Diari di Cineclub

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giovedì 29 settembre 2011

15 OTTOBRE: RIVENDICARE IL DIRITTO A MANIFESTARE SOTTO I PALAZZI DEL POTERE


15 OTTOBRE: RIVENDICARE IL DIRITTO A MANIFESTARE SOTTO I PALAZZI DEL POTERE

 di Marco Ferrando

Per il 15 Ottobre si annuncia, com'è noto, una grande manifestazione di massa a Roma, nel quadro della giornata di mobilitazione europea promossa dagli indignati spagnoli contro le politiche dominanti. E' una scadenza di grande importanza, come dimostra l'ampio spettro di soggetti coinvolti e l'attenzione che sta richiamando ovunque. Tutti i soggetti di fatto promotori della manifestazione, incluso il PCL, sono dunque impegnati a garantire il massimo successo di partecipazione popolare all'iniziativa e il suo massimo impatto politico.
Al tempo stesso, nel pieno rispetto del coordinamento unitario promotore che si è costituito, riterrei sbagliata ogni rinuncia pregiudiziale a rivendicare il diritto della manifestazione a dirigersi verso i palazzi del potere: Palazzo Chigi e Montecitorio. Una proposta già avanzata dal PCL in sede di coordinamento, che voglio qui riprendere e argomentare.

IN TUTTA EUROPA SI MANIFESTA DAVANTI ALLE SEDI DEL POTERE

In tutta Europa- tanto più in questa fase- le grandi manifestazioni di massa si dirigono verso le sedi del Governo e del Parlamento. Così ad Atene in piazza Syntagma, così a Madrid, così a Londra.. Ed è naturale: perchè “il popolo” manifesta contro “il potere”. Perchè questa scelta esalta la contrapposizione politica diretta alle rappresentanze degli industriali e dei banchieri, ai loro luoghi istituzionali, ai loro partiti ( di governo e di “opposizione”). Chiedo: perchè in Italia dovrebbe essere diversamente? E soprattutto: perchè dovremmo noi rassegnarci a questa “diversità”? Proprio la giornata europea di mobilitazione contro i governi non dovrebbe costituire il momento ideale per rivendicare anche in Italia il diritto riconosciuto e praticato nel resto d'Europa? Continuare a subire una lesione della stessa democrazia borghese, nel momento stesso in cui rivendichiamo “una democrazia reale” e alternativa sarebbe – mi pare- una contraddizione singolare.

IN ITALIA GOVERNO E PARLAMENTO SCUDO DELLA PEGGIORE REAZIONE

Per di più in Italia abbiamo di fronte il governo più reazionario d'Europa ( se si fa eccezione per l'Ungheria), il Parlamento più corrotto e addomesticato della UE, tra i più alti livelli di condivisione bipartisan delle scelte di fondo della BCE e dell'Unione, sotto la benedizione congiunta di Bankitalia e della Presidenza della Repubblica. Perchè dunque proprio in Italia si dovrebbe rinunciare a manifestare sotto i palazzi del potere?
E' una rinuncia tanto più incomprensibile in questo momento politico. La frattura tra potere politico-istituzionale e senso comune popolare non è mai stata così profonda. Il governo Berlusconi è in caduta libera di consensi. Il suo blocco sociale è in disfacimento. Il Parlamento è un simulacro di complicità e di impotenza, come rivelano i salvataggi spudorati dei più corrotti faccendieri di regime( Milanese). Manifestare oggi sotto Palazzo Chigi e Montecitorio avrebbe dunque un significato politico e simbolico maggiore che in tante altre situazioni ordinarie. Non sarebbe un gesto “ideologico” e minoritario, ma un atto di profonda sintonia col più vasto sentimento popolare ( che non va abbandonato al populismo qualunquista o reazionario). Perchè allora non rivendicare apertamente questo diritto?

I POTERI FORTI VOGLIONO UN RICAMBIO POLITICO “ORDINATO”. PER QUESTO DIFENDONO LA SACRALITA' DELLE ISTITUZIONI

L'argomento ( apparentemente “di sinistra”) secondo cui la manifestazione del 15 non è “contro Berlusconi” ma contro tutte le politiche dominanti in Europa; che “non siamo ansiosi di rovesciare Berlusconi per favorire un governo Montezemolo( o simili)”; che DUNQUE è secondario e “provinciale” dirigersi su Palazzo Chigi e Parlamento, mischia confusamente giuste premesse e conclusioni sbagliate.
Il rovesciamento di massa del “proprio” governo è oggi come ieri-in ogni Paese- non solo il più grande contributo alla propagazione internazionale della ribellione sociale, ma anche un bastone tra le ruote di ogni progetto di alternanza borghese. I poteri forti che stanno lavorando a rimpiazzare Berlusconi con un più diretto governo dei banchieri hanno bisogno di un quadro di pace sociale e di ordine pubblico. Di ritessere la concertazione con la Cgil ( ben ricambiati). Di disporre di una scacchiera sgombra da ogni irruzione di massa. Il loro terrore è che la crisi del berlusconismo e della seconda Repubblica possa trascinare con sé ripresa di conflitto e “disordine” di piazza.. Da qui il cantico della “solidarietà nazionale” attorno alle “Istituzioni”, propagato da tutta la stampa borghese e recitato solennemente da Napolitano. Da qui anche.. la difesa della “sacralità” del Parlamento, di Piazza Montecitorio, di Piazza Colonna, di tutti i luoghi istituzionali. Sino alle grida isteriche e bipartisan di fronte alla più piccola e innocua manifestazione di protesta davanti al Palazzo come è recentemente avvenuto.

UNA MANIFESTAZIONE STRAORDINARIA PER LA RIVOLTA SOCIALE

Per queste stesse ragioni una grande manifestazione di massa davanti a Governo e Parlamento, non è solo un diritto democratico, ma un atto politico che collide con tutta la logica dell'alternanza e dei poteri forti. Perchè è un atto che allude -fosse pure simbolicamente- alla prospettiva della rivolta sociale: l'unico fattore capace di rovesciare Berlusconi dal versante delle ragioni dei lavoratori e non dei banchieri, di spostare i reali rapporti di forza, di aprire la via ad un'alternativa vera.
Il punto vero è se vogliamo PROVARE a investire la manifestazione del 15 Ottobre in una prospettiva di reale ribellione di massa, nel cuore della crisi italiana ed europea, oppure se la concepiamo PREGIUDIZIALMENTE come una ordinaria manifestazione di propaganda: naturalmente importante, naturalmente di massa, ma destinata di fatto a lasciare le cose come stanno, al pari di tutte le tradizionali manifestazioni d'autunno. Questo è il bivio.

LIBERARSI DA UNA PREGIUDIZIALE RINUNCIATARIA

L'obiezione secondo cui non ha senso chiedere di dirigersi su Palazzo Chigi perchè “tanto non ce lo concedono”, ” rischiamo di aizzare estremismi e avventurismi” “non ci sono i rapporti di forza” ecc., riflette una psicologia politica rinunciataria. Se gli oppressi dovessero rivendicare solo ciò che “viene loro concesso” la storia umana avrebbe fatto pochi passi in avanti. Rivendicare l'”impossibile” è da sempre la condizione decisiva per ottenere “possibili” conquiste: così è stato per il diritto di sciopero, così è stato per il diritto di votare e manifestare. I rapporti di forza si modificano con la lotta politica e di massa, a partire dalla rivendicazione di ciò che è giusto. Non con la rinuncia a rivendicare ciò che è giusto nel nome “dei rapporti di forza”. E ciò è tanto più vero, concretamente, qui e ora: di fronte a un governo reazionario,profondamente indebolito, attraversato da una furiosa guerra per bande, sempre più odiato o detestato dalla maggioranza dei lavoratori e del popolo. Rivendicare pubblicamente il diritto a manifestare sotto i palazzi del potere, fare del prevedibile rifiuto del governo un caso di scandalo pubblico, potrebbe essere di per sé un volano di preparazione della manifestazione di massa contro un governo che “rifiuta ciò che si concede nel resto d'Europa”. Peraltro proprio il rifiuto pregiudiziale a rivendicare pubblicamente questo diritto,a premere per la sua affermazione, a preparare organizzativamente e unitariamente la gestione di piazza di questa rivendicazione, rischia questo sì di lasciare spazio a iniziative avventuriste “fai da te”, magari in ordine sparso, estranee ad una logica di massa, a scapito dell'impatto politico del 15 ottobre.

PREGIUDIZI COSTITUZIONALI E SPIRITO DI ROUTINE

In realtà le resistenze di alcuni settori a rivendicare un diritto democratico così elementare mi pare abbia un sottofondo politico, che sovrappone due elementi diversi.
Su un versante, agisce la lunga tradizione, tipicamente italiana, della mitologia costituzionale, che ha attraversato l'intero dopoguerra, e che ha seminato una cultura reverenziale verso le “istituzioni” dello Stato, maggiore che in altri Paesi  (per cui ad esempio la Presidenza della Repubblica è largamente venerata nella stessa ”sinistra radicale” anche quando sorregge l'odiato Berlusconi e chiede misure più severe i lavoratori).
Su un altro versante, anche in ambiti di “estrema sinistra”, opera uno spirito di routine, che fa della contestazione del potere uno spazio di propria caratterizzazione più che un investimento nella prospettiva di rivoluzione: per cui spesso il problema centrale di una manifestazione, al di là delle parole d'ordine formali, non è il suo investimento nell'azione di massa e nel suo sviluppo, ma solo la conquista di uno spazio d'immagine a livello mediatico e di una buona critica di opinione della stampa “democratica”. Utile magari in qualche caso per negoziare a futura memoria un accordo col centrosinistra, in altri casi a strappare solo lo scampolo di una benevola intervista. Ma sempre in un ottica segnata dall'interesse autoconservativo di un piccolo o grande “ceto politico”, non dall'interesse generale di una prospettiva di emancipazione e liberazione.
Questo retroterra culturale, sempre distorto, rischia di diventare tanto più conservatore nei momenti straordinari della vita politica e sociale : quando non si tratta di vivere di routine, ma di assumersi le proprie responsabilità di fronte a snodi politici di fondo. La crisi della seconda Repubblica e la “catastrofe” italiana, dentro la più grande crisi dell'Europa capitalista, è esattamente uno di questi momenti.

IN CONCLUSIONE

Parteciperemo dunque col massimo impegno alla manifestazione del 15 Ottobre, nel rispetto del suo spirito unitario e delle scelte che il coordinamento promotore - di cui siamo parte- farà. Ma senza rinunciare al nostro punto di vista. Senza rinunciare a proporre la massima combinazione di unità e radicalità. Senza rinunciare a lavorare perchè ogni manifestazione di questo autunno sia investita nella prospettiva di una sollevazione di massa per una svolta vera. Fuori e contro ogni forma di conservatorismo, e di ogni logica rinunciataria.

