Diari di Cineclub

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mercoledì 7 dicembre 2011

LA MISERIA DELL'ECONOMIA


LA MISERIA DELL'ECONOMIA
di Riccardo Achilli




Introduzione: della qualità umana e professionale degli economisti mainstream

Finalmente ad un convegno cui ho partecipato oggi a Roma i colleghi economisti hanno abbandonato il mantra che ripetevano da mesi, ovvero che la ripresa è alle porte, il peggio è passato, ecc. (sarebbe utile ricordare che fino al 2010 si stimava, per il nostro Paese, una crescita al 2011 dell'1,3%, che dovrebbe essere in realtà, secondo le ultime stime di preconsuntivo, pari allo 0,7%, ovvero la metà di quanto preventivato! La ripresa, prevista per il 2012 ad un tasso dell'1,8%, oggi viene negata, poiché le ultime previsioni stimano per il 2012 una crescita pressoché nulla (0,2%). Nessun economista, nessun centro studi, ha chiesto scusa per tali enormi errori di stima! Finalmente ho sentito ammettere (ovviamente senza chiedere scusa per gli errori pregressi) che vivremo ancora per molti anni all'interno di questa situazione di assenza di crescita e di progressivo impoverimento di ampie fasce della popolazione. Si cita Prescott (premio Nobel dell'economia) secondo cui questa fase non è congiunturale, ma è strutturale, e corrisponde ad uno storico spostamento della ricchezza dall'Occidente in declino all'Oriente in fase di sviluppo (peraltro con una citazione ingenua, che non tiene conto dei crescenti squilibri socio-economici della crescita cinese, che potrebbero portare il gigante asiatico ad una sua specifica forma di recessione, cfr. a tal proposito “rischi di Crollo Economico in Cina”, di J. Cahn, su
http://stefano-santarelli.blogspot.com/2011/11/rischi-di-crollo-economico-in-cina.html.
Ancora un volta, l'omissione di documentazione rilevante sulla situazione reale, che smentirebbe dichiarazioni perentorie come quella della “vittoria economica cinese”, denuncia ciarlataneria, superficialità e scarsa scientificità). Di fatto, gli economisti mancano delle più elementari forme di umanità, come la modestia, l'onestà intellettuale, la prudenza prima di formulare previsioni azzardate. In breve, mancano di quelle qualità fondamentali per potersi approcciare ad un metodo anche lontanamente "scientifico". Noi economisti siamo solo apprendisti stregoni, ciarlatani e cacciatori di consulenze ed incarichi.

Se così stanno le cose, vorrei domandare al lettore che cosa ci si può attendere da personaggi cinici, faciloni, avidi e scarsamente scientifici, quando costoro diventano Presidenti del Consiglio, come sta facendo Monti, colui il quale ha criticato le analisi economiche marxiste, avendole evidentemente lette sul Corriere dei Piccoli, o al massimo su qualche numero arretrato del Reader's Digest. Solo in questo modo si può affermare, come fatto da Monti, che “solo tutelando pragmaticamente i propri interessi nel contesto di economie di mercato che devono affermarsi nella competizione internazionale”, i deboli “possono creare lo spazio per dosi maggiori di socialità (adeguati servizi sociali, sistema fiscale redistributivo, ecc.)” (cfr. l'intervista a Monti sul Corriere della Sera dell'11.01.2002). Solo un ubriaco o un ignorante potrebbe fare simili affermazioni, stante la realtà di una fase socialdemocratica del capitalismo in regresso, quanto ad ampiezza dei diritti “pragmaticamente” garantiti ai lavoratori, sin dalla fine degli anni Settanta (e magari ad iniziare dall'abolizione della scala mobile, avviatasi progressivamente sin dal 1984, che nel nostro Paese segna il punto di inizio della parabola discendente dei diritti sociali garantiti ai lavoratori dal “capitalismo concorrenziale e pragmatico”).

In tale articolo, cercherò di dimostrare come l'ipotesi di Governo-Monti sia funzionale soltanto a posporre temporalmente, al massimo di pochi mesi o anni, un evento che non può in alcun modo essere evitato, ovvero la dichiarazione di default del nostro debito sovrano.

Perché il default è inevitabile

Infatti, nel poliformico dibattito sul Governo- Monti, ipotesi che si fa ogni ora sempre più concreta, occorre tenere bene a mente un elemento fondamentale, che viene deformato e mistificato dai media. Non è vero che l'Italia “ce la può fare” stringendo la cinghia e facendo dei sacrifici. Non è vero che è possibile, in prospettiva, evitare l'uscita dall'euro ed il default, semplicemente sottoponendosi alla macelleria sociale con la docilità del bue drogato, che viene avviato al mattatoio. L'Italia è già un Paese prossimo al default tecnico, e privo di qualsiasi strumento per evitarlo. Non serve una laurea ed un Phd, e non serve essere un sofisticato economista come Monti, per capirlo. Un Paese in cui il debito supera il PIL e la crescita dello stesso PIL è ferma, dopo esser stata negativa per un paio di anni, (e quindi non vi è un incremento di ricchezza netta in grado di fornire gettito fiscale aggiuntivo per pagare gli interessi incrementali sul debito, mano a mano che le rate del debito stesso vanno in scadenza, mentre la quota capitale aumenta proprio in virtù del calo delle entrate e della anelasticità delle spese pubbliche), mentre anche il risparmio privato delle famiglie si assottiglia per far fronte al calo del reddito e il sistema bancario diviene rapidamente sempre più fragile, è già un Paese ad un centimetro dal default tecnico, anche se questo non è ancora dichiarato ufficialmente.

