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venerdì 2 marzo 2012

RUSSIA: LA CRISI DEL REGIME DI PUTIN di Antonino Marceca


RUSSIA: LA CRISI DEL REGIME DI PUTIN
Un’ondata di indignazione di massa sconvolge la scenografia elettorale

di Antonino Marceca



Quando al congresso di Russia Unita, il 24 settembre 2011, veniva confermato tra gli applausi dei delegati il “tandem” tra Dmitrij Medvedev e Vladimir Putin, con il primo a guidare il partito alle legislative del 4 dicembre e il secondo candidato alle elezioni presidenziali di marzo 2012, il regime era certo di poter ottenere, grazie agli oliati strumenti della democrazia autoritaria, un risultato elettorale largamente maggioritario per Russia Unita. La presenza in Parlamento di un’opposizione costruttiva, parte della struttura di potere, sarebbe stata garanzia di legittimità per le decisioni future.
Il combinarsi delle contraddizioni della società russa con i venti di contestazione che attraversano i diversi continenti mandava un segnale inequivocabile al sistema di potere bonapartista costruito per oltre un decennio da Putin: Russia Unita perdeva il 15% dei voti rispetto al 2007, anche se, grazie ai brogli elettorali, otteneva il 49,5% dei voti e manteneva la maggioranza assoluta dei seggi alla Duma, nel contempo le piazze delle principali città russe (Mosca, San Pietroburgo, Perm, Ekaterinburg, Novosibisk, Vladivostock, Khabarovsk, Barnaul) si riempivano di manifestanti indignati che sfidavano, sulla base di parole d’ordine democratiche, la dura repressione poliziesca.
Le manifestazioni, con sempre maggiore partecipazione, si ripeteranno il 24 dicembre per la terza volta.

DA ELTSIN A PUTIN

Dopo dieci anni di potere, il gruppo dirigente che aveva guidato la restaurazione capitalistica, indebolito dagli insuccessi elettorali, veniva travolto dalla crisi economica e finanziaria dell’agosto 1998. Il crescente scontento dei lavoratori e delle masse popolari per la riduzione dei salari, la crescente disoccupazione, la caduta del tenore di vita, la crescente influenza della criminalità mafiosa, la diffusa corruzione della pubblica amministrazione, l’impopolarità della guerra in Cecenia rendevano impossibile continuare la politica precedente.
Il presidente Eltsin, i sui collaboratori e gli oligarchi della prima ondata, scelsero di scaricare gli ormai esigui partiti liberali e di stringere una stretta collaborazione con i militari e i servizi di sicurezza.
Il 16 agosto 1999 Vladimir Putin diventa primo ministro. Alto dirigente prima del KGB, poi della FSB, proveniva dalla polizia politica ed era inserito nelle nuove strutture economicofinanziarie nate dal processo di redistribuzione e privatizzazione della proprietà statale ad opera della burocrazia stalinista e restauratrice.
L’aumento dei prezzi del petrolio e del gas, i due principali prodotti che la Russia esporta nel mercato mondiale, aveva permesso al governo di ridurre il debito estero e pagare gli stipendi ai lavoratori pubblici, la seconda guerra di Cecenia e la propaganda nazionalista aveva risvegliato l’orgoglio grande russo. Tutti fattori che favorirono l’ascesa di Putin.
Eltsin dopo aver scelto Putin come suo successore alla presidenza, il 31 dicembre 1999, ormai fortemente debilitato politicamente e fisicamente, ha rassegnato le dimissioni.
Alle elezioni presidenziali del marzo 2000 Putin riceve un consenso plebiscitario.

LA COSTRUZIONE DEL REGIME AUTORITARIO

Putin rappresenta il punto di equilibrio di interessi, il compromesso fra i gruppi più influenti raggiunto ai vertici, l’arbitro tra i poteri dello stato, dell’economia e della finanza. Nel primo quinquennio dopo l’89 i 2/3 dell’alta borghesia russa erano costituiti da persone che in epoca stalinista avevano diretto grosse imprese o avevano occupato alte cariche nei ministeri e negli enti statali, con l’avvento di Putin gli “uomini in divisa”, provenienti dai vertici e dagli strati intermedi dell’esercito e dei servizi speciali, saranno chiamati ad occupare posizioni di rilievo nelle società finanziarie e industriali, sopratutto quelli legati all’esportazione dei prodotti energetici, e nell’apparato delle strutture amministrative centrali e periferiche, compresi gli enti educativi e culturali. Secondo alcune pubblicazioni la sostituzione ha coinvolto il 90% dei quadri alti dell’amministrazione e il 40% dei dirigenti di livello intermedio.
Quando nel marzo 2008 c’è stato il primo tempo del “tandem”, con l’elezione di Dimitri Medvedev a presidente e l’elezione nel maggio successivo di Putin a primo ministro, era evidente la reale gerarchia di comando.