26 Settembre 2011


dal sito  http://www.pclavoratori.it/files/index.php?c1:o57:e1

lunedì 26 settembre 2011

CI SONO O CI FANNO? di Dino Erba


CI SONO O CI FANNO?



MILANO, 24 SETTEMBRE 2011.
2a GIORNATA DELLA COLLERA (SI FA PER DIRE...)

TRISTI NOTE A MARGINE DI UNA MANIFESTAZIONE INUTILE E, SOPRATTUTTO, FUORVIANTE

di Dino Erba

Sabato 24 settembre, la CUB (di tiboniana osservanza) ha organizzato una manifestazione a Milano contro la manovra finanziaria d’agosto. L’iniziativa ha coinvolto il Comitato immigrati. Plagiando quanto avviene in Libia e in altri Paesi arabi, la manifestazione è stata definita GIORNATA DELLA COLLERA...
Sappiamo benissimo che la manovra governativa è una vera e propria rapina ai danni dei proletari. Ma sappiamo anche che questa rapina nasce dalla crisi sistemica del modo di produzione capitalistico.
Ed è contro di esso che dobbiamo indirizzare la nostra lotta.
Le cronache finanziarie di questa calda estate vedono un continuo crollo delle borse: da Tokio a Wall Strett, passando per Hong Kong e Milano. E non è finita.
È evidente che questa crisi non può essere risolta con gli espedienti di Tremonti e di Bersani & Co. Ma neppure con espedienti demagogici e populisti, come quelli avanzati da Tiboni e dai suoi seguaci della CUB.
Costoro, di fronte alla mazzata che ci sta cadendo tra capo e collo, ci propongono «un percorso di lotta per realizzare un vero Sciopero Generale da costruire con un ampio fronte sociale per il rovesciamento del
modello di sviluppo fondato su finanza, competitività e produttività, a favore di un sistema fondato sui beni
comuni, la ridistribuzione del reddito, il diritto al lavoro e ecosostenibile». E rivendicare:

1. Introduzione di una patrimoniale sui grandi patrimoni.


2. Contrasto all’evasione fiscale; alla corruzione, al lavoro in nero, agli infortuni sul lavoro, truffe alla U.E. per le zone depresse, ecc. ( il tutto vale circa 400 miliardi annui, 8 volte la manovra).


3. Taglio delle spese per la guerra revocando l’acquisto dei caccia bombardieri F 35 che hanno un costo di 16 miliardi e eliminare le spese militari in genere.


4. Potenziare la sanità pubblica, eliminare i ticket spostando le risorse oggi utilizzate per il business della sanità privata.


5. Tagliare la spesa pubblica le inutili grandi opere, le consulenze, gli stipendi d'oro, i costi eccessivi della politica e delle clientele.


6. Parità di diritti tra lavoratori italiani e migranti; diritto all’asilo ai rifugiati in fuga dalle guerre, dalla fame e dalle dittature; cittadinanza per i nati in Italia permesso di soggiorno per chi perde o ha un lavoro o denuncia il lavoro in nero.


7. Accordi bilaterali con tutti gli stati per l’unificazione dei contributi pensionistici versati.

SIMILI CORBELLERIE, DOVREBBERO FARCI RIDERE...

Purtroppo, oggi, ci fanno piangere. Almeno a Milano. Per non parlar di Atene ...
Per prima cosa: chi e come dovrebbe gestire queste misure? Il governo? E quale governo? Visto che non c’è alcun accenno a organismi proletari. Non c’è da stupirsi. Dietro a un generico fronte di «lavoratrici e lavoratori», il concetto di AUTONOMIA POLITICA PROLETARIA è del tutto assente. Il che lascia presumere «fronti» politici dai contorni assai labili, aperti a ogni compromesso.
Così facendo, gli esponenti della CUB, in una città come Milano, attraversata da profondi contrasti sociali (non solo per la crisi sistemica), portano vaselina per favorire le inculate ai danni dei proletari. Soprattutto di quelli immigrati.

Veniamo al dunque.

Sabato 24 settembre, la CUB ha organizzato una manifestazione, contro la rapina ai danni dei proletari eha cercato una sponda da parte degli immigrati (extra comunitari), che hanno molte altre gatte da pelare.
Alcuni immigrati, il 10 settembre, avevano rilanciato la spinosa questione del permesso di soggiorno (contro la sanatoria truffa), e per dar fiato alla loro protesta, erano saliti sulla «torre» di piazzale Selinunte (zona San Siro). L’iniziativa ha trovato sponsor interessati.

Procediamo con ordine.

IN CHE GIORNO E A CHE ORA LA CUB HA ORGANIZZATO LA MANIFESTAZIONE?
SABATO POMERIGGIO (forse, la CUB non voleva turbare una giornata lavorativa...).

DOVE?
AL CENTRO DI MILANO. Nelle vie dello shopping ... e della moda. Ad alta visibilità mediatica, ma a bassa (se non nulla) sensibilità sociale.

CHI HA PARTECIPATO?
Circa 300 (dicasi TRECENTO) persone (a esser generosi). Ovvero, i soliti militanti in servizio permanente effettivo. Cui si sono aggiunti alcuni sparuti (e, ahimé, sprovveduti) gruppi di immigrati (malgrado gli appelli di cubiste e cubisti). E ci fa piacere che ci siano, perché, malgrado tutto, i rapporti di solidarietà internazionalista ci sono. E non dobbiamo bruciarli. Dobbiamo metterli su un terreno di classe, chiarendo i rapporti che ci sono tra padroni e operai, tra sfruttatori e lavoratori, tra borghesi e proletari ... in Italia, come nel resto del mondo, altrimenti, è meglio andare a scopare i mare. Si fanno sicuramente meno danni. Non dimentichiamo che fu grazie agli «amici degli amici» (coloro che tenevano i rapporti con le istituzioni: Comune, Camera del Lavoro, Curia, Prefettura ecc. ecc.) che la lotta della torre di via Imbonati (novembre-dicembre 2010) finì a tarallucci e vino (ma non fu così per i giovani immigrati, che furono spediti prima nei CIE e poi nel paese d’origine).

CI SONO O CI FANNO?

Parliamoci chiaro, di fronte allo tsunami della crisi, e soprattutto di fronte alle incombenti lotte dei proletari (come per esempio la lotta dei lavoratori immigrati delle cooperative, organizzata dal SICOBAS) le iniziative della CUB tiboniana assumono un significato retrivo e fuorviante. Tra l’altro, dal giorno prima, venerdì 23, gli operai della cooperativa Asso, presso la Ceva logistica di Cortemaggiore,sono in sciopero, con presidio permanente davanti ai cancelli della fabbrica. Ma queste lotte non turbano più di tanto CUBISTE & CUBISTI.

E allora, viene naturale domandarsi:
CI SONO O CI FANNO? Ovvero: sono sciocchi o sono furbi?
Volere o volare, le loro iniziative si rivelano come furbeschi diversivi, per gettar confusione sulla natura e sulle conseguenze della crisi economica, che ci sta travolgendo.
Invece di organizzare manifestazioni e iniziative di lotta nei quartieri popolari, come il quartiere San Siro (quello della torre di piazzale Selinunte), dove DISOCCUPAZIONE CAROVITA E CASA sono di scottante attualità, CUBISTE &; CUBISTI dirottano la protesta nel «quadrilatero della moda». Così facendo, CUBISTE & CUBISTI fanno spettacolo per gli affaristi, i faccendieri e le escort, a spasso per lo shopping. Costoro, a differenza di noi, spendono espandono, e qualche sorrisetto di sufficienza possono anche lanciarlo, ai quei quattro sciamannati che vusen, per San Babila, il sabato pomeriggio.

CHE DIRE E CHE FARE?
Ci sono compagne e compagni coinvolte/i in queste infelici iniziative, che dovrebbero ragionare su quanto sta avvenendo, e farsi parte attiva per difendere gli interessi dei proletari.
Senza farsi trascinare in un’apparente unità di lotta, che di fatto è al carro dei padroni e dei loro servi più o meno sciocchi.
Dicevamo: stiamo nelle fabbriche e nei quartieri proletari, e difendiamo il salario, la casa e la spesa. E domani, forse, avremo la voce e la forza per andare nei centri della finanza & della moda. Per scopar via sfruttatori e parassiti.

 Milano, 25 settembre 2011

L'APPELLO DI CREMASCHI: DALL'INCIPIT RIVOLUZIONARIO ALLA CODA RIFORMISTA di Michele Basso


L'APPELLO DI CREMASCHI: DALL'INCIPIT RIVOLUZIONARIO ALLA CODA RIFORMISTA
di Michele Basso




L’avvento del proletariato è la distruzione
del credito borghese; perché è la distruzione
della produzione borghese e del suo ordinamento.
Il credito pubblico e il credito privato sono
il termometro economico col quale si può
misurare l’intensità di una rivoluzione.
Nella stessa misura in cui essi precipitano,
salgono l’ardore e la forza creatrice della rivoluzione”.

(Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850)


Queste parole di Marx sono intese da molti, che pur si dicono marxisti, come pura letteratura. I revisionisti bernsteiniani consideravano tali posizioni un residuo del periodo rivoluzionario borghese, che il proletariato “maturo” doveva gettarsi alle spalle.

A prima vista, sembra che l’appello “Dobbiamo fermarli: 5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche”, abbia superato i limiti del riformismo. Infatti comincia con l’invito a non pagare il debito.“Caspita, questi chiedono la bancarotta dello stato!” è la prima reazione, e il pensiero va alle parole d’ordine rivoluzionarie dell’ ”Indirizzo al Comitato centrale della Lega dei comunisti” o delle “Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”. Ma l’entusiasmo scompare con le righe successive: “Occorre fermare la voragine degli interessi del debito con una vera e propria moratoria”. Moratoria, un provvedimento legislativo che sospende la scadenza delle obbligazioni. Il debito non viene eliminato, ma sospeso. La bandiera rossa della rivoluzione viene ammainata. Il diluvio della bancarotta dello stato, che doveva travolgere l’aristocrazia finanziaria, viene sostituito da una pioggerella artificiale, che porta al consolidamento del debito, cioè la trasformazione di un debito a breve termine in uno a medio o a lungo termine. I primi governi borghesi prevedevano la prigione per debiti, quelli odierni prevedono una sorta di libertà vigilata, le catene della schiavitù sono allentate, ma si estendono alle generazioni successive, per cui i neonati, quando vedono la luce, sono già indebitati. Nascono schiavi del debito, in cattività come gli animali dello zoo. Non equivochiamo: non si tratta di lanciare oggi un’offensiva rivoluzionaria, viste le condizioni di disgregazione delle forze proletarie. Si tratta di chiarire che la soluzione non viene da una moratoria, lo spostamento nel tempo dei problemi, ma può venire esclusivamente dalla conquista del potere da parte dei lavoratori e dal superamento del capitalismo.