Monti non può fare niente per risolvere tale situazione. Il cosiddetto “effetto Monti” sbandierato dai giornali in queste ore si traduce in un risparmio di 3 miliardi di interessi, quando le scorse aste dei Btp e dei Bot hanno provocato, con l'incremento dello spread verificatosi negli ultimi giorni, un extra interesse di circa 14 miliardi. Per la precisione, il cosiddetto “effetto-Monti” non è nemmeno un risparmio, è solo una riduzione del costo aggiuntivo che il Paese dovrà pagare, da 14 a 11 miliardi.

Per avere una prima approssimazione nella comprensione del fenomeno, certamente semplicistica ma perlomeno chiara, basta ricorrere alla metafora di una famiglia: se una famiglia è indebitata in misura superiore ai suoi introiti, e questi non crescono, ma addirittura in prospettiva promettono di diminuire, ed il suo patrimonio perde di valore, perché il risparmio viene utilizzato per pagare il debito e per sostituire i mancati introiti, tale famiglia è già fallita. Nessuna banca le concederebbe un prestito, nemmeno di pochi spiccioli.

Naturalmente, le cose non sono così semplici a livello di un sistema economico complessivo. Coloro i quali ci ammanniscono la favoletta che “l'Italia ce la può ancora fare” fanno leva su alcuni elementi di robustezza strutturale del sistema, che certamente sono reali, che certamente rendono la situazione italiana differente rispetto a quella greca, irlandese o spagnola, e per certi versi meno catastrofica. Purtroppo, però, come spiegherò sinteticamente di seguito, tali elementi “consolatori” sono in forte affievolimento, e quindi non possono, ragionevolmente, essere utilizzati per fondare una realistica speranza di superamento della drammatica fase che abbiamo di fronte. Gli argomenti consolatori, sinteticamente, possono essere così compendiati:

- l'Italia è un Paese ad elevata densità manifatturiera. Il tessuto industriale italiano è ancora diffuso, importante e radicato sul territorio. Non si tratta quindi di un'economia di pura intermediazione, o di una moncoltura economica;

- il sistema bancario nazionale è solido; il livello di rischio patrimoniale ed operativo delle banche italiane è marcatamente inferiore alla media, anche dei grandi Paesi europei, come Francia o Germania, e anche migliore rispetto al sistema bancario statunitense;

- a fronte di un elevatissimo debito pubblico, i conti patrimoniali delle famiglie sono sostanzialmente sani; il risparmio privato è elevato, mentre l'esposizione debitoria, o su attività finanziarie rischiose dei privati, è relativamente contenuta.

Tali argomenti contengono ovviamente un fondo di verità, e valgono a qualificare il nostro Paese come il “meno PIG di tutti i PIIGS”. Tuttavia tali aspetti favorevoli non sono sufficienti per nascondere sotto il tappeto il fatto che già oggi ci troviamo in default tecnico, e che quindi non ce la possiamo fare, Monti o non Monti, Dini o non Dini, Governo tecnico o elezioni anticipate. Vediamo perché. Con riferimento allo spessore manifatturiero del nostro Paese, questa densità produttiva potrebbe valere a salvarci, ripristinando condizioni di crescita atte a generare le risorse aggiuntive per ripagare, sia pur lentamente, il debito, facendolo rientrare al di sotto del 100% del PIL, soltanto se tale denso tessuto produttivo fosse effettivamente competitivo rispetto ai concorrenti internazionali, e quindi riuscisse a conquistare le quote di mercato necessarie per generare la ricchezza netta occorrente a placare la sete finanziaria dell'iperindebitato comparto pubblico. Ora, un indicatore sintetico di misurazione della competitività è rappresentato dalla produttività totale dei fattori produttivi. Questo perché sul valore assunto dalla PTF influiscono tutti i fattori competitivi elementari, interni ed esterni alle imprese. Il valore della PTF è infatti influenzato sia da fattori ambientali esterni all'impresa, come il tasso di innovazione tecnologica del sistema-Paese, la qualità formativa ed educativa del capitale umano, la dotazione di infrastrutture logistiche ed immateriali, la qualità del rapporto fra banche ed imprese e fra imprese e pubblica amministrazione, oltre che ovviamente da fattori strettamente aziendalistici, come l'efficacia delle strategie competitive messe in atto dalle imprese stesse, la loro dimensione media, il loro grado di capitalizzazione, la loro efficienza organizzativa interna, ecc. Ora, un confronto internazionale fra la PTF italiana e quella dei principali concorrenti dell'area-Ocse segnala che, con un tasso di incremento medio annuo dello 0,2% nel periodo 1997-2007, e con un incremento cumulato pari ad appena l'1,5% nel decennio considerato, l'Italia è praticamente il fanalino di coda dell'intera Unione Europea (che nel periodo in esame mette a segno un incremento medio annuo dello 0,8%, ed una crescita cumulata dell'8,1%). In pratica, facciamo meglio soltanto rispetto alla Spagna, ma la dinamica della nostra produttività totale dei fattori è peggiore persino rispetto alla Grecia o al Portogallo.

