Diari di Cineclub

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Rivista Cinematografica online e gratuita

lunedì 4 ottobre 2010





DOVE VA LA CGIL CHE VOGLIAMO
di Lorenzo Mortara


Piccolo resoconto riflessivo dell’assemblea di Venerdì 24 Settembre a Torino







Venerdì 24 Settembre, a Torino, sotto lo slogan “Costruiamo una vertenza generale”, s’è riunita alle ore 16:00 buona parte del nostro sindacato che andrà a costituire l’area programmatica “La Cgil che vogliamo”, la quale dovrà cercare di cambiare l’attuale linea di maggioranza della Cgil.
La sensazione generale, alla fine, anche ascoltando i commenti di molti compagni presenti, è che siamo ancora in alto mare.
Presiedeva Pietro Passarino, a Claudio Stacchini invece il compito di aprire l’assemblea. Buono il suo discorso, tutto incentrato sulla necessità del pluralismo e di maggiore democrazia tra i compagni. Il compagno Stacchini ha insistito molto sulla necessità di collegialità, di un sindacato davvero a misura di delegati. Belle parole che condivido in pieno. Purtroppo, mi paiono già disattese. Non si pretende che La Cgil che vogliamo sappia già tutto di se stessa, eppure nelle piccole cose potrebbe già mostrare il cambiamento che vorrebbe essere. Non si capisce perché non si possa applicare trasparenza e regolarità già dalle prime riunioni. A cosa mi riferisco?
Al fatto che se ci sono, poniamo, 24 persone che si sono iscritte per parlare, 24 persone devono poter parlare. Se si inizia alle 16, si stabilisce l’ora di chiusura, mettiamo alle 20, e ogni intervento avrà a sua disposizione 10 minuti. Non un secondo di più. Per trasparenza, all’inizio, si dovrebbero leggere i nominativi di coloro che dovranno intervenire, lasciando poi il foglio sul tavolo con la scaletta ben visibile a chiunque. Nessun altro modo di impostare l’assemblea può essere definito democratico. In un sindacato che funzionasse, potremmo anche fregarcene di misurare con clessidra e bilancino il tempo degli interventi, ma nel sindacato burocratizzato che ci ritroviamo, non possiamo rinunciare al massimo di rigore e di uguaglianza. Stabilendo invece dall’alto e in anticipo chi ha il diritto di prendere la parola, le nostre assemblee fin dall’inizio hanno il sapore di qualcosa di preconfezionato. E non va affatto bene.

Passarino non ha certo voluto manipolare l’assemblea, anzi, il suo intento di far sentire un po’ tutti i delegati di tutte le categorie, in sé è lodevole, ma non cambia la questione: fino a che non saremo un sindacato come si deve, abbiamo il dovere di dividere equamente tempi e spazi e di non affrontare assemblee così importanti con tanta leggerezza e pressappochismo. Penso anche che se nei volantini si invita, per contatti ed adesioni, a scrivere ad un indirizzo (in questo caso ), questo indirizzo dovrebbe servire per stabilire una gerarchia di partenza negli interventi, oppure come centro da cui diramare prima dell’assemblea il nome di coloro che interverranno. Se invece si scrive all’indirizzo come ho fatto io e non si riceve risposta, si resta fin da subito con la sgradevole sensazione di aver mandato una mail al vento.

