spostata su posizioni classiste. In realtà anche la CGIL chiede sostanzialmente solo “ammortizzatori sociali”. Naturalmente chi rischia di essere buttato fuori dalla fabbrica senza più un centesimo dopo la cassa integrazione ordinaria, può anche tirare un sospiro di sollievo se avrà ancora la CI straordinaria o altre forme di indennità, ma con questa linea sarà impossibile una qualsiasi controffensiva. La Camusso ha chiesto (e sembra a prima vista una proposta radicale) una qualche forma di imposta patrimoniale, come quella che era stata ventilata dalla stessa Marcegaglia, allo stesso fine: “finanziare la Cassa Integrazione e più in generale gli ammortizzatori sociali”.

Giustamente sul Manifesto Galapagos obietta che si tratta di “una proposta conservativa che mira unicamente a dare un reddito – peraltro infimo – a chi rischia di perdere il lavoro. Il problema è un altro: serve creare altro lavoro”. Ma quando si tratta di precisare come crearlo anche Galapagos resta nel vago: continua a lamentare che “i privati in questa fase – come dopo la crisi esplosa nel 1929 – il lavoro non sono in grado di crearlo: non hanno capitali (sicuro?), hanno poche idee e ancora meno innovazione”. Quindi “deve essere la mano pubblica a sostituirsi a loro”.
Bene, ma come? Si spiega cosa dovrebbe fare questa “mano pubblica” (“con l’innovazione, ma anche con un modello di sviluppo diverso fatto di meno merci e più servizi”), ma non come ricostruirla, e con quali capitali. Tanto meno si accenna alla ripubblicizzazione delle floride imprese privatizzate a prezzi di svendita nei decenni scorsi. Insomma, ci si riduce come al solito di dar consigli ai capitalisti (come puntare sull’edilizia di recupero invece di sottrarre territori per costruire nuove case che nessuno può comprare…). Al massimo il capo economista del Manifesto aggiunge una trovata già sentita: “sarebbe utile mobilitare parte dell’inutile reliquia, cioè le riserve di oro”…

Tutto meno che la proposta di una lotta generale con pochi obiettivi concretissimi, come ridistribuire il lavoro tra tutti attraverso una fortissima riduzione d’orario, e confiscare tutte le aziende che sono state privatizzate (ad esempio l’Alfa Romeo e Alfa Sud, regalate alla FIAT), che dovrebbero essere recuperate dallo Stato ma affidate ai lavoratori.

Una lotta difficilissima, che può sembrare impossibile, e lo sarà se non si comincia a metterla all’ordine del giorno. La terribile lezione della Grecia è che i lavoratori sono riusciti meglio di noi a organizzare molti momenti di lotta durissima, ma senza definire un programma con obiettivi concreti, che trasformi le proteste in un vero sciopero generale a oltranza che paralizzi il paese, e ponga all’ordine del giorno la cacciata dei responsabili del debito e del saccheggio del paese.

Se non ci si riuscirà, resterà solo la mensa della San Vincenzo…


PS. Galapagos polemizzando con la Camusso scrive: “Il problema è un altro: serve creare nuovo lavoro. Ieri Landini nella conferenza stampa di presentazione della manifestazione nazionale di venerdì a Roma lo ha detto chiaramente. Ma la sua voce rimane inascoltata”.
Forse è inascoltata perché la battaglia della FIOM nella CGIL si è attenuata negli ultimi mesi, indebolendo la polemica verso i continui adattamenti della maggioranza alle pressioni del PD. Subito dopo la giornata del 9, che può essere anche occasione di nuove alleanze in molte realtà, per l’adesione di una parte notevole del sindacalismo di base, deve ripartire una lotta decisa nella Confederazione per costruire un’alternativa alla linea fallimentare della Camusso, sempre più stritolata dall’abbraccio tra il PD (che è “l’azionista di maggioranza” dell’apparato CGIL) e il governo Monti-Passera-Fornero, che non nasconde minimamente di avere in programma la cancellazione di ogni residuo di sindacalismo di classe.

7 marzo 2012

dal sito http://antoniomoscato.altervista.org/index.php



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