Tasso di crescita cumulato della produttività totale dei fattori nel periodo 1997-2007


Fonte: Confindustria su dati Ocse, Eurostat


Con una simile dinamica della PTF, è ovvio che il sistema produttivo italiano perde competitività rispetto ai concorrenti, e quindi la sua capacità di generare nuova ricchezza, necessaria per ripagare il debito, ne risulta progressivamente sempre più compromessa. Cosa occorrerebbe fare per invertire tale dinamica? Ovviamente fare importanti investimenti di rilancio competitivo, sia sula versante dell'ambiente entro il quale le imprese operano (e quindi investimenti pubblici) sia sul versante degli investimenti delle imprese stesse. Ora, gli investimenti pubblici sul sistema-Paese complessivo sono ovviamente preclusi dall'esigenza di risparmiare risorse finanziarie per rientrare dall'extra-debito. Gli investimenti privati delle imprese sono limitati da un rapporto con le banche da sempre molto difficile e conflittuale (infatti, come segnalano i dati Unioncamere, le imprese italiane utilizzano, nel 50% dei casi, l'autofinanziamento per coprire il fabbisogno finanziario degli investimenti, evitando quindi di ricorrere alle banche). E' di tutta ovvietà che in una fase di crisi come quella attuale, i margini di autofinanziamento si sono ridotti moltissimo, per cui il ricorso al prestito bancario per fare investimenti è diventato imprescindibile.

E qui veniamo al secondo elemento “consolatorio”, ovvero la robustezza del sistema bancario italiano, che secondo chi sostiene che “ce la possiamo fare” può tradursi in un importante volano per sostenere gli investimenti necessari per recuperare il gap di competitività. Andiamo un po' a vedere il Rapporto sulla Stabilità Finanziaria della Banca d'Italia, per analizzare tale aspetto. E' vero che il grado complessivo di rischiosità del sistema bancario italiano è inferiore a quello dei concorrenti. Infatti, il rischio patrimoniale, misurato tramite l'EDF (expected default rate) ad un anno è leggermente inferiore alla media delle banche europee (1,6%, contro il 2%, a Ottobre 2011) benché sia molto più elevato, ad esempio, rispetto alle banche statunitensi (0,6%). Il rischio operativo è ancora basso, perché il tasso di ingresso in sofferenza della clientela è pari al 2% nel primo semestre 2011, quando era del 3,7% nel 1993. Il rischio sistemico (ovvero il rischio di un default a catena di più banche, che farebbe tracollare l'intero sistema dei pagamenti) misurato tramite la Jpod (joint probability of default) è ancora sostenibile, attestandosi attorno al 6% ad ottobre di questo anno.

Il problema fondamentale, però, è che se guardiamo alla dinamica dei dati, anziché al loro valore assoluto a fine periodo, constatiamo che il sistema bancario italiano si sta rapidamente mangiando il patrimonio di solidità che lo contraddistingue. Sul versante del rischio patrimoniale, l'EDF ha subito un rapido incremento, passando dallo 0,5% di Dicembre 2010 all'1,6% di Ottobre 2011, tal ché oggi le banche italiane subiscono un rischio patrimoniale molto più alto di quelle statunitensi, mentre tradizionalmente era vero il contrario. Sul versante del rischio operativo, il tasso di ingresso in sofferenza cresce dallo 0,9% del 2007 al 2% di metà 2011. Inoltre, tale indicatore è artificiosamente basso, perché reso basso dalla cartolarizzazione dei crediti in sofferenza, che non fa altro che spostare il rischio di insolvenza dalle banche alle società finanziarie che acquisiscono il credito cartolarizzato (e quindi, in termini di rischio complessivo per il sistema nel suo insieme, non cambia niente). Infine, il rischio sistemico, misurato sempre dalla Jpod, passa dallo 0,5% di inizio 2009 al 6% di Ottobre 2011. soprattutto si riscontra che il rischio sistemico, che fino al 2010 era più basso rispetto ai concorrenti, a fine 2011 è diventato più alto rispetto ai sistemi bancari di Germania, Regno Unito, Francia e persino della inguaiatissima Spagna!