Gli interventi avrebbero dovuto essere una ventina, ma iniziando alle 16, è rimasto giusto il tempo per sentirne 6 o 7, gli altri hanno dovuto lasciare spazio all’intervento di Rinaldini. Anche su questo c’è da ridire. Dove sta scritto che debbano essere sempre i dirigenti ad aprire e chiudere le assemblee? Anche per queste cose si potrebbe fare a rotazione, senza una regola fissa. Tanto più che, per ora, la struttura gerarchica de La Cgil che vogliamo è stata fatta tutta al di sopra del controllo dei delegati. La Cgil che vogliamo, cioè, su questo punto, per ora non si differenzia minimamente dalla Cgil che non vogliamo.
Negli interventi dei delegati non ho notato niente di particolare da segnalare. In effetti, tutta l’assemblea, alla fin fine, non è stata altro che un piccolo comizio, nel senso buono del termine, di Gianni Rinaldini. A Torino, i sostenitori de La Cgil che vogliamo, si sono ritrovati per sentire la Cgil che vuole Rinaldini. Il succo di venerdì 24 settembre 2010 è tutto qua. E a mio giudizio trattasi di un succo ristretto ed amarognolo.
Rinaldini ha parlato una mezz’oretta circa. Quasi tutto l’intervento è stato impostato contro la Confindustria. Per la poca esperienza che ho, ne ho già abbastanza per stabilire che, in un’assemblea, tutti gli interventi che vanno a colpire chi non c’è sono destinati a facili applausi. Purtroppo, la violenza della Confindustria la conosciamo tutti, non abbiamo bisogno di assemblee che ce la ricordino, ma di riunioni che ci parlino del modo di affrontarla e vincerla. La Cgil che vogliamo dovrebbe cambiare una Cgil che invece di affrontarla e batterla, sa solo prenderle di santa ragione. Invece, impostando tutto il discorso sulla Confindustria, alla Cgil che vuole Rinaldini interessa di fatto cambiare la Confindustria. Per un delegato come me, la Confindustria resti pure così com’è. La Confindustria non è un problema da risolvere, ma un nemico da battere e non è affatto la stessa cosa. Per Rinaldini, invece, sembra un problema. Non è un caso, infatti, che buona parte del suo discorso, l’ex segretario della Fiom l’abbia speso in favore di “regole certe” per sedersi al tavolo con la Confindustria, come se l’accordo separato di Fim e Uilm, fosse un problema di regole. L’accordo separato non viene da chissà quale strappo alle regole di Fim e Uilm, ma dalla mancata risposta della Fiom all’eccezionalità dell’attacco padronale. Non bisogna dimenticare mai che a tutt’oggi, la Fiom, non si è ancora mobilitata contro l’accordo separato. E questo non è un buon segno per chi vuole costruire una vertenza generale. Infatti, chi non è in grado di imbastire una vertenza particolare di categoria, difficilmente sarà in grado di imbastirne una generale di confederazione. Per Rinaldini, il grande problema sembra essere il ripristino dei referendum per validare piattaforme e accordi. Senza questi, secondo lui, gli operai sarebbero privati di qualsiasi possibilità di incidere sulle decisioni prese sulla loro pelle. In verità è vero il contrario. In sé e per sé gli operai non hanno bisogno di alcun referendum, ma di partecipare dal primo all’ultimo momento alla stesura delle loro piattaforme e poi della contrattazione. Se si facesse così, il referendum finale sarebbe semplicemente l’ultima garanzia democratica di un sindacato controllato in tutto e per tutto dai lavoratori. In caso contrario, caso applicato dalla Fiom più o meno fino ad adesso, il referendum non sarebbe altro che la copertura per mantenere l’esproprio del sindacato a danno dei lavoratori e in favore della burocrazia.
Bisogna anche aggiungere che non ci saranno mai regole certe fino a quando il sindacato non si regolarizzerà sulla legge fondamentale del conflitto tra Capitale & Lavoro: la legge della lotta di classe. Le uniche regole certe sono quelle che i lavoratori impongono ai padroni. Per simili regole, è necessario lottare e mobilitarsi e poi sedersi al tavolo delle trattative. L’idea di Rinaldini di stabilire delle regole a monte della lotta di classe, capovolge la legge fondamentale del conflitto sociale. Sfido io che manchino regole certe! Mancheranno sempre fino a quando il sindacato prima andrà a discutere al tavolino e poi eventualmente a lottare. La Cgil che vogliamo dovrà fare l’inverso, solo così potrà avere potere contrattuale al tavolo delle trattative. Altrimenti, in mancanza di mobilitazione, avremo la certezza che Confindustria continuerà a calpestare tutte le regole.
Rinaldini ha poi continuato dicendo forse l’unica cosa che mi sia davvero piaciuta del suo discorso: la stagione della concertazione è finita. Tuttavia, mi domando se l’abbia detto perché ci crede davvero oppure solo perché non riesce ad ottenere dalla controparte padronale un tavolo per definire regole certe. In questo caso sarebbe terribile, basterebbe infatti un tavolo un po’ più largo alla Confindustria per riguadagnare la Fiom alla concertazione.