In sede sindacale si possono fare rivendicazioni anche modeste, ma è grave presentarle, non come semplici boccate di ossigeno, ma come soluzioni dei problemi. Molto meglio documenti senza frasi pseudorivoluzionarie, perché compito dei marxisti non è spargere illusioni, ma aiutare i lavoratori a superarle, e a imboccare la via della lotta contro il sistema, che non richiede proclamazioni retoriche, ma una cruda esposizione della realtà e delle difficoltà da affrontare.

Eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino”. Ma perché non citare il paradiso per eccellenza, il Vaticano, col suo Ior e i banchieri di Dio, che persino la stampa borghese ha denunciato, perché al centro di gigantesche speculazioni finanziarie, che portano il nome dei banchieri di Dio, da Sindona a Calvi e a Monsignor Marcinkus?

Intervento pubblico nelle aziende in crisi”. E’ piuttosto generico, può voler dire espropriarle, ma anche dare soldi agli imprenditori, trovando in ciò l’accordo di molti borghesi. Favorire l’autogestione degli operai? Ricorda più la Jugoslavia di Tito che il bolscevismo. Se, invece, si vuole parlare di controllo operaio, ha senso nel quadro di una dittatura del proletariato, non certo in una repubblica borghese, con “la costituzione più bella del mondo” (Bersani dixit).

Bellissima la proposta: “I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima”. Ricorda un cartello esposto in un vecchio festival dell’Unità, con scritto “Meno sfruttamento!”. Gli estensori del manifesto non temono certo di essere definiti minimalisti.

Il punto 4 ricomincia con la solfa del nuovo modello di sviluppo, che dovrebbe sottrarre al mercato le principali infrastrutture e i principali beni. In un’economia di mercato tutto è merce. Il fallimento dei tentativi dei socialisti utopisti di costruire isole di socialismo nel mare del mercato dovrebbe avere insegnato qualcosa. Non è possibile sottrarre al mercato neppure le famose “coscienze individuali”. La trasformazione del parlamento in una Borsa, in cui i parlamentari sono quotati, in vendita permanente, ne è un esempio.
Nazionalizzare un bene, non vuol dire sottrarlo al mercato, finché esistono salario, prezzo, profitto, rendita, interesse, ecc. Se i trasporti sono pubblici, il prezzo del biglietto potrà essere contenuto, ma i costi saranno coperti in parte da imposte. Queste riforme, poi, da quale potere possono essere decise? Da un governo borghese? Un appello può e deve avere un linguaggio semplice, ma ciò non giustifica pressapochismi e affermazioni infondate.

E veniamo alla ciliegina sulla torta, il punto 5: “Una rivoluzione per la democrazia”. Se le parole hanno un senso, la rivoluzione democratica è quella che rende possibile il pieno sviluppo del capitalismo. Parola validissima nella Francia del Settecento, nella Russia del 1905. I menscevichi nel 1917 furono condannati dalla storia, perché non ebbero il coraggio di condurla fino in fondo, rompendo con la borghesia ormai controrivoluzionaria e alleandosi con le masse contadine. E ora ci si ripresenta questa minestra riscaldata della rivoluzione democratica nella fase senile del capitalismo, in cui la borghesia si è trasformata in una classe parassitaria e putrefatta?

La costituzione, che garantirebbe i diritti dei lavoratori a parole, garantisce assai meglio la proprietà privata. Tutti coloro che si richiamano alla costituzione, e in essa pretendono di inquadrare tutte le lotte, volgono le spalle al socialismo, che prevede l’espropriazione e la socializzazione della proprietà privata.

Quei compagni che si richiamano al marxismo, e tuttavia hanno firmato il manifesto, quando smetteranno di cercare di sedersi tra due sedie?

25 settembre 2011

dal sito  http://www.sottolebandieredelmarxismo.it/

venerdì 23 settembre 2011

FEMMINISMO RIVOLUZIONARIO E IDENTITA’ MASCHILI: di Marco Piracci


FEMMINISMO RIVOLUZIONARIO E IDENTITA' MASCHILI:
LA NECESSITA' DI UN CONFRONTO

di Marco Piracci


Data l'importanza e l'ampiezza dell'argomento trattato, questo articolo vuole essere solo un semplice incipit ad un approfondimento più ampio e specifico. Sulla necessità di confronto e d'unificazione tra il movimento femminista rivoluzionario e le nuove identità maschili è stato detto molto poco. Con questo articolo mi auguro di riuscire a stimolare il più possibile la discussione.
Il femminismo è di fatto, un movimento complesso ed eterogeneo, che si è sviluppato con caratteristiche peculiari in ogni paese ed epoca. Sono molteplici le autrici che hanno contribuito a definire e ri-definire il concetto di femminismo e le pratiche politiche ad esso connesse. Al suo interno ci sono dunque diverse posizioni e approcci teorici, tant'è che ad oggi alcune studiose, teoriche e/o militanti femministe parlano di femminismi. In particolare esistono teorie contrastanti riguardo l'origine della subordinazione delle donne ed in merito al tipo di percorso che dovrebbe essere portato avanti per liberarsene: se lottare solo per le pari opportunità tra uomini e donne, se criticare radicalmente le nozioni di "identità sessuale" e "identità di genere", oppure, se eliminare alla radice i ruoli e quindi tale subordinazione. Proprio quest'ultima proposta che rimanda ad una trasformazione radicale della società, caratterizza buona parte del femminismo rivoluzionario e si lega inevitabilmente a un'emancipazione anche maschile. L'oppressione del modello sociale patriarcale continua a dispiegare la sua forza. Il bisogno di liberarsi da tale oppressione, e il legame necessario ad una lotta di liberazione più ampia che investa necessariamente non solo il genere femminile ma anche quello maschile, è stato bene messo in luce da Hebert Marcuse ed Erich Fromm, . In particolare quest’ultimo ha illustrato quanto e come l'ideologia oppressiva capitalistica si leghi al patriarcato. La necessità di liberarsi da tale canale di potere opprimente rimanda alle capacità umane di liberarsi dalle pressioni della cultura dominante. L'opera "L'arte d'amare" sottolinea proprio come molti aspetti propri dell'amore siano insiti nella donna (nelle sue caratteristiche biologiche, ancor prima di quelle sociali):

Al di là dell'elemento del dare, il carattere attivo dell'amore diviene evidente nel fatto che si fonda sempre su certi elementi comuni a tutte le forme d'amore. Questi sono: la premura, la responsabilità, il rispetto e la conoscenza. L'amore è premura soprattutto nell'amore della madre per il bambino. Noi non avremmo nessuna prova di questo amore se la vedessimo trascurare il suo piccolo, se lei tralasciasse di nutrirlo, lavarlo, curarlo; e restiamo colpiti dal suo amore se la vediamo assistere il suo bambino (1) ”.

Anche nella sfera sessuale, la donna deve sviluppare una forma d'amore volta all'accettazione dell'altro, al suo accoglimento. Lei dà attraverso il ricevere. Questo aspetto investe e può caratterizzare il comportamento a livello sociale:

L'esempio più elementare sta nella sfera del sesso. Il culmine della funzione maschile è l'atto di dare; l'uomo dà se stesso, il suo organo sessuale, alla donna. Nel momento dell'orgasmo le dà il suo seme [...]. Per la donna il processo non è diverso anche se in un certo senso più complesso. Anche lei si dà; apre tutto il suo essere; nell'atto di ricevere, dà. Se è incapace di questo atto di dare, se può solo ricevere, è frigida. L'atto di dare si ripete, per lei, oltre che nella sua funzione di amante, in quella di madre. Dà al bambino che cresce in lei, dà il suo latte al neonato, gli dà il suo calore fisico (2)”

Ma sono mai esistite società improntate alle caratteristiche specifiche dell'essere donna? La risposta è si e gli esempi sono numeri. Basta sfogliare libri divenuti ormai classici come "Il matriarcato" e "Il simbolismo funerario degli antichi" di Johann Jakob Bacophen o "L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato" di Friedrich Engels. E' proprio quest'ultimo ad affermare:

Il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile. L'uomo prese nelle mani anche le redini della casa, la donna fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per produrre figli (3) “.

Nel primo paleolitico, caratterizzato da un' economia basata sulla raccolta e ,secondariamente, sulla caccia, non esiste ancora la famiglia modernamente intesa, né subordinazione all'uomo della donna che viene anzi onorata come fonte di vita e di fecondità:

l'amministrazione comunistica nella quale le donne, per la maggior parte, se non tutte, appartengono a una medesima gens, mentre gli uomini provengono da diverse gentes, è il fondamento oggettivo del predominio delle donne, generalmente diffuso all'epoca delle origini (4) ”.

Oggi, la letteratura che si occupa di società primitive improntate alle caratteristiche femminili sta conoscendo una piacevole diffusione. A titolo di esempio, si citano gli interessanti volumi di Luisa Muraro "L'ordine simbolico della madre", Sara Morace "Origine donna" e James Frazen "Matriarcato e dee madri".
Sfortunatamente però, l'apporto di questi scritti rimane inspiegabilmente assente da molti altri testi di riferimento del pensiero femminista. C'è insomma una curiosa rimozione: si parla di transizione al patriarcato senza illustrare da dove si transita, di società semi-patriarcale senza soffermarsi sulla parte non patriarcale, di predominio della famiglia o clan patriarcale senza illustrare le forme che hanno guidato questa instaurazione. Ad esempio ne "Il secondo sesso" di Simone de Beauvoir, da cui molti filoni teorici del femminismo contemporaneo prendono spunto, emergono in maniera limpida queste lacune:

“[...] atta a evocare le larve ancestrali e a nutrirle nel seno, ella ha anche il potere di far scaturire dai campi seminati i frutti e le spighe. In ambedue i casi non si tratta di un'operazione creatrice ma di un rito magico. E sono i misteriosi effluvi sprigionati dal corpo femminile che attirano in questo mondo le ricchezze nascoste dalle sorgenti misteriose della vita. Tali credenze sono ancora vive oggi in numerose tribù di Indiani, di Australiani, di Polinesiani (5 ) ”.