Quindi in realtà il sistema bancario italiano si sta caricando di fattori di fragilità, ad un ritmo superiore rispetto ai principali concorrenti. Ed i risultati sono che il credito alle imprese, necessario per effettuare gli investimenti indispensabili a recuperare il sopra analizzato gap di competitività, anziché crescere si riduce. Le previsioni della Banca d'Italia segnalano infatti una riduzione a zero del tasso di crescita degli impieghi bancari ad imprese entro la fine del 2013, un vero e proprio “credit crunch” di dimensioni analoghe a quello verificatosi nel 2009, anno terribile per le finanze aziendali, prosciugatesi anche a causa del blocco quasi totale del credito bancario. Tale tendenza è il frutto della crescente fragilità, e del crescente grado di rischiosità, del sistema bancario italiano, che quindi non è così solido come vorrebbero farci credere gli “ottimisti” sostenitori di Monti. Tra l'altro, i criteri restrittivi sul buffer di capitale delle banche europee introdotti il 26 ottobre scorso, ed i criteri molto rigidi, in termini di dotazione minima di patrimonio tier 1 introdotti da Basilea 3, contribuiranno ulteriormente ad azzerare il flusso di credito bancario alle imprese. Il gap competitivo del sistema produttivo italiano, di conseguenza, aumenterà, fino a portare al corto circuito il sistema produttivo stesso, e di conseguenza, a cascata, anche le banche creditrici.

Veniamo all'ultimo argomento degli “ottimisti”, ovvero il risparmio privato delle famiglie. Ora, un concetto di economia elementare è che il risparmio contribuisce alla crescita, e quindi ad evitare il default, solo se viene speso per consumi. Altrimenti non alimenta il circuito dell'economia. Ora, sulla propensione alla spesa per consumi influiscono le aspettative dei consumatori, che però, come ci segnala l'Istat, continuano ad essere gravemente depresse. Quindi i consumi latitano: ad agosto 2011, l'indice delle vendite del commercio al dettaglio, rispetto al corrispondente mese dell'anno precedente, diminuisce dello 0,3%, dopo un tracollo tendenziale del 2%, dell'1% e dello 0,6% nei tre mesi precedenti. Quindi l'elevato risparmio privato non serve a niente, in termini di contributo alla salvezza del sistema: non contribuisce alla crescita, perché non si traduce in consumi, e non contribuisce alla solidità delle banche depositarie di detto risparmio, il cui grado di rischiosità e fragilità, come si è visto, è in crescita preoccupante. Non si vede quindi come tale elemento possa contribuire a salvare il Paese dal default. Tra l'altro, anche tale presunta solidità patrimoniale delle famiglie è anch'essa in rapido deterioramento: l'indebitamento delle famiglie italiane passa dal 37% del loro reddito lordo nel 2002 al 65% nel 2010. Inoltre, la crescita dell'esposizione debitoria riguarda soprattutto i nuclei familiari economicamente più deboli, cioè proprio quelli che hanno le maggiori difficoltà a rimborsare il debito, poiché, al 2008, la quota di famiglie debitoriamente vulnerabili è del 5,6% nel segmento del 25% delle famiglie con il più basso reddito, mentre è appena dell'1% nel 25% delle famiglie più ricche.

In sintesi, dunque, gli elementi di “vantaggio” di cui dovrebbe godere l'Italia, e sui quali dovrebbe affidarsi per evitare il default, sono, come si è visto, illusori, o in rapido degrado. D'altra parte, i sostenitori della tesi secondo la quale, con un governo tecnico guidato da Monti, l'Italia ce la può fare, dovrebbero spiegare perché le agenzie di rating, meno di un mese fa, abbiano abbassato il rating dell'Italia su livelli di rischio analoghi a quelli di Trinidad e Tobago o del Cile, e peggiori persino rispetto alla Spagna, altro Paese PIIGS, oltretutto con outlook negativo, quindi con prospettive future di ulteriore aumento del rischio-Paese: un ulteriore declassamento, anche solo di un gradino, ci porterebbe ad un rating tipico dei junk-bonds. E' evidente, quindi, che il default è inevitabile. Si tratta di una eventualità che nemmeno i presunti “fattori di forza” del nostro Paese possono evitare, e che tutt'al più può essere rinviata di qualche mese, o forse di qualche anno.

A cosa servirebbe allora un governo-Monti? Soltanto a tenere in "coma farmacologico" per qualche anno un bilancio dello Stato e degli enti locali che è già clinicamente morto, al prezzo di immani stragi sociali.