La stagione della concertazione è finita, ma a guardare bene non sarebbe dovuta nemmeno iniziare. Inoltre, il termine “concertazione”, usato per definire gli ultimi 20 anni di sindacato, è radicalmente sbagliato. Infatti, se non porta a casa la rivoluzione, il sindacato è sempre concertativo. Chiede 10, lotta e alla fine porta a casa 5. Padroni e sindacati concertano così una soluzione in cui ciascuno dovrà rinunciare a tutte le sue pretese, accontentandosi di vederne soddisfatte solo qualcuna. Questa è la vera concertazione. Quella che ha dominato negli ultimi vent’anni non è concertazione. A cosa hanno dovuto rinunciare infatti gli industriali? Gli industriali non hanno concertato niente, perché il sindacato gli ha concesso tutto. Non è la stagione della concertazione che dovrebbe finire, ma quella della capitolazione prima ancora di combattere. Sono due cose diverse, ed è per questo che la seconda non sarebbe mai dovuta cominciare.
La stagione della capitolazione è finita, parole liberamente interpretate dal discorso di Rinaldini, in pratica però finirà solo quando capitolerà la Confindustria. E la Confindustria non capitolerà per una manifestazione festiva o per 4 ore testimoniali di sciopero. La vertenza generale che dovrebbe rinnovare la Cgil, comincia purtroppo nel solito vecchio modo. La Cgil che vuole Rinaldini ha esaltato il 16 ottobre, come il prologo del “nuovo corso”, La Cgil che vogliamo dovrà sperare che sia l’epilogo di quello vecchio.
Il nuovo corso per essere tale, dovrà darci un taglio con le manifestazioni testimoniali, dovrà risparmiare i soldi per riempire le casse in vista di una mobilitazione prolungata fino al raggiungimento degli obiettivi prefissati, fossero pure la semplice applicazione della piattaforma Fiom. Il nuovo corso dovrà fare meno appelli alla società civile, cioè alla piccola borghesia, e rivolgersi con coraggio a tutti gli strati del proletariato a cominciare da quelli radunati nel sindacalismo di base, unico vero possibile alleato, organizzato, della Fiom che lotta. La società civile, non si illudano i lavoratori, quando ci mobiliteremo davvero, si schiererà dall’altra parte della barricata, specie gli intellettuali, la cui testa ragiona sempre ai piedi dei padroni. I lavoratori della Fiom possono puntare solo su se stessi e sui loro colleghi. È bene quindi che non li discriminino come successo in Marcegaglia con la democratica Fiom che s’è pappata un delegato dei Cub in nome degli accordi interconfederali del ’93. Stupisce la miopia dell’apparato che sfrutta chi non ha firmato i Contratti Nazionali, quando lo stesso Rinaldini ha spiegato che a breve, non essendo capitolati al nuovo modello contrattuale imposto da Confindustria e sindacati gialli, subiremo lo stesso trattamento che da anni imponiamo al sindacalismo di base. Avrei voluto quindi sentire Rinaldini prendere le distanze da quanto avvenuto in Marcegaglia. Rinaldini ha passato sotto silenzio questo grave episodio, confermando come per molti dei dirigenti la democrazia sia importante solo quando fa comodo, quando qualcuno ci taglia fuori. Quando invece tagliamo fuori noi gli altri, se ne può fare a meno.
La democrazia e le regole certe di Rinaldini, non vanno insomma più in là di quelle espresse dalla raccolta firme sulla rappresentanza sindacale. Una rappresentanza che si vuole proporzionale e al tempo stesso unitaria. Ma, stando così le cose, la democrazia proporzionale serve solo per tutelare all’esterno l’apparato burocratico della Fiom, perché la rappresentanza unitaria dentro le fabbriche, vanifica il metodo proporzionale per tutelare di fatto nessuno, vale a dire i padroni. Se la concertazione è finita, che finisca anche l’inciucio con Fim e Uilm all’interno delle fabbriche. Finché La Cgil che vogliamo non romperà con Fim e Uilm dentro le fabbriche, ogni discorso sulla democrazia puzzerà di demagogia burocratica. E non sarà con la demagogia che riusciremo a costruire l’opposizione in Cgil, perché ne La Cgil che vogliamo confluirà il meglio del nostro sindacato, la parte più attiva e cosciente degli iscritti, quella che non può essere abbindolata facilmente con discorsi retorici sulla democrazia, perché chi è cosciente, mentre sente Rinaldini parlare di democrazia, non ignora affatto tutti i retroscena recenti in cui anche la Fiom, purtroppo, l’ha calpestata.