LE ELEZIONI LEGISLATIVE E PRESIDENZIALI

La rapidità con cui Putin ha consolidato il proprio potere e la sua popolarità era legata a tre fattori principali: la guerra cecena e il terrorismo internazionale avevano agevolato la censura nei mass media e il rafforzamento delle norme e degli apparati repressivi; il boom petrolifero ha permesso di superare la crisi economica del 1998, l’avvio di un tasso di crescita industriale, in media del 6-7%, nel decennio successivo, permettendo di ridurre la disoccupazione; il quadro dei nuovi rapporti internazionali. Il consolidamento economico è stato accompagnato da una certa stabilizzazione sociale con il crollo degli scioperi anche nei settori dove erano stati costituiti, seppur ancora deboli, sindacati combattivi (minatori, insegnanti, impiegati).
La crisi capitalistica mondiale iniziata nel 2007-2008 negli Usa e lo sviluppo di forti movimenti in tutti i continenti, hanno avuto un certo impatto anche nella società russa.
I numeri delle elezioni del 4 dicembre se da un lato indicano una lieve flessione della partecipazione al voto (il 60,2%) rispetto a quattro anni prima, dall’altra vedono un incremento di tutti i partiti di opposizione presenti alla Duma: Partito comunista (PCFR) al 19,2%; Russia Giusta (centrosinistra) al 13,5%; Partito liberal-democratico (destra) al 11,7%. Altri non hanno superato lo sbarramento elettorale del 7%: Yabloco (liberali) 3,3%; Patrioti di Russia (fascisti) 1%; Giusta Causa 0,6%.

Questi risultati hanno cominciato a far scricchiolare il sistema di potere in periferia: Vlaceslav Pozgaliov, governatore della regione di Vologda e alto dirigente di Russia Unita ha presentato richiesta di dimissioni al presidente Dmitri Medvedev, in quanto è divenuto “impossibile dirigere la regione con un livello di fiducia cosi basso da parte della popolazione”.
Nelle piazze la gente indignata innalza cartelli con su scritto “elezioni pulite”, “via il partito dei ladri e degli imbroglioni”, “una Russia senza Putin”. Si tratta di rivendicazioni democratiche, mentre la classe operaia non è ancora entrata in campo in modo indipendente. Allo stato degli attuali rapporti di forza il regime certamente non accetterà di annullare le elezioni legislative tanto più che Russia Unita ha la maggioranza alla Duma.
Nel caso prevarrà una maggiore apertura democratica, come fanno pensare le proposte di riforma avanzate da Medvedev, la copertura dei media televisivi delle manifestazioni e la riduzione delle misure repressive, certamente verrà favorito nel medio periodo un certo consolidamento dell’opposizione al regime e in prospettiva la crisi del regime bonapartista.
Quello che è certo, a marzo l’elezione di Putin difficilmente sarà plebiscitaria, mentre una nuova generazione entra in campo. Questa giovane generazione non troverà nel sedicente partito comunista (PCFR), un partito di origine stalinista, lo strumento rivoluzionario che necessita.
Questa frazione della classe dominante rappresenta la base sociale di Russia Unita, il partito del presidente. Il consolidamento del regime bonapartista presupponeva una forte verticalizzazione del potere attraverso il controllo dei media, principalmente dei canali televisivi; il controllo del Parlamento e del potere giudiziario; la subordinazione delle autorità regionali a quelle federali; stabilire un nuovo rapporto di collaborazione con il clero a partire dall’introduzione nella scuola di una nuova disciplina denominata “fondamenti della cultura cristiana-ortodossa”; stabilire su nuove basi il rapporto con i grandi gruppi economici e finanziari, premere attraverso il potere giudiziario sugli oligarchi perché rinuncino a sostenere la stampa e i partiti di opposizione.

La politica sviluppata da Putin e dal suo apparato ha raggiunto i suoi principali obiettivi nel primo mandato. La costruzione del partito del presidente, Russia Unita, dall’alto e attraverso l’uso massiccio di denaro pubblico, è servito a garantire il controllo dell’apparato statale. E’ attraverso questo partito che Putin ha potuto dominare gli organi del potere esecutivo a tutti i livelli, fino a ridurre drasticamente l’autonomia politica delle strutture territoriali che compongono la Federazione Russa (province e repubbliche autonome). L’elezione diretta dei governatori regionali è stata abrogata e sostituita dalla nomina di essi da parte del centro federale, la loro autonomia di decisione è stata ridotta o abolita se in contrasto con la volontà del Cremlino. In politica estera la pretesa di Putin di esercitare un ruolo di potenza mondiale è stata duramente contrastato da parte statunitense, come ha evidenziato la guerra di Giorgia. Gli Usa di Obama sembra abbiano trovato un nuovo equilibrio: da un lato il riconoscimento della tradizionale sfera di influenza russa, dall’altro il sostegno russo alla politica americana in Nord Africa e nel Medio Oriente.
D’altra parte si è sempre più rafforzato il partenariato strategico tra Russia e Germania a partire dagli accordi bilaterali in materia di gasdotti ed oleodotti, allargatosi poi in altri settori dell’economia.


da: il giornale COMUNISTA dei lavoratori

dal sito http://www.pclavoratori.it/files/index.php


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