Il costo sociale di ritardare l'inevitabile dichiarazione di default

Ma quale sarà il costo sociale che il popolo italiano dovrà pagare, per ritardare di qualche tempo l'inevitabile dichiarazione di default? Abbiamo almeno due chiari esempi dei costi sociali enormi, connessi al tentativo di ritardare l'inevitabile dichiarazione di default, e sono quelli dell'Argentina degli anni Novanta e della Grecia dei giorni nostri. Iniziamo a studiare il caso argentino. Di fatto il Paese era già fallito quando Alfonsin, sotto la pressione popolare, si dimise anticipatamente da presidente della repubblica nel 1989. Il PIL non cresceva più, il debito estero era alle stelle, ed era già virtualmente impagabile, il Paese precipitava in una rapida spirale di impoverimento e di iperinflazione. Meném, che sostituì Alfonsìn, da buon cacicco peronista, anziché ammettere la situazione e quindi ripudiare il debito estero, preferì mettere in coma farmacologico un paziente che, altrimenti, sarebbe clinicamente deceduto. Nominò a Ministro dell'Economia Domingo Cavallo, l'ennesimo “guru”, non a caso pluridecorato dalle istituzioni accademiche e finanziarie globali, con il compito di congelare la crisi (naturalmente poco contava il fatto che, negli anni ottanta, da governatore della Banca Centrale, lo stesso Cavallo non avesse avuto nessun problema a autorizzare le imprese private a trasferire i loro debiti allo Stato, contribuendo così al default del Paese). Ma si sa: a Caval donato non si guarda in bocca...

Non appena nominato Ministro, il buon Cavallo implementò...una cura da Cavallo, per prolungare nel tempo l'inevitabile momento in cui l'Argentina avrebbe dovuto dichiarare ufficialmente un default già materializzatosi nei fatti. Mise in pratica un sistema di cambio fisso con il dollaro, la famigerata “ley de convertibilidad” del 1991, che costringeva la Banca Centrale a mantenere un ammontare di riserve ufficiali in dollari esattamente uguale alla massa monetaria in circolazione. In questo modo, riuscì, certamente, a domare la storica iperinflazione argentina (alimentata a sua volta dall'esplosiva crescita del debito pubblico e privato, destinata a mantenere artificiosamente alto il tenore di vita medio di un Paese con fondamentali macroeconomici ed occupazionali da Terzo Mondo), ma al prezzo....di strangolare la domanda aggregata, tramite la compressione del circolante e gli alti tassi di interesse, applicati per evitare fughe di capitali denominati nei preziosi dollari. Anche in questo caso, verrebbe da dire che non serve una laurea in economia per capire che se si deprime la domanda la crescita dei prezzi rallenta....si chiama “legge della domanda e dell'offerta”, ed è nota a qualsiasi padre di famiglia munito di diploma della scuola dell'obbligo. Però il rallentamento della domanda bloccò la crescita, fece aumentare a dismisura la disoccupazione, e, poiché, come tutti sanno, il debito pubblico è endogeno al PIL, il debito pubblico nazionale continuò ad aumentare, anziché ridursi (ad onor del vero, ciò si verificò anche a causa della massiccia corruzione dilagata all'ombra del delinquenziale governo di Meném). Ed il debito pubblico aumentava nonostante l'ondata massiccia di privatizzazioni di imprese pubbliche effettuato in quesgli anni (da Aerolineas Argentinas a Telecom Argentina, tanto per fare due esempi), a dimostrazione del fatto che le privatizzazioni si fanno per far fare qualche buon affare agli amici, ma non certo per risanare il bilancio pubblico.

Quindi, il mantenimento del bilancio federale sotto “coma farmacologico”, per paura di dichiararne il decesso clinico, costò al Paese un ulteriore aumento del debito pubblico, una contrazione della crescita, un aumento della disoccupazione, un dilagante impoverimento dei ceti medi e del proletariato industriale e rurale. La crisi messicana del 1995 e la svalutazione del Real brasiliano del 1999, accompagnata da una rivalutazione del peso (che era costretto a seguire l'andamento del dollaro, grazie alla geniale ley de convertibilidad) portarono ad una recessione che rese impossibile continuare a somministrare farmaci al defunto, per tenerlo in stato vegetativo (anche perché la regola di convertibilità, di fatto, impediva l'utilizzo a fini anticiclici della politica monetaria, un po' la stessa cosa che succede oggi, con i Paesi europei che non hanno più la sovranità della propria politica monetaria). Cosicché, di fronte a tale situazione oramai insostenibile, nel 1999 il nuovo presidente De La Rùa ereditò un Paese in cui il PIL precipitava ad un ritmo del 4% annuo, e la disoccupazione aveva raggiunto livelli socialmente insostenibili, traducendosi in una dilagante criminalità e in un vero e proprio fenomeno di polverizzazione dei ceti medi, nei casi di bambini delle elementari che svenivano in classe perché, non potendo mangiare, venivano ingozzati dai genitori impoveriti di “mate cocido”, mentre l'insostenibilità del tasso di cambio ”1 a 1” fra peso e dollaro causava una continua fuga di capitali dal sistema bancario, che nel 2001, nonostante i provvedimenti amministrativi di sequestro dei depositi bancari (il famoso “corralito”) tracollò. Il Paese attraversò quindi una profonda recessione che durò fino al 2003, quando di fatto il nuovo presidente Kirchner fece ciò che Meném avrebbe dovuto fare 14 anni prima: dichiarò il default e conseguentemente ripudiò parte del debito estero. Aver tenuto per 14 anni in coma farmacologico un bilancio federale morto costò immani disastri sociali ed un allargamento della povertà che ancora oggi non è stato del tutto riassorbito. A cosa servirono tali sacrifici? A niente. Il Paese fu comunque costretto a dichiarare default, solo con 14 anni di ritardo.