In realtà, nella cultura accademica, la scuola si fa iniziare dall'apparizione dei documenti scritti. I primi esempi di scrittura risalgono al 3.000 a.C. e furono prodotti in Egitto e Mesopotamia. Nata da esigenze relative al commercio, la scrittura venne rapidamente utilizzata per regole e leggi. E' oggi indubbio che la scrittura sia comparsa in una fase già avanzata dello sviluppo sociale nel quale è comparsa una classe che detiene il potere e specialisti che ne regolano gli affari. Tale fase marca indubbiamente un punto di passaggio di un processo avviato alcuni anni prima. Se si considera però che l'homo sapiens-sapiens è comparso circa 100.000 anni fa si può fare un paragone tra la storia ufficiale e la storia reale della nostra specie. Questa storia reale comprende passaggi fondamentali come lo sviluppo di una cooperazione per sopravvivere, la creazione degli strumenti per procurarsi cibo e riparo. E' nella preistoria che si è inventato il linguaggio. Come sottolinea Sara Morace nel suo "Origine donna":

Abbiamo a disposizione un'infinità di residui durevoli della cultura materiale e metodi di datazione che con l'analisi al radiocarbonio hanno corretto molti errori del passato e aperto strade potenzialmente rivoluzionarie nella ricerca. In teoria possiamo conoscere un'infinità di dettagli sulla vita di un aggregato umano della preistoria applicando in maniera coordinata tutte le discipline e tutte le tecnologie a disposizione con un vero lavoro d'equipe sul campo (6) “.

Quello che mi preme qui sottolineare, è che proprio queste caratteristiche femminili improntate all'amore, possono ritrovarsi in numerose nuove identità maschili. Fino a poco tempo nessuno pensava di mettere in discussione "l'uomo". La mascolinità doveva essere di per sé evidente e naturale. Ma ciò che negli ultimi cinquant'anni è accaduto in tutto l'Occidente ha mandato in pezzi quell'evidenza millenaria: la lotta di liberazione femminile ha costretto fortunatamente gli uomini a ripensarsi. L'identità maschile contro cui il movimento femminista si è mosso, è andata profondamente in crisi. Lo attestano non solo migliaia di ricerche di psicologi e medici, ma anche l'evidenza percepibile in ogni momento della vita quotidiana (7). E' in questa trasformazione che devono inserirsi le prospettive di cambiamento della società in senso egualitario. E' in questo processo che occorre inserire una prospettiva di trasformazione radicale della società. Occorre ripensare sia l'identità maschile che quella femminile in funzione di una prospettiva di liberazione generale.
Una liberazione femminile improntata ai valori del capitale che cammini di pari passo con lo sfruttamento sociale, non sarebbe una reale liberazione femminile. Non lo sarebbe per molteplici motivi.
Il capitale richiede un' uniformazione al suo potere. La mercificazione del corpo, la costrizione ad apparire, al conformismo con i criteri dominanti, ai modelli di bellezza estetici del momento è semplicemente schiavitù.
La libertà dei sessi di gestire il potere, è una libertà che rinnega proprio i valori insiti nella natura femminile. Se la donna rinuncia alla dolcezza, alla premura, all'amore per il prossimo, rinuncia alla sua vera liberazione. Se non trascina l'uomo verso un modello di società femminile così intesa, non perde solo la sfida che la storia le pone davanti. Perde qualcosa di più grande. Di molto più grande. Perde la sua dignità e la sua natura. Perde la sua liberazione.

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NOTE

(1) Erich Fromm, L'arte di amare, Il saggiatore1971, p.41.

(2) Ibidem, p.38.

(3) Friedrich Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Samonà e Savelli, p. 84

(4) Ibidem, p. 76.

(5) Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il saggiatore 1979, p.98.

(6) Sara Morace, Origine donna. Dal matrismo al patriarcato, Prospettiva edizioni, 1997, p.27.

(7) Per un approfondimento si rimanda al libro di Elisabeth Badinter, L'identità maschile, Longanesi & C., 1998.

dal sito http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/

domenica 18 settembre 2011

DIO CI SALVI DAI "LIBERATORI" di Michele Basso


DIO CI SALVI DAI "LIBERATORI"
di Michele Basso


In crescente difficoltà sul piano economico, i paesi imperialisti cercano di scaricare i loro problemi interni attraverso il più classico dei rimedi, la guerra. La politica estera è la continuazione di quella interna, e gli sfruttatori, che usano diverse forme di coercizione nel proprio paese, dalle varie polizie alla magistratura, per metter a tacere le reali opposizioni (per quelle gattopardesche come il PD basta un Berlusconi qualsiasi), adoperano la forza dello stato anche verso l’esterno, per imporre ai paesi più deboli una politica che soddisfi a pieno le esigenze delle multinazionali.
I tempi sono cambiati rispetto ai primi decenni del secolo scorso e la terminologia del colonialismo è fuori moda. Non si parla più di conquistare un paese, di assoggettarlo, ma di “liberarlo” da un tiranno. Non importano i mezzi usati, i missili a uranio impoverito, la viltà senza pilota dei predator, l’invio di mercenari - pudicamente denominati “Contractors” - o di armi in palese violazione delle stesse indicazioni dell’ONU - che finge di non vedere, o che, se costretto a vedere, non fa nulla. Stampa e Tv rappresentano il coro della menzogna, che deve sciorinare mille storie: il viagra dato ai soldati per indurli a violentare le donne, un normale cimitero spacciato per una fossa comune, i bombardamenti sulla folla in piazza, atrocità inventate per nascondere quelle autentiche dei bombardamenti “mirati”, con gli ovvi “effetti collaterali”.
A quale paese toccherà ora, alla Siria, all’Iran? Quali che siano le colpe dei regimi, i bombardamenti colpiscono le popolazioni, ma i “liberatori” sono pronti a sacrificarle.
La guerra degli schiavisti, espressione politica dei banchieri, dei lupi di borsa e dei capitalisti in generale, non ha ancora incontrato una sufficiente opposizione nelle metropoli.
Un tempo gli imperialisti si dividevano le colonie: Iraq e Palestina alla Gran Bretagna, Siria e Libano alla Francia, alla faccia degli arabi, che avevano combattuto per essere indipendenti dai Turchi. Allora c’era un Laurence d’Arabia, forse non interamente consapevole del ruolo a cui il suo governo l’aveva destinato, ora ci sono agenti segreti e mercenari, pienamente consci del loro compito brigantesco. E ci sono Sarkozy e Cameron, che pretendono di giocare la parte dei protagonisti.
Però, mentre si pavoneggiavano a Tripoli nei panni dei “liberatori”, acclamati come eroi, le dichiarazioni dell’ambasciatore Ivo Daalder, rappresentante Usa presso la Nato, dimostravano quanto ridicola fosse la vanagloria dei due superuomini:

“...il 27 marzo, la direzione è passata dal Comando Africa degli Stati Uniti alla Nato comandata dagli Stati uniti. Sono loro, precisa Daalder, che hanno diretto l'iniziativa per ottenere dal Consiglio di sicurezza il mandato e far decidere la Nato a eseguirlo... Sono sempre gli Stati Uniti che hanno diretto la pianificazione ed esecuzione della guerra. Sono loro che all'inizio hanno neutralizzato la difesa aerea libica e continuato a sopprimere le difese per tutto il corso del conflitto, impiegando Predator armati. Sono loro che hanno fornito il grosso dell'intelligence, individuando gli obiettivi da colpire, e hanno rifornito in volo i cacciabombardieri alleati. Ciascuno di questi elementi, è stato decisivo per il successo dell'operazione, con la quale la Nato ha distrutto oltre 5mila obiettivi senza subire alcuna perdita.” (1)

Si vedono chiaramente i rapporti di forza, e si capisce che Francia e Gran Bretagna sono imperialismi vassalli (quello italiano, valvassino), ossia fanno parte della banda di briganti che sfrutta il mondo, ma in posizione subordinata. E questo dà la possibilità all’angelico Obama di presentarsi come colui che non voleva la guerra, trascinato dalla protervia di Sarkozy, costretto a intervenire per non lasciare nei guai gli alleati, pur essendo più vicino alla cautela di Robert Gates che all’impeto della signora della guerra Clinton. Una recita, quella dell’hollywoodiano premio Nobel per la pace, che gli permette di respingere l’assalto di coloro che gli rinfacciano la spesa eccessiva: la libertà (del capitale, aggiungiamo noi) non ha prezzo. Il territorio libico sarà la testa di ponte per la penetrazione militare, politica, finanziaria, visto che Francia e Gran Bretagna non sono in grado da sole di frenare l’avanzata cinese (a suon di dollari, per quanto sembri paradossale, ma la Cina ne ha una valanga).
Non la vecchia spartizione tra imperialismi indipendenti, ma la delega USA a Francia e Gran Bretagna a fare la guerra, a occupare paesi. Sarà intatta, però, la fetta del padrone di oltreoceano. Agli imperialismi gregari come l’Italia, poi, vengono richiesti sacrifici senza ricompense. Il governo accetta senza protestare, con La Russa, Frattini e tutta l’opposizione ancora più masochisti.
Una tremenda delusione per quei nazionalisti, vecchi e nuovi, di destra e di sinistra, che immaginavano un Berlusconi erede di Mattei, o del Craxi di Sigonella, in difesa dell’ENI, e dei rapporti con l’Iran, la Libia, la Russia, sulla questione dell’oleodotto South Stream. Sui rapporti con l’Iran il cedimento è stato immediato, per quanto riguarda la Libia il governo ha partecipato alla guerra contro gli interessi dell’imperialismo italiano; cederà anche sull’amico Putin. I nazionalisti hanno puntato su un uomo ricattabile, duro con i deboli (pensionati, precari, immigrati), ma di pastafrolla con i potenti. Noi internazionalisti non piangiamo per le sconfitte dell’imperialismo patrio, a noi interessano le sorti dei lavoratori, che devono scegliere se subire tutte le angherie di una classe dirigente corrotta e incapace, oppure riscoprire le vie della lotta, come hanno saputo fare tante generazioni prima di noi.


16 settembre 2011


Note

1) Manlio Dinucci, “ L’arte della guerra. Sia chiaro chi ha il comando”, il Manifesto, 13-9-2011.


dal sito  http://www.webalice.it/mario.gangarossa/sottolebandieredelmarxismo.htm

martedì 13 settembre 2011

ISLANDA: UN MODELLO SILENZIOSO di Deena Stryker



ISLANDA: SCEGLIERE TRA ESSERE CUBA O HAITI?
di Attilio Boron

Islanda: un pessimo esempio che la destra e i media si sforzano di nascondere agli occhi dell'opinione pubblica. Recupero della sovranità popolare, mancato pagamento dei debiti, banchieri in galera! Questo è inaccettabile e pericoloso, se nel bel mezzo dell'inquietudine che vive l'Europa si produce un contagio. Quindi meglio continuare a parlare fino al disgusto di Gheddafi e delle lussuose ville in cui lui e la sua famiglia viveva prima della caduta del regime. E una volta che questa fonte di notizie sarà esaurita, cercheremo nuove distrazioni. Qualsiasi cosa, purché non si parli dell'Islanda.