Sotto questo punto di vista, pensando all’alto grado di maturità dei lavoratori a cui dovremo rivolgerci, mi ha dato infine anche fastidio il modo in cui Rinaldini ha irriso l’idea di socialismo. Socialismo è la parola più bella del dizionario. Senza, perdono di significato tutte le altre. Il discorso di Rinaldini è di conseguenza senza senso. Non credo che il socialismo sia all’ordine del giorno, ma non riprendere in mano il discorso sulla trasformazione sociale, significa esaltare un sindacato felice di restare impantanato nella notte buia e senza fine del capitalismo. La Cgil che vogliamo o vorrà il socialismo o non vorrà niente. Rinaldini e con lui buona parte dell’area programmatica, come conferma il documento senza prospettive, vacuo, generico e triste distribuito all’entrata, non vuole il socialismo, ma un capitalismo diverso. Se è vero – ma solo da un determinato punto di vista, per altro sbagliato – che la maggioranza della Cgil ha visto sbriciolarsi le sue illusioni appena finito il congresso, Rinaldini non creda di essere meno fuori dal mondo quando intona il mantra sindacale: innovazione, ricerca e sviluppo sostenibile (si veda a questo il suo documento presentato il 16-17 Settembre e distribuito durante l’assemblea del 24)(*). La Cgil che vuole Rinaldini chiede risposte di qualità alle sfide della globalizzazione. La Cgil che vogliamo, almeno, si spera, noi delegati più coscienti e avanzati, non faccia domande inutili, la sfida della globalizzazione esige un sindacato che la affronti e la batta, spedendola definitivamente in soffitta con tutti i suoi padroni. Chiedere risposte di qualità alla sfida della globalizzazione, vuol dire soltanto domandare ancora una quantità interminabile di sconfitte per i lavoratori.

Un altro capitalismo è impossibile. Il tardocapitalismo di oggi non si può modificare, e chi cerca di farlo otterrà solo di essere modificato dal capitalismo. Senza prospettiva socialista, anticapitalista, La Cgil che vogliamo sarà, in un modo o nell’altro, La Cgil che vogliono i padroni, La stessa Cgil che vuole la maggioranza di Epifani.



(*) L’idea che la maggioranza della Cgil sia uscita scornata alla fine del Congresso, perché dopo aver insistito per il ritorno alla concertazione con Cisl e Uil, s’è vista immediatamente estromessa dal tavolo con Confindustria e Governo, sottende l’ipotesi sbagliata che Epifani e compagni parlino in quel modo per amore della Cgil e dei lavoratori. Se così fosse l’idea della minoranza sarebbe giusta, ma così non è. Dal suo punto di vista, la maggioranza della Cgil ha visto giusto, è la minoranza che ha visto sbagliato per la miopia del suo gruppo dirigente. A Epifani e compagni non interessano tanto i lavoratori, quanto il Partito Democratico e la spartizione di potere con la Confindustria. E per il Partito Democratico della Confindustria è meglio tener fuori dal tavolo delle trattative tutta la burocrazia della Cgil, piuttosto che farcela entrare con anche solo un minimo seguito di rappresentanza operaia.

dal Blog "Utopia rossa"

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