Nonostante tale lezione, la comunità finanziaria internazionale ha applicato lo stesso rimedio alla povera Grecia: quando nel 2010 divenne chiaro, scoprendo i “veri” conti pubblici greci, che il Paese era in default, furono imposte drammatiche misure di austerità, mirate a prolungare l'agonia il tempo necessario alle banche creditrici per recuperare il recuperabile dei loro crediti, mentre la società greca soffocava sotto il peso delle politiche di austerità. E, come documenta il rapporto confidenziale della trojka di qualche settimana fa, ciò non è ovviamente servito a salvare il Paese dal default, posto che nello scenario “migliore”, si stima che il debito pubblico greco potrà tornare a farsi finanziare sui mercati non prima del 2020. D'altra parte, pretendere di risanare il disavanzo di bilancio ed il debito pubblico con il PIL in recessione a causa delle misure di austerità, e quindi il gettito fiscale in caduta libera, è un po' come pretendere di far passare il cammello dalla biblica cruna dell'ago.

Che fare?

La lezione allora è sempre la stessa: diffidare dai guru dell'economia, diffidare dai Cavallo, dai Monti, dai Venizelos, che vengono “gonfiati” dai media borghesi, per presentarli alle opinioni pubbliche spaventate e confuse dei Paesi in default come dei “geni”, dei “salvatori della Patria”. La loro unica funzione è di ritardare quanto più possibile la dichiarazione ufficiale di default, per consentire ai creditori di recuperare il recuperabile, e di fare gli ultimi buoni affari tramite l'acquisto di tutto ciò che è acquistabile del patrimonio pubblico del governo fallito (tramite le privatizzazioni di qualsiasi cosa, anche delle spiagge, degli aeroporti e dei beni culturali e del demanio pubblico, come progetta di fare la Grecia) ovviamente facendo pagare un prezzo sociale altissimo al popolo, al solo fine di tenere in stato vegetativo un paziente morto, fintanto che la dichiarazione di morte non diviene inevitabile. Diffidate dagli economisti: non sono guru, non sono maghi, spesso non hanno neanche un approccio scientifico. Ma conoscono il valore del denaro, e sanno vendersi bene nell'interesse dei capitalisti.

Occore comprendere che, oggi, non c'è alcuna soluzione magica al problema della nostra economia. Occorre dichiarare default immediatamente, evitando il massacro sociale del periodo di “coma farmacologico”, uscire dall'euro, ma non unilateralmente (perché l'uscita unilaterale del singolo Paese dall'euro lo sottoporrebbe ad una drammmatica fase recessiva nei successivi 2-3 anni), bensì in modo coordinato e contemporaneo con Grecia, Spagna e Portogallo, e creare un'area di libero scambio mediterranea, alargata anche al Nord Africa ed ai Balcani, con una valuta comune diversa dall'euro, e significativamente svalutata rispetto all'euro stesso, ed operare con un modello competitivo export-based basato su un'elevata competitività di costo, facilitata dalla svalutazione della moneta, comportandosi esattamente come un Paese BRIC, con politice fiscali e monetarie coordinate all'interno di tale area mediterranea, avendo come mercati-target proprio quelli dell'area nord europea che rimarrebbe dentro l'euro. Solo ripartendo da un parzale ripudio del debito estero, e con modelli competitivi da economie emergenti, è possibile sopravvivere. Tutti insieme, però.
 
13 novembre 2011
 
dal sito http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/

4 commenti:

  1. Ottimo articolo, purtoppo il paragrafo dedicato alle proposte per risolvere il problema mi sembra un po' esiguo. Dopo la scientificità mostrata nell'analisi ricca di dati e fonti sembra semplicistico ridurre le proposte ad un problema così complesso dicendo che 3-4 paesi dovrebbero seguire il modello BRIC. Tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, è così semplice convincere politicamente 4 paesi dell'eurozona a fare ciò? Come marxisti bisogna essere concreti e realistici sia nell'analisi sia nelle proposte operative altrimenti facciamo fantascienza. Dal punto di vista economico poi non porti dati che dimostrino che il modello BRIC vada bene per l'Italia e i paesi mediterranei, non dico che non lo sia ma devi dimostrare tecnicamente quello che dici. Penso che così su due piedi al fine di affrontare l'emergenza politica-economica in Italia sia più proficuo far pagare la crisi ai grandi capitali mentre troviamo e bilanciamo la soluzione più giusta per il paese al fine di uscire dal meccanismo del debito pubblico-signoraggio bancario, così quando sarà il momento del default gran parte del danno sarà già stato accusato dalle classi sociali dei grandi borghesi e non dai lavoratori. Altrimenti rischiamo di far fare all'Italia la fine dell'Argentina, non mi voglio immaginare cosa accadrebbe se lo stato non pagasse lo stipendio agli statali e i lavoratori non potessero più andare in banca per prelevare il salario e i risparmi. Come marxisti dobbiamo trovare i percorsi migliori per i lavoratori, non per le nazioni e tantomeno creare una catastrofe che i grandi detentori dei patrimoni possono permettersi di sostenere. La crisi devono pagarla chi l'ha causata.