ISLANDA: UN MODELLO SILENZIOSO, SENZA TRASMISSIONE TELEVISIVA
di Deena Stryker

Si deve guardare all’Islanda. Rifiutare di sottomettersi agli interessi stranieri: è l'esempio di un piccolo paese che ha chiaramente indicato che il popolo è sovrano.
Un programma radiofonico italiano parlando della rivoluzione in corso in Islanda ha detto che era un esempio impressionante di quanto poco i nostri media ci raccontano del resto del mondo.
Gli americani potrebbero ricordare che all'inizio della crisi finanziaria del 2008, l'Islanda si dichiarò letteralmente in bancarotta. Le ragioni sono menzionate solo superficialmente e da allora questo poco conosciuto membro dell'Unione europea è ricaduto nel dimenticatoio. Come i paesi europei cadono uno dopo l'altro, mettendo in pericolo l'euro, con ripercussioni per tutto il mondo, l'ultima cosa che le autorità vogliono è che l'Islanda si converta in un esempio.
Ecco perché: cinque anni di un regime puramente neoliberista hanno fatto dell’Islanda (popolazione di 320.000 persone senza esercito), uno dei paesi più ricchi del mondo. Nel 2003 tutte le banche del paese sono state privatizzate, nel tentativo di attirare gli investimenti stranieri, offrendo prestiti on-line, che avendo costi minimi permettevano di offrire tassi di rendimento relativamente alti.
I conti, chiamati "Icesave", attrassero molti piccoli investitori inglesi e olandesi. Però, mentre gli investimenti crescevano, cresceva anche il debito delle banche straniere. Nel 2003 il debito dell'Islanda era pari a 200 volte il suo PIL, ma nel 2007 raggiunse il 900 per cento.
La crisi finanziaria globale del 2008 è stata il colpo di grazia. Le tre principali banche islandesi, Landbanki, Kapthing e Glitnir, andarono in bancarotta e furono nazionalizzate, mentre la corona islandese perse l'85% del suo valore nei confronti dell'euro. Alla fine dell’anno l’Islanda dichiarò bancarotta.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la crisi portò al recupero dei diritti sovrani degli islandesi, attraverso un processo partecipativo di democrazia diretta che alla fine ha portato a una nuova costituzione. Ma solo dopo molta pena.
Geir Haarde, Primo Ministro di un governo di coalizione socialdemocratica, negoziò 2,100 miliardi di dollari in prestiti, ai quali i paesi nordici aggiunsero altri 2,5 miliardi. Tuttavia, la comunità finanziaria internazionale richiedeva all’Islanda di imporre misure drastiche. Il FMI e l'Unione europea volevano prendere in consegna il suo debito, dicendo che era l'unico modo per il paese di pagare il debito ai Paesi Bassi e Regno Unito, che avevano promesso di rimborsare i propri cittadini.
Le proteste e le rivolte continuarono e alla fine hanno il governo dovette dimettersi. Le elezioni si anticiparono ad aprile 2009, dando luogo ad una coalizione di sinistra che condannò il sistema economico neoliberista, ma che subito dopo cedette allo stesso che richiedeva che l'Islanda pagasse un totale di 3.500.000 euro. Tutto ciò richiedeva che ogni cittadino islandese pagasse 100 euro al mese per quindici anni, all'interesse del 5,5%, per pagare un debito del settore privato.Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Ciò che è successo dopo è stato straordinario. La convinzione che i cittadini devono pagare per gli errori di un monopolio finanziario che impone di pagare i debiti privati a tutta una nazione andò in frantumi, la relazione tra i cittadini e le istituzioni politiche subì una trasformazione e, alla fine, ha portato i dirigenti islandese sullo stesso piano degli elettori.
Il Capo di Stato, Olafur Ragnar Grimsson, si rifiutò di ratificare la legge che avrebbe reso i cittadini dell'Islanda responsabili dei debiti bancari e accettò l’appello al referendum.
Naturalmente la comunità internazionale non fece altro che aumentare la pressione sull'Islanda. Regno Unito e Paesi Bassi minacciarono di isolare il paese con terribili rappresaglie. Quando gli islandesi si recarono alle urne, i banchieri stranieri minacciarono di bloccare qualsiasi aiuto dal Fondo Monetario Internazionale. Il governo britannico minacciò di congelare i risparmi islandesi e i conti correnti. Come disse Grímsson: "Ci dissero che se rifiutavamo le condizioni della comunità internazionale, saremmo diventati la Cuba del Nord. Ma se avessimo accettato, saremmo diventati la Haiti del nord "(Quante volte ho scritto che quando i cubani vedono lo stato deplorevole dei loro vicini di casa, Haiti, si considerano fortunati?)
Nel referendum del marzo 2010, il 93% votò contro il rimborso del debito. Il FMI congelò immediatamente i prestiti. Ma la rivoluzione (non trasmessa in TV negli Stati Uniti) non si fece intimidire. Con il supporto di una cittadinanza furiosa, il governo avviò indagini civili e penali sui responsabili della crisi finanziaria. L’Interpol emise un mandato di arresto internazionale per l'ex presidente di Kaupthing, Sigurdur Einarsson, e per altri banchieri coinvolti che fuggirono dal paese.
Ma gli islandesi non si fermarono qui: si decise di redigere una nuova costituzione che liberò il paese dallo strapotere della finanza internazionale e dal denaro virtuale. (Quella che era in vigore era stata scritta nel momento in cui l'Islanda ottenne l'indipendenza dalla Danimarca nel 1918, l'unica differenza con la costituzione danese era che la parola "Presidente" fu sostituita da "Re").
Per scrivere la nuova costituzione, il popolo islandese elesse 25 cittadini scelti tra 522 adulti che non appartenevano ad alcun partito politico, ma che erano raccomandati da almeno trenta cittadini. Questo documento non è stato il lavoro di un manipolo di politici, ma è stato scritto su Internet. Le riunioni della Costituente furono trasmesse on-line, i cittadini potevano presentare le loro osservazioni e suggerimenti, aiutando il documento a prendere forma. La Costituzione, che deriva da questo processo di partecipazione democratica, verrà presentata al Parlamento per l'approvazione dopo le prossime elezioni. Alcuni lettori ricorderanno il collasso agrario dell'Islanda del IX secolo che fu illustrato nel libro di Jared Diamond “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere“. Oggigiorno, questo paese si sta riprendendo dal suo collasso finanziario in una forma del tutto contraria ai criteri che generalmente si consideravano inevitabili, come ha ieri confermato il nuovo direttore del FMI, Christine Lagarde, a Fareed Zakaria. Al popolo greco hanno detto che la privatizzazione del settore pubblico è l'unica soluzione. E i cittadini italiani, spagnolo e portoghesi affrontano la stessa minaccia.
Si deve guardare all'Islanda. Rifiutare di sottomettersi agli interessi stranieri: è l'esempio di un piccolo paese che ha indicato chiaramente che il popolo è sovrano.
Ed è per questo che non appare nelle notizie.


31.08.2011

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Fonte http://www.atilioboron.com/2011/08/islandia-elegir-entre-ser-cuba-o-ser.html

Islandia: un modelo silencioso, sin televisación...


31.08.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org    a cura di VINCENZO LA PORTA

dal sito www.comedonchisciotte.org   

lunedì 12 settembre 2011

QUALCHE ESERCIZIO DI SCENARIO di Riccardo Achilli


QUALCHE ESERCIZIO DI SCENARIO

di Riccardo Achilli




Introduzione

I dati occupazionali di agosto 2011 mostrano che, negli USA, non si è creato alcun posto di lavoro, contro una previsione su base mensile di 60.000-75.000 nuovi posti. E' la prima volta dal 1945 che la crescita occupazionale degli USA è nulla. Tale dato non è a beneficio dei collezionisti della statistica, o delle curiosità generate dalla presente fase recessiva. In realtà segnala la prosecuzione di una fase recessiva che sembra essere priva di via d'uscita. Le sciocchezze a proposito di “jobless recovery”, ovvero, in italiano, di ripresa senza lavoro, messe in campo da molti economisti e giornalisti economici, sono, per l'appunto, sciocchezze. Vediamo perché si tratta di sciocchezze, e che conseguenze il continuo peggioramento del mercato del lavoro potrà avere sul capitalismo globale, e qual è la strategia di uscita dalla crisi che il capitalismo sta mettendo in campo, aiutandoci con qualche considerazione di fatto, e pervenendo ad alcuni scenari possibili.

Alcuni dati di fatto e di scenario internazionale

Negli USA, il tasso di disoccupazione “reale”, ovvero comprensivo anche degli effetti di scoraggiamento nella ricerca di una occupazione non computati nel tasso ufficiale, è pari al 10,6%, mentre oltre il 12% della popolazione vive con meno del 40% del reddito mediano (fonte: Ocse). Nell'Unione Europea, il tasso di disoccupazione ufficiale raggiunge il 10,1%, più dell'8% della popolazione vive in condizioni di grave deprivazione materiale ed il 23% della popolazione è a rischio di caduta nella povertà (fonte: Eurostat).
Tutto ciò significa che una componente importante della popolazione, nelle aree economicamente più sviluppate del capitalismo globale, si avvia a generare ulteriore povertà nei prossimi mesi ed anni, e quindi a deprimere la domanda globale, già molto depressa, a causa della crescente area della povertà, che oramai si estende anche ad ampie fasce di chi lavora ed appartiene alla piccola borghesia. Infatti, la disoccupazione, dopo circa due anni in cui si rimane senza lavoro, tende a divenire strutturale, perché la perdita di competenze lavorative rende impossibile il rientro sul mercato del lavoro. In soldoni, già oggi, vi sono 9,6 milioni di disoccupati di lungo periodo in Europa, nonché altri 4,5 milioni fra USA e Canada ed 1,2 milioni in Giappone, che, per la lunghezza della loro permanenza in disoccupazione, non hanno più alcuna speranza di trovare una occupazione e che, quindi, alimenteranno ulteriormente il già pingue serbatoio dei poveri e spingeranno sempre più in basso i consumi globali.