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  2. Ti ringrazio intanto per il commento. Naturalmente non penso affatto che l'Italia debba seguire un modello simile a quello dei BRIC. Credo però che, come ho cercato di dimostrare nell'articolo, non vi sia aleternativa ad una dichiarazione immediata di default, perché altrimenti non faremmo altro che seguire le politiche di macelleria sociale di Monti, senza poi evitare che la situazione "argentina" arrivi comunque, nel momento in cui la dichiarazione di default sarebbe non più evitabile, ma arrivandovi con un proletariato ulteriormente indebolito ed impoverito dalla macelleria sociale che nel frattempo si sarebbe sperimentato, quindi con effetti sociali ancor più devastanti. Credo inoltre che occorra uscire dall'euro, perché l'euro è una costruzione monetarista ad uso e consumo dei mercati finanziari, ed a danno del proletariato. Uscendo dall'euro, si dovrebbe inoltre ripudiare il debito, iniziando da quello estero. Detto questo, però, occorre essere realisti, e sapere che simili soluzioni comportano una fase iniziale di gravissima recessione: la fuga dei capitali, associata alla fiammata inflazionistica legata alla reintroduzione di una valuta nazionale molto debole, l'impennata più che probabile dei tassi di interesse, farebbero pagare al proletariato italiano, in un contesto ancora capitalistico, un prezzo durissimo dalla decisione di dichiarare default ed uscire unilateralmente dall'euro. Per ridurre questo prezzo, e renderlo quindi meno pesante, è opportuno che l'uscita dall'euro sia fatta, in modo contemporaneo, da almeno tutti i Paesi PIIGS (quindi anche da Spagna, Portogallo, Grecia ed Irlanda, oltre che dall'Italia) per costituire, nell'immediato, un'unione monetaria "debole" in grado di fare concorrenza all'area "forte" dei Paesi della residua zona-euro (ovviamente una concorrenza esercitata dal lato dei costi, tramite i meccanismi di svalutazione competitiva del tasso di cambio). Ciò renderebbe molto meno pesante la recessione "da uscita", perché le esportazioni in crescita verso l'area-euro, ne ridurrebbero l'impatto, perché un'azione congiunta di tutti i Paesi PIIGs per rinegoziare il loro debito estero sarebbe rinforzata, perché la fuga di capitali sarebbe molto meno grave. E' però del tutto evidente, e forse dall'articolo ciò non traspare, che tutto quello che sto descrivendo non è la soluzione, è soltanto un tampone, per ridurre nell'immmediato il costo da pagare per uscire dall'euro e ripudiare il debito estero. Sarebbe soltanto, come dire, una necessaria ma ovviamente del tutto provvisoria "benda" da applicare alle ferite. La soluzione vera non può che risiedere in un cambiamento radicale dei rapporti sociali di produzione, in direzione del comunismo (e per quanto mi riguarda personalmente, tramite meccanismi di tipo libertario, che sin dall'inizio diano protagonismo dal basso al proletariato, tramite l'autogestione, meccanismi partecipativi di programmazione economica, i soviet, ecc.)
    Vorrei però che fosse chiaro che io vedo questo processo in due fasi: nella prima fase occorre tamponare i danni derivanti dalla necessità improrogabile di dichiarare default prima che Monti faccia dell'Italia ciò che Papandreou e Papademos hanno fatto della Grecia, uscire dall'euro e ripudiare il debito estero. In una seconda fase, occorre naturalmente lottare per uscire dal capitalismo e proporre un paradigma rivoluzionario. Ma questa lotta rivoluzionaria la faremo se saremo ancora vivi. Si tratta in qualche sorta di uscire dalla situaizoen attuale tramite una politica basata in primis su obiettivi minimi immediati, ed in secundis su obiettivi radicali di medio termine. La rivoluzione non è una passeggiata, per dirla con una frase fatta, e richiede i suoi tempi di maturazione, mentre nel frattempo si lotta per obiettivi più immediati e ovviamente transitori, che rimangono, per il momento, nell'ambito del capitalismo (in fondo tale lezione ci proviene da Trotsky).