Pertanto, anche le proiezioni, piuttosto ottimistiche, che comunque mostrano un rallentamento della crescita globale nel 2011-2012, stanno per essere aggiustate verso il basso. Ancora a Giugno, il FMI propagava ottimismo, prevedendo una crescita del 2,6% del PIL delle economie avanzate per il 2012 (che è comunque una crescita modestissima, se comparata con il 3% di un anno di sostanziale stagnazione produttiva globale e crisi occupazionale, come il 2010). Oggi (Il sole 24 Ore, 3 Settembre 2011) Roubini parla di una crescita che non supererà l'1%, e che quindi sarà sostanzialmente ferma. In realtà, Roubini prevede che una nuova recessione che segua quella del 2008-2009 abbia “più del 50% di probabilità di verificarsi nei prossimi mesi”. Martin Feldstein, del serbatoio degli economisti keynesiani di Harvard, nonché consigliere economico di Obama, lo dice chiaro e tondo: “potremmo già essere in recessione, senza aspettare i prossimi mesi. Non credo che ci sia molto da fare, in termini di politica monetaria o fiscale, per cambiare la direzione dell'economia. Sono molto preoccupato”. Pertanto, ciò rende evidente come sia assurdo pensare ad una ripresa senza lavoro. La ripresa senza lavoro è impensabile nel medio periodo, perché l'assenza di lavoro comporta una ulteriore diminuzione della domanda solvibile, quindi aggrava le condizioni di sovrapproduzione, generando quindi una nuova recessione, altro che ripresa!
D'altra parte, il tentativo di rassicurazione del cinese Min Zhu, vicedirettore del FMI (si sa, gli economisti, specie quelli del FMI, credono molto nell'idea fasulla, e lievemente esoterica, che le loro dichiarazioni possano modificare il trend delle aspettative degli operatori economici, rialzando quindi magicamente la crescita che non c'è) secondo il quale non ci sarà recessione, perché i Paesi emergenti sosterranno la domanda globale con la loro crescita, in realtà non dovrebbe suonare molto rassicurante alle orecchie delle economie capitaliste mature. Infatti, in primo luogo ciò significa che le speranze del capitalismo globale di non crollare saranno sostenute sempre più dalle economie emergenti, che ovviamente chiederanno contropartite consistenti in termini di ruolo nello scacchiere geopolitico mondiale. Ai danni, ovviamente, delle potenze capitalistiche tradizionali. Inoltre, le autorità di politica economica cinesi, come anche quelle di molti altri Paesi emergenti, hanno oggi la necessità di raffreddare la crescita della loro economia e dei loro consumi, perché il surriscaldamento della crescita provoca tensioni inflazionistiche (al proposito, Feldstein, in una intervista del 26 agosto, anticipa la decisione di rivalutare lo yuan, per rallentare la crescita interna cinese e raffreddare le tensioni inflazionistiche, con un tasso di inflazione giunto al 6%, cfr. Il Sole 24 Ore del 26 agosto 2011) e anche potenziali esplosioni di bolle immobiliari analoghe a quella esplosa negli USA nel 2007, alla radice dell'attuale recessione (l'aumento dei tassi di interesse ufficiali praticato dalle autorità cinesi dall'ottobre del 2010, proprio finalizzato a raffreddare la crescita e l'inflazione, sta infatti comportando una esplosione del costo dei mutui immobiliari, cfr. http://economia.bloglive.it/cina-deve-rivalutare-yuan-per-evitare-rischio-collasso-immobiliare-6953.html). Tuttavia, tale raffreddamento della crescita cinese comporterebbe, secondo stime ufficiali, diversi milioni di posti di lavoro in meno nei prossimi 10 anni, con ovvie ripercussioni sulle potenzialità del mercato interno cinese di sostenere, da solo, la ripresa produttiva delle economie capitalistiche mature. Considerazioni analoghe valgono per gli altri “BRIC” minori, come l'India, il Brasile o la Russia.
Pertanto, se è vero che è interesse dei Paesi BRIC di evitare che le economie di Europa e USA crollino del tutto, perché si tratta dei loro principali mercati di esportazione, e perché i BRIC hanno una notevole esposizione nei confronti del debito pubblico delle economie capitalistiche mature (basti pensare che la sola Cina detiene 110 miliardi di Treasury bonds) è anche vero che il sostegno che potranno dare, con il loro mercato interno, alle esportazioni provenienti da Europa ed USA, non potrà eccedere limiti imposti dagli equilibri interni alla loro stessa economia domestica, ed all'esigenza fisiologica di far rallentare progressivamente ed in modo pilotato un ritmo di crescita divenuto troppo elevato, e quindi insostenibile (insostenibile, peraltro, anche socialmente, perché la crescita economica impetuosa degli ultimi anni sta provocando effetti sociali non voluti dal regime cinese, come ad esempio un crescente conflitto sociale nella redistribuzione dei frutti di tale crescita, un crescente inurbamento di popolazione rurale che evolve culturalmente, e si fa sempre più portatrice di istanze democratizzanti).
Peraltro, è tutto da dimostrare che le potenze capitalistiche mature, ed in particolare gli USA, intendano cedere alla Cina le quote di potere geopolitico globale che il ruolo di “salvatrice” del capitalismo le accorderebbe. Il rischio di una conflittualità crescente fra una potenza imperialistica agonizzante ma ancora molto forte – gli USA – ed una emergente – la Cina – si farebbe serio. Avvisaglie in tal senso si sono avute con la strisciante guerra valutaria fra USA e Cina degli scorsi mesi (della quale il “quantitative easing” lanciato dalla FED era un capitolo) che oggi paradossalmente sembra risolversi per l'esigenza stessa della Cina di rivalutare lo yuan per rallentare la crescita interna, e nell'intenzione ufficiale, espressa con tanto di comunicato stampa della Banca centrale cinese, di aumentare i propri investimenti finanziari in titoli del debito pubblico delle economie capitaliste mature (a luglio 2011, le riserve valutarie cinesi sono cresciute del 30,3% su base annua, ed hanno oramai superato i 3.100 miliardi di dollari). Non è mistero che l'agenzia di stampa ufficiale Xinhua abbia duramente rimproverato agli USA l'incertezza nel gestire il problema del potenziale default di bilancio, nonché una politica valutaria troppo accomodante, arrivando a dire che tali scelte possono compromettere il futuro di milioni di persone nel mondo. Sul Quotidiano del Popolo, il ricercatore dell'Accademia cinese per le Scienze Sociali, Li Xiangyang, chiede un freno agli investimenti delle riserve cinesi in dollari, così da evitare ulteriori pericoli, temendo che l'innalzamento del tetto del debito si riveli “un'arma a doppio taglio” puntata sulla Cina, ed invitando a diversificare il portafoglio cinese in titoli del debito pubblico di Paesi dell'area euro. Evidentemente, le ripercussioni di una simile scelta indurrebbero tensioni fra Usa e Cina, poiché, se i cinesi non rinnovano a scadenza i treasury, gli USA finirebbero automaticamente in default, mentre l'acquisizione di quote del debito pubblico di Paesi europei allungherebbe inevitabilmente l'ombra, certamente sgradita alle nostre oligarchie economiche e politiche, di una influenza crescente della Cina anche sul nostro continente.

Tirando le somme: la situazione attuale

Tirando le somme del discorso testé sviluppato, in quale situazione ci troviamo attualmente? Intanto, in una condizione nella quale un secondo ciclo recessivo appare inevitabile. L'ulteriore calo della domanda per consumi, nei prossimi mesi, è inevitabile, perché milioni di persone entreranno in una condizione di disoccupazione strutturale, non risolvibile, e quindi alimenteranno un ulteriore impoverimento e quindi una ulteriore riduzione della domanda solvibile, aggravando l'attuale fase di eccesso di offerta.
Né è pensabile che la declinante domanda di consumi venga compensata da una ripresa degli investimenti. Come afferma il Financial Times dell'8 Gennaio 2011 “le aziende hanno molto denaro contante dopo aver usato la recessione per fare scorta di liquidità a buon mercato e razionalizzare il loro business”. Analisi condivisa dal Sole 24 Ore dell'8 Agosto 2011, che evidenzia come le grandi multinazionali scoppino letteralmente di liquidità. Ma perché tale liquidità esuberante non si trasforma in investimenti? La ragione ce la dà di nuovo il FT: “"l'incertezza negli affari si nutre di se stessa: le multinazionali cercano di rinviare il più possibile gli investimenti aspettando la crescita della domanda, ma più aspettano, più a lungo si dovrà attendere che la ripresa inizi a materializzarsi. In economia come altrove, la cosa che fa più paura è la paura stessa”. In altri termini: la crescita della disoccupazione, e la conseguente riduzione della domanda per consumi (che, tramite il meccanismo delle aspettative, produce effetti prolungati nel tempo, provocando una rinuncia a consumare anche per il futuro, specie in beni durevoli; è notizia di ieri che il clima di fiducia dei consumatori USA è tornato, ad Agosto 2011, ai livelli minimi storici toccati nel 2008) generano una riduzione del clima di fiducia delle imprese. E ciò ne rinvia le decisioni di investimento, e quindi di accumulazione di nuovo capitale fisso. La mancata produzione di nuovi beni capitali impedisce quindi al settore che produce tali beni di far ripartire l'occupazione, e quindi di generare un incremento di domanda solvibile in grado di far ripartire produzione ed occupazione anche nel settore che produce beni di consumo. Il meccanismo delle aspettative impedisce al sistema di ripartire da solo.
D'altro canto, il credito bancario non è in grado di assolvere quella funzione fondamentale di anticipatore di capitale monetario nel processo di metamorfosi del capitale (da capitale monetario a capitale produttivo, per poi divenire nuovamente capitale monetario) che Marx individua con esattezza. Infatti, nonostante il gigantesco, e senza precedenti storici, flusso di aiuti pubblici transitati alle banche, anche sotto forma di nazionalizzazioni massicce, oltre che di aiuti monetari diretti, e nonostante il recupero di efficienza e profittabilità potenziale ottenuto con i processi di ristrutturazione oligopolistica che hanno riguardato il settore bancario mondiale nell'ultimo biennio (conseguenti alla scomparsa di alcuni grandi operatori globali, come la Lehman o la Bear Sterns, per citare solo due delle oltre 16 istituzioni finanziarie fallite e scomparse durante la recessione) il credito bancario rimane bloccato. Ad esempio, nell'area-euro, i prestiti bancari a soggetti privati, nel 2010, crescono solo del 3,4%, e nel secondo trimestre 2011 la crescita sull'analogo trimestre del 2010 è magrissima (+2,2%). Si tratta di dati molto lontani a quelli pre-crisi, che viaggiavano nell'ordine del 12-15% di crescita (fonte: Banca Centrale Europea). Si tratta di una crescita peraltro trainata soprattutto dal credito al consumo, e molto meno da quello alle imprese. Infatti, le banche non possono espandere il loro credito, su tassi minimi necessari per indurre una nuova fase di accumulazione di capitale monetario (e quindi successivamente produttivo) perché i rischi legati ai debiti sovrani di molti paesi (ivi compresi gli Usa, il cui governo federale è tecnicamente in default) e le continue perdite sui mercati finanziari globali deprimono il valore dei patrimoni delle banche stesse (in larga misura investiti in titoli del debito pubblico ed in attività finanziarie). In base alle regole di Basilea, cui tutte le banche del mondo sono legate, perché vi aderiscono le rispettive banche centrali, se il valore del patrimonio a disposizione delle banche non migliora, oppure peggiora, queste non possono erogare credito oltre certi livelli, oppure lo devono addirittura ridurre. Inoltre, le banche, specie quelle USA, sono ancora alle prese con gli strascichi della bolla immobiliare (è notizia di oggi che un'agenzia del governo federale USA ha intentato una causa per 100 miliardi di dollari nei confronti di 17 banche statunitensi, per la gestione dissennata dei mutui sub prime che ha generato la crisi). Alcuni colossi bancari globali, come Bank of America, sono addirittura a rischio fallimento, e la settimana scorsa la Fed ha ricevuto da tale istituto una richiesta sui dettagli di eventuali interventi tesi ad evitare il fallimento della banca stessa.
In questo quadro di aspettative negative incrociate e stagnazione del credito, nemmeno le tradizionali politiche economiche sembrano efficaci. Come ci dice Feldstein all'inizio del presente articolo, le politiche monetarie e fiscali sembrano inutili ad invertire la tendenza recessiva nuovamente in atto. Le prime perché, con i tassi di interesse praticamente azzerati, sono cadute in una classica situazione di “trappola della liquidità”, nella quale gli operatori detengono per finalità precauzionali qualsiasi ammontare di moneta venga loro offerto, senza impatti sulla domanda per consumi o quella per investimenti. Le seconde sono impossibili da attuare, perché praticamente quasi tutte le economie capitalistiche avanzate sono in una condizione di default sovrano, o sono comunque in una condizione di grave deficit del bilancio pubblico, che impone austerità finanziaria, e non manovre keynesiane di stimolo della domanda con denaro pubblico. Tanto che alcuni operatori della borsa di New York, in previsione delle decisioni che la Fed dovrà prendere entro questo mese, suggeriscono a Bernanke di “non fare niente”.

La strategia di uscita tentata dal capitalismo

Cosa farà il capitalismo globale per salvarsi da questa situazione di impasse insormontabile? In realtà non abbiamo esperienze di recessioni “double dip” (ovvero di cicli a forma di “W”) di grandi dimensioni. Il ciclo della recessione nella grande depressione iniziata nel 1929 era il classico ciclo a “V”, e la battuta di arresto nella ripresa verificatasi nel 1937 non può considerarsi una nuova recessione, anche perché troppo lontana dall'inizio della ripresa, verificatosi a metà del 1933. la recessione “double dip” dell'economia statunitense del 1980-1981 era di dimensioni e gravità infinitamente minori rispetto a quanto si sta verificando oggi. Di fatto il processo di accumulazione di capitale è bloccato, e quasi stagnante, su scala globale. Dai dati Ocse sullo stock di capitale disponibile, risulta che la crescita di tale stock, negli Usa, passa da +8,5% nel triennio 2005-2007, a +4,8% in quello 2008-2010; nel 2008-2010, in Giappone si registra una diminuzione dello 0,3% dello stock di capitale; in Germania, si passa da una crescita del 3,3% nel 2005-2007 ad una del 2,5% nel 2008-2010; in Francia, si va dal +6,6% al +3,7% nei due periodi singolarmente considerati. In Italia, la crescita dello stock di capitale è pressoché stagnante (+1,7%) nel 2008-2010. Insomma, l'accumulazione non procede, e se fra fine 2011-inizio 2012 entreremo in una nuova recessione, si bloccherà ulteriormente.
Di fatto, il capitalismo globale era in crisi già dagli anni Settanta, quando la sua fase socialdemocratica, che aveva funzionato per quasi un trentennio, si rivelò inadeguata a sostenere la crescente globalizzazione della competizione. La soluzione trovata, come ben argomenta H. Ticktin in un altro articolo del presente blog, è stata quella di una crescente finanziarizzazione dell'economia. In tal modo, tramite anticipazioni di profitto (sui mercati dei futures) e con profitti usurari su capitali fittizi (sui mercati che intermediano debito pubblico e privato, non legati però ad alcun utilizzo produttivo), nonché su plusvalenze puramente basate sulla scommessa (sui mercati secondari dei titoli del debito pubblico, su quelli valutari e sui mercati secondari degli stessi derivati, originariamente meri strumenti di copertura assicurativa degenerati in strumenti speculativi) si sono ottenuti enormi profitti, non corrispondenti però ad alcuna attività produttiva (non corrispondenti quindi a alcuna accumulazione di nuovo capitale produttivo). L'enorme crescita del valore finanziario di tali attività, rispetto al valore delle attività reali sottostanti e poste a garanzia, ha provocato l'esplosione della bolla che ha dato inizio alla attuale crisi. Se adesso, sia pur sommessamente e con mille circospezioni, negli ambienti borghesi si parla di limitazione del potere delle agenzie di rating, di regolamentazione dei mercati finanziari “over the counter”, di imposte sulle transazioni finanziarie speculative, è che i padroni del vapore capitalista stanno iniziando ad accorgersi che la finanziarizzazione non è la soluzione al declino tendenziale del saggio di profitto, ma anzi un problema che crea ulteriori contraddizioni all'interno del sistema capitalistico. Fondamentalmente, la finanziarizzazione distrae risorse dal processo di accumulazione di capitale produttivo, per cui alla fine gli enormi profitti (fittizi) generati dalle fasi ascendenti dei mercati finanziari non possono essere reinvestiti in attività produttive reali, che scarseggiano. Vengono reinvestiti sui mercati finanziari, fino a che il valore delle attività finanziarie raggiunge un multiplo critico del valore delle attività reali sottostanti poste a garanzia, il mercato va nel panico e si genera una ondata di vendite irrefrenabile. La crisi sui mercati finanziari si propaga alle banche, fortemente esposte sui mercati finanziari stessi, che bloccano il credito, arrestando quindi il processo di metamorfosi produttiva del capitale, generando una crisi produttiva, che a sua volta si scarica sui livelli occupazionali e sulla domanda, trasformandosi in crisi di sovrapproduzione, perché il capitale produttivo esistente non può essere distrutto alla stessa velocità con la quale si riduce la domanda.
A questo punto, non è più possibile ricorrere ad una ulteriore finanziarizzazione dell'economia, perché è questa che ha generato il problema. Occorre tornare alla produzione di merci e servizi, cioè in qualche modo tornare all'inizio, ripartire dalle origini del capitalismo. E quindi, come ben dice lo stesso Ticktin, la strategia di uscita dalla recessione diviene quella “quella del ritorno al capitalismo classico, con la disoccupazione di massa e uno stato sociale minimo”. La ristrutturazione verso il basso dei diritti dei lavoratori e del rapporto fra salario e produttività, tornando al capitalismo più feroce e sfruttatore, diviene quindi una delle condizioni per ripristinare un saggio di plusvalore minimo, e quindi far ripartire l'accumulazione di capitale, e lo stiamo vedendo in questi mesi, con la compressione dei diritti del lavoro ottenuta per via negoziale, con il consenso di sindacati asserviti.


Ma ciò non basta. Perché ciò deprime ulteriormente la domanda già colpita dalla recessione, quindi impedisce la realizzazione monetaria del capitale produttivo e, come visto in precedenza, blocca la propensione agli investimenti, quindi alla stessa accumulazione. Allora occorre una fase di neo-imperialismo, volta a conquistare mercati di sbocco, o accessi privilegiati ed a basso costo a materie prime fondamentali, in Paesi emergenti del Terzo Mondo, il cui sviluppo autonomo viene bloccato, per servire la causa della “ripresa” produttiva del capitalismo maturo. Inoltre, le guerricciole imperialiste che si scatenano forniscono una possibilità di parziale utilizzo di capitale produttivo in eccesso, e quindi ozioso, verso la produzione di armi e materiale bellico.
Ma, ancora una volta, ciò non basta. Occorre ripristinare le condizioni originarie di convenienza all'investimento, per poter far ripartire il processo di accumulazione. Poiché i privati, terrorizzati da aspettative negative, non investono la loro liquidità, nemmeno se ne hanno in abbondanza, occorre far ripartire il processo di accumulazione con la mano pubblica. Viviamo in effetti una fase in cui, in silenzio, lo Stato ha ricominciato a nazionalizzare imprese o comunque a fornire alle imprese in difficoltà risorse finanziarie pubbliche per riavviare il processo di investimento e produzione, e non solo nel settore bancario ed assicurativo, dove con la scusa dei salvataggi lo Stato (anche il Governo degli USA) è entrato in modo massiccio, ma anche nel settore industriale, ovviamente laddove i conti pubblici lo consentano (e quindi non in Italia, dove l'ipotesi di nazionalizzare la Parmalat, circolata nei mesi scorsi, sembra abbandonata, ma dove Berlusconi è riuscito nella mirabile impresa di “nazionalizzare” una impresa italiana sotto le bandiere di un altro Stato, poiché l'Alitalia, in breve tempo, dovrebbe fondersi con Air France, controllata dal Governo francese). Sarkozy, ad esempio, ha creato un fondo pubblico per rilevare imprese industriali in crisi. Obama ha di fatto nazionalizzato, in collaborazione con il Governo canadese, la General Motors, ed ha prestato forti somme pubbliche alla Chrysler. La Merkel ha finanziato cospicuamente con denaro pubblico la Opel, e di soldi pubblici ne aveva promesso altri se il progetto di acquisizione della Magna fosse andato a buon fine. D'altro canto, i programmi di privatizzazione sono stati quasi ovunque bloccati, specie nel settore bancario, in quello delle telecomunicazioni o in quello delle utilities energetiche. E che dire degli ampi programmi pubblici di incentivazione all'acquisto di beni durevoli (automobili, ma anche elettrodomestici) che fra 2009 e 2010 si sono moltiplicati un po' in tutta Europa, per ricreare condizioni di solvibilità di una domanda asfittica?
Infine, sempre con la mano pubblica ad aiutare, anche finanziariamente, si sta procedendo ad ampi processi di concentrazione oligopolistica in molti settori, ed in particolare in quello energetico (con i governi europei alla frenetica ricerca di alleanze strategiche fra competitori energetici transnazionali, nel settore di trasporti e della logistica, nel settore bancario ed assicurativo, nonché nell'industria automobilistica (che dire del pesante coinvolgimento del governo tedesco nella vicenda della Opel) e finanche in quella alimentare (con, ad esempio, il Governo francese che sponsorizza gli acquisti all'estero di imprese fatti dal colosso agroalimentare nazionale Lactalis). La concentrazione oligopolistica è una condizione essenziale per far ripartire il saggio di profitto, generando sui mercati posizioni di rendita oligopolistica, anche in presenza di una domanda debole.