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  3. Scusami ma ancora non concordo, perché anche tu ammetti che l'uscita dall'euro sarebbe rischiosa e costosa per la classe lavoratrice. Ovviamente anche la macelleria sociale di Monti lo è. Come dire che siamo tra l'incudine e il martello. Io credo che convincere 4 paesi a farli uscire contemporaneamente dall'euro (e non è detto che sia la cosa teoricamente più giusta, sostituire un'unione monetaria con un altra non è molto internazionalista) non sia così semplice da attuare politicamente. Inoltre penso che dichiarare default con 1900 miliardi di debito o dichiararlo (ipotizzo a caso ) con 1000 dopo aver messo tutte quelle cosette per far pagare prima le classi sociali alto borghesi sia una cosa diversa. Cioè tu dici che se continua il governo Monti arriveremo al default con la classe lavoratrice stremata dalle finanziare (e io sono daccordo con te su questo) però io dico che se al posto di Monti ci fosse qualcuno che ci porta gradualmente al default facendoci arrivare la classe borghese stremata sarebbe meglio. Essendo veramente realisti; nel presente mi sembra già difficile che un partito come il PD vada al governo, pensa un po' quanto sia difficile far sì che la Grecia (con l'attuale governo che si trovano) Spagna (idem) e Portogallo e Italia si accordino in modo "sano" come vorresti te per fare questa uscita dall'euro. Con le forze, la consapevolezza e la bassisima egemonia culturale della vera sinistra è più probabile che si formino regimi autoritari fascistoidi, o comunque rischiamo di seminare in terreno arido. La tattica rivoluzionaria va calibrata a seconda del contesto socio economico, dei rapparti di forza ma anche della consapevolezza culturale delle classi sociali. Concordo con il fatto che la rivoluzione non sia una passeggiata, ma se non si è in grado di fare la passeggiata si è in grado di fare la rivoluzione? Per essere realisti dobbiamo fare un passo alla volta e contribuire innanzi tutto ad un processo unitario delle forze anticapitaliste per fronteggiare l'immediato e creare consapevolezza dei lavoratori. Se i lavoratori si dovessero trovare a pagare il default con l'egemonia culturale delle destre ci ritroveremmo in una brutta situazione, da qui l'impossibilità di dichiarare immediatamente default ma creiamo lecondizioni per far pagare il debito a chi l'ha creato, che sempre lotta di classe è, e poi prenderei come modello l'Equador e l'Islanda che in parte non hanno pagato il debito e hanno costituito processi (l'Islanda) di democrazia dal basso per risolvere la questione. Per l'Italia la situazione è più complessa per via dell'euro e per l'enormità del debito( 18-20 volte quello argentino?)se è possibile fare tutto in una "manche" benvenga altrimenti possiamo graduare il processo come dicevo. In ogni caso bisogna avere accortezza poiché il problema del debito più che dal capitalismo in senso lato è dato dal problema del signoraggio bancario, tema sfruttato anche dalla destra populista, come lo è il problema dell'euro e dell'europa. Anche per questo motivo considero sia più tattico dire che la crisi "deve pagarla chi l'ha creata" e non che "dobbiamo uscire dall'europa", perché la prima frase contiene in se il concetto di lotta di classe. Il nostro primo problema è ottenere consapevolezza di classe e analisi materialistica della storia che persino nei movimenti stenta ad affermarsi.

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  4. Premesso che non vedo alcuna incompatibilità fra dichiarare "il debito lo paghino le classi borghesi" e dichiarare "usciamo dall'euro", ma anzi a mio avviso le due cose sono strettamente consequenziali (perché l'euro stesso è una creazione della borghesia) non penso che si possa limitare l'antagonismo sociale ad un solo obiettivo, ovvero far pagare la borghesia nazionale, per il semplice fatto che "chi ha creato il debito" è in larga misura il sistema finanziario internazionale, i grandi operatori finanziari che agiscono su scala globale, favoriti proprio dal meccanismo dell'euro, che ha consentito loro di disporre di un mercato finanziario di scala europea, senza più rischi di cambio o rstrizioni ai movimenti di capitale. Non credo che si possa creare coscienza di classe semplificando i problemi, ovvero limitandosi a dire "che paghi la borghesia". Per creare coscienza di classe, occorre presentare il problema nella sua interezza, e ciò include inevitabilmente anche l'esistenza dell'area euro, e il suo smantellamento progressivo. Certo che è difficile politicamente che 5 Stati escano insieme dall'euro, ma è ancora più irrealistico, in assenza di un partito comunista unito e forte, pensare di far pagare la borghesia nazionale. Non ci stanno riuscendo nemmeno in Grecia, dove pure la sinistra antagonista è più forte e radicata che da noi, figuriamoci se ci riusciamo noi. Vogliamo creare coscienza di classe? Benissimo, allora il problema va presentato nella sua interezza. Non c'è solo il problema di chi deve pagare il debito pubblico italiano, se il proletariato o la borghesia. Sarebbe molto riduttivo un approccio simile, e temo che ci condurrebbe diritti alla socialdemocrazia. C'è il problema che tale situaizione è stata creata dalla finanziarizzazione dell'accumulazione capitalistica, di cui l'euro è una componente essenziale. Questa è la radice del dramma sociale che stiamo vivendo. E la coscienza i classe va creata portando la lotta alla radice del problema. Saluti comunisti

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