Conclusioni

In sostanza, un ritorno indietro ad un saggio di sfruttamento del lavoro degno della prima rivoluzione industriale, il cospicuo aiuto della mano pubblica nel ripristinare processi di investimento di medio-lungo termine che i privati non sono disposti a fare, pur in presenza di cospicue dotazioni di liquidità, il sostegno a processi imperialistici per conquistare risorse, o sbocchi di mercato, in Paesi emergenti, e per dare un utilizzo bellico a parti di capitale produttivo inutilizzate, nonché il riavvio di importanti processi di concentrazione oligopolistica, sono le risorse che il capitalismo globale utilizzerà per uscire dalla recessione. Il tutto accompagnato, come si è visto, dal ruolo di sostegno che lo sviluppo impetuoso delle economie BRIC dovrà fornire all'export ed al regolare rimborso del debito pubblico delle economie capitalistiche mature.
Basterà tutto questo affinché il capitalismo globale si salvi? Personalmente ne dubito. La compressione della domanda per consumi sarà troppo grande, il ritorno a logiche produttive e di profittabilità di medio-lungo periodo, da parte di un sistema produttivo drogato da troppa finanza, e da troppi profitti a breve, sarà troppo traumatico, l'azione di sostegno al riavvio dei processi di investimento da parte della mano pubblica sarà fortemente limitata dal dissesto, quasi generalizzato, dei parametri di finanza pubblica (il cui risanamento, indispensabile per ricreare condizioni per la ripartenza dell'accumulazione, basate sulla stabilità del quadro delle politiche pubbliche e sul non-spiazzamento di investimenti privati per esigenze di pubblico bilancio, creerà ulteriori effetti depressivi sulla domanda per consumi e sugli investimenti), il ruolo di sostegno all'export fornito dall'espansione dei mercati interni dei Paesi BRIC sarà limitato dalle esigenze di equilibrio nella crescita sopra accennate, tanti micro conflitti imperialistici potrebbero non bastare a saturare il capitale produttivo eccedente, la compressione dei diritti dei lavoratori e del rapporto salario/produttività potrebbe, prima o poi, incontrare (auspicabilmente) una qualche forma di opposizione sociale (e per contenere tali proteste, probabilmente, risiederà l'esigenza di una virata autoritaria da parte dei tradizionali sistemi di democrazia liberale vigenti nei nostri Paesi).
La casa scricchiola, e le tradizionali certezze della borghesia globale vengono meno. Hans Sinn, non un euroscettico, ma il direttore del prestigiosissimo istituto di ricerca tedesco Ifo, dalle pagine dei giornali pronostica la fine imminente dell'euro, scontando l'impossibilità che i Paesi PIIG possano ottenere un successo nei piani di risanamento loro imposti. L'ascesa di Paesi emergenti, come la Cina, sempre più importanti nel garantire l'ordine economico capitalistico globale che gli USA, nel loro lento declino, non riescono più a garantire, genererà crescenti tensioni geopolitiche e, forse, militari, che potrebbero essere distruttive per il mondo intero. Il rilassamento della tensione verso il rispetto degli obiettivi di Kyoto, indotto dalla crisi (quando non si cresce, non è certo l'ecologia il primo problema) potrebbe portare ad un disastro ecologico globale, pronosticato da molti organismi, quali il club di Roma, che nel suo upgrade del 2004 fissa tale disastro proprio nel nostro secolo. Nessuno può dire cosa succederà, ma il futuro è insieme incerto, pericoloso ed interessante, per chi lo vivrà.

5 settembre 2011

dal sito  http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/

venerdì 9 settembre 2011

I DERIVATI CAUSA DELLA CRISI? di Antonio Pagliarone


I DERIVATI CAUSA DELLA CRISI?

di Antonio Pagliarone


Ho trovato per caso l’articolo di V. Giacchè dal titolo “La crisi e suoi derivati”, un commento al monumentale libro di D, Harvey "The enigma of capital and the crises of capitalism" pubblicato in Italia da Feltrinelli. Giacchè riporta una frase del “sinistro” Professore di antropologia:

Le crisi” – dice Harvey – “servono a razionalizzare le irrazionalità del capitalismo; di solito conducono a riconfigurazioni, a nuovi modelli di sviluppo, nuove sfere di investimento e nuove forme di potere di classe… Durante una crisi come quella che stiamo vivendo attualmente, è sempre importante tenere a mente questo fatto. Dobbiamo sempre domandarci che cos’è che viene razionalizzato e qual è la direzione in cui procede la razionalizzazione, poiché questo definisce non soltanto la maniera in cui usciremo dalla crisi, ma anche le future caratteristiche del capitalismo” provocando terrore nel suo recensore che subito dopo riporta la “grande scoperta” dell’antropologo inglese secondo il quale “In gran parte delle economie capitalistiche avanzate… con la scusa della crisi del debito sovrano la classe capitalistica ha cominciato a smantellare ciò che resta dei sistemi di welfare attraverso una politica di austerità fiscale”.

Giacché ribadisce che tali “scelte” vengono fatte per ricondurre sotto le logiche del profitto servizi e prestazioni sottratte decenni fa, e trasformate in intervento pubblico, perché vengano privatizzate attraverso programmi di austerità con l’obiettivo di “personalizzare i costi della riproduzione sociale” come conclude lo stesso Harvey. Giacchè aggiunge poi che tale trasformazione garantirebbe profitti per coloro che entrano nella gestione di tali servizi (sanità, pensioni, istruzione ecc). La tesi espressa da Harvey è già stata formulata in passato anche da J Petras ed alla quale ha risposto Richards Jones con l’ottimo pamphlet del 2007 "Le parole sono più forti dei fenomeni? Nel mondo dove vive la sinistra sicuramente si" reperibile nel sito countdown nel quale egli sottolinea che:

L’argomento del deficit è sempre stato uno dei cavalli di battaglia delle banche, che non vogliono vedersi ritornare indietro soldi svalutati, e più recentemente e sempre di più, dalla finanza speculativa, che ha scoperto una relazione inversa fra andamento del tasso di inflazione delle merci (legato alla monetizzatone dei deficit fiscali) e andamento del tasso di inflazione dei beni non riproducibili (detto volgarmente “rendimento di borsa”), oltrechè come sempre del capitale industriale e commerciale, che dall’incremento del deficit pubblico in un certo periodo paventa un aumento del livello di tassazione nel periodo successivo” e lo stesso autore continua affermando che: “Malgrado l’asserto keynesiano per cui la spesa in deficit costituisce la politica determinante nel processo di riassorbimento delle recessioni sia in buona parte un mito, l’assioma opposto è perfino peggio. Il deficit fiscale non è mai stato di per sé un problema serio per il capitalismo (si ricordi l’immane deficit prodotto dal finanziamento della II guerra mondiale), e mai si è trovato un deficit fiscale all’origine di nessuna vera crisi, meno che meno di lungo periodo; è vero piuttosto il contrario, che assai sovente, anzi sempre, sono le crisi, ossia le recessioni e le riduzioni del tasso di crescita, a generare deficit nei bilanci dell’amministrazione pubblica”.

Jones, dopo aver dedicato un capitolo in cui viene criticato definitivamente il mito della sovranità monetaria del dollaro, tratta del Capitale Speculativo e ci ricorda che negli Stati Uniti “dal 1947 al 1984 i profitti del settore finanziario sono aumentati del 1.1% annuo rispetto al resto del profitti; ma dal 1984 al 2005 lo stesso aumento relativo è stato in media del 6.5% per cento annuo, innalzando nell’ultimo ventennio i profitti di questo settore all’incirca dal 15% al 35% dei profitti aggregati delle corporation americane. E mentre in questo medesimo intervallo il saggio del profitto del settore non finanziario è ristagnato (dopo essere diminuito della metà nei precedenti quarant’anni), il saggio del profitto del settore finanziario è quasi triplicato, e si trova attualmente ad un livello pari a circa tre volte e mezzo il saggio del profitto del settore non finanziario” per cui “La fisiologia della sfera speculativa e di quella produttiva sono esattamente opposte. Più capitali entrano nel circuito speculativo e più i guadagni speculativi si accrescono e più il capitale monetario ne è risucchiato” …. “Fra la finanza e il capitale produttivo non esiste un collegamento diretto, del tipo di quello che unisce i vari rami e sottorami della produzione, in quanto fra le due sfere non è attivo il meccanismo della scelta dell’investimento del capitale monetario in base al rendimento possibile. Le sfera del capitale speculativo e quella del capitale produttivo sono incommensurabili non solo perché, come si è visto, i rapporti fra esse sono soltanto unidirezionali, ma anche perché si tratta di processi con dimensioni differenti. L’accumulazione di capitale produttivo ha come orizzonte almeno l’intero periodo di ammortamento del capitale fisso che comprende lo svolgimento ripetuto di parecchi circuiti composti da più fasi consecutive necessarie (denaro - merce - produzione - merce - denaro ); l’impiego speculativo di denaro nella sua essenza non possiede alcun orizzonte o dimensione temporale e non deve percorrere nessuna metamorfosi ciclica di nessun genere

Purtroppo per il capitale “il capitale speculativo può espandersi solo a spese di quello produttivo. Sia perché i fondi di cui si alimenta sono una detrazione dall’accumulazione di capitale sia perché i profitti che realizza non derivano dalla circolazione del capitale, come invece sono i profitti industriali, commerciali e bancari, ma dal semplice esproprio di quelli che di volta in volta sono i nuovi entranti nel circuito speculativo” di conseguenza la tendenza verso la privatizzazione dei servizi pubblici o in generale dello stato sociale non è altro che un intervento di taglio della spesa a seguito della stagnazione o meglio della depressione che caratterizza un capitalismo con PIL irrisori. Tutto qui. Gli interventi dei politicanti di ogni colore debbono sottostare a questa spada di Damocle del rapporto Deficit Pil poiché quest’ultimo continua a declinare a tal punto che arriveremo al fondo del barile e allora? Sarà bello vedere lo spettacolo che sorgerà.
Infine possiamo ricordare ancora una volta che la favola del keynesismo si è rivelata per quello che era “un mito” I lavoratori hanno sempre pagato il welfare sin dalla Rivoluzione Roosveltiana. Ciò che accade è una continua sottrazione delle risorse destinate ai servizi sociali per tamponare momentaneamente il rapporto maledetto Debito-PIL- L’unico keynesismo che stiamo osservando è semplicemente il finanziamento del settore finanziario da parte dei sistemi centrali (come la FED, il FMI o la BCE) che utilizzano un salvadanaio creato dai singoli stati (grazie ai tagli) per impedire un default che si è già manifestato.
Quisquiglie utili solo a rimandare la campana a morto del capitalismo.

8 settembre 2011
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