Diari di Cineclub

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mercoledì 6 ottobre 2010



 ALFONSO LEONETTI (1895-1984)



ALFONSO, COME LO RICORDO ANCORA

di Antonella Marrazzi






Vista la buona accoglienza che ha avuto presso questo blog l'omaggio ad Alfonso Leonetti, abbiamo deciso di pubblicare questo bellissimo ricordo umano che, con la grande sensibilità che la contraddistingue, Antonella Marrazzi ha scritto, è tratto dal suo libro dedicato a questo grande militante rivoluzionario tra i fondatori del Partito comunista d'Italia, massimo esponente della sua Direzione, direttore dell' "Unità", espulso nel 1930 per "trotskismo".



Alfonso Leonetti, abitava a Roma, al "Villaggio dei giornalisti" in cima a Monte Mario, in un attico proteso verso occidente. Viveva solo in una casa spaziosa e ordinatissima, odorosa di cera. Il suo regno era il piccolo studio tappezzato di libri: c'era una grande porta-finestra che dava su un enorme, luminoso terrazzo, che si allungava a triangolo su piazza Igea (ormai piazza Walter Rossi). Quel terrazzo sempre deserto -in estate troppo assolato, in inverno troppo freddo e ventoso- rendeva tutta la casa simile a una nave, lanciata verso i marosi di un oceano senza confini. Il capitano la dominava dalla sua cabina, luogo di studio e di memoria, che racchiudeva gli strumenti preziosi del suo operare. Il terrazzo ne rappresentava la prua, protesa in avanti, aperta verso il mondo infinito in cui sogni, ricordi e progetti si mescolavano senza posa nei pensieri del suo pilota indomito, vecchio e stanco nel fisico, ma animato da uno spirito di avventura incontenibile.
Ci eravamo conosciuti a maggio del 1973, Roberto (Massari), all'epoca mio compagno di lotta politica e di vita, andò a trovarlo per primo (...) ne ricevette un'impressione profonda. Ricordo che tornò a casa entusiata, pieno di idee e nuovi progetti, come se Alfonso gli avesse infuso una parte consistente del suo inarrestabile ottimismo della ragione. Alfonso gli aveva dato dei regali per me. Ciò mi colpì in modo particolare per due motivi: la sensibiltà di aver pensato a me, pur non conoscendomi, e il tipo di doni che mi mandava: un libro con dedica, scritto dalla sua compagna -Pia Carena- scomparsa a ottobre del 1968.
Pensai che Alfonso, dovesse essere una persona di grande umanità e ricchezza interiore, per il quale il mondo degli affetti, non meno di quello della razionalità e del pensiero, aveva un posto determinante sia nella sua vita intima, sia nel suo concreto operare.
Volli conoscere e il giorno dopo andammo con Roberto a trovarlo. In tutti gli anni a venire  fino alla sua morte, ogni volta che salivo al suo attico pieno di luce, mi sembrava di attraccare in un approdo sicuro, ricco di certezze spirituali e intellettuali.
Non si udivano rumori dietro quella porta scura. Il campanello risuonava nitido nel silenzio e dopo qualche attimo si percepiva il suono lento dei passi di Alfonso che si avvicinava alla porta, trascinando a fatica sul pavimento le sue pantofole di feltro. Apriva la porta sorridendo e mi abbraciava con calore, lo zucchetto a coprire la testa pelata e la giacca di casa di lana marrone -quella che indossavano i capofamiglia di un tempo.
La vecchiezza e la cifosi cervicale lo rendevamo più basso di me, che pure non sono alta e ricordo che mi piegavo a baciarlo sulle guance affilate. Le sue mani, grandi per quel suo corpo minuto, stringevano calde le mie. Il suo studio ci accoglieva avvolgente, mentre lui sprofondava nella vecchia, ampia poltrona di pelle consunta. La finestra affacciata sul terrazzo rendeva sconfinata quella piccola stanza raccolta e aperta sul mondo, come i pensieri del suo capitano. (...)
Era semplice e diretto. Non mi sono mai sentita a disagio perchè non era li a parlarsi addosso o a emettere sentenze. Ti stava di fronte guardandoti diritto in viso con quei suoi occhi dolci e penetranti, e parlava per comunicare, per imbastire un dialogo che avesse un senso, che aiutasse la comprensione del presente e creasse  progettualità per il futuro, come se la nostra, la sua esistenza non dovesse avere mai fine: completamente immedisimato e inserito nell'esistente, pronto all'analisi e alla critica, impaziente di fare, perchè nell'azione concreta sostenuta dal pensiero trovava la sua stessa ragion d'essere, non quella dell'idealista inconcludente, ma del marxista rigoroso che nella prassi vede la realizzazione della sua "visionaria utopia".
Ciò che mi ha sempre colpito della sua personalità, e che me lo ha fatto amare come compagno e amico fraterno, era proprio quel misto di rigore analitico e di irresistibile entusiasmo nel lanciarsi nelle cose, nei nuovi progetti, come se il suo lungo e complesso, spesso doloroso passato non avesse intaccato il suo fermo
credo nella possibiltà inevitabile della realizzazione di una società comunista. (...)
A un certo punto la sua salute peggiorò e dovette essere operato alla prostata. Questa volta venne operato a Villa Margherita. Mi chiese di fargli assistenza la notte dopo l'operazione. La stanza era confortevole e caldissima. Ricordo questo caldo soffocante che cercavo di combattere ogni tanto con un bicchiere d'acqua.
Alfonfo era debole e fragile. Dovevo controllare la flebo e la sacca delle urine. Non dormi quasi mai.
Lui non si lamentava, pur soffrendo per la ferità e il catetere, non mi chiamò mai durante la notte, era un paziente modello. Scambiammo poche parole, ma molto parlarono i nostri occhi, rassicurandoci vicendevolmente. Tornò a casa e si ristabilì. ma le forze declinavano e i ricoveri si fecero più frequenti. Lo spirito era sempre indomito, ma il corpo si consumava inesorabilmente. Diceva con un sorriso che per uno come lui nato fragile, aveva vissuto molto...
Poi, nel dicembre dell'84 fu di nuovo ricoverato: l'enfisema polmonare era peggiorato e il cuore soffriva. Lo andai a trovare con Roberto al Gemelli, il pomeriggio del 25 dicembre, il giorno prima che morisse. Questa volta era ricoverato in corsia, una grande stanza a sei letti, perchè il ricovero d'urgenza non aveva trovato camere singoli disponibili. Respirava a fatica, sorretto da due cuscini, il collo chiuso nella protesi che sosteneva il capo. Era debolissimo, e le parole non riuscivano a essere udibili. Ci intendemmo a cenni e con gli sguardi.
Sapevamo che stava morendo, lo sapeva anche lui.
Mi accarezzò il ventre prominente dove da cinque mesi viveva Liben, figlio mio e di Roberto. Era stato contento della notizia, quando gliela avevamo dato a settembre. Alfonso viveva rivolto al futuro, sempre, e una nuova vita che si affacciava sul mondo era motivo di gioia e di nuova speranza. Sorridenso alzò a fatica la mano destra facendo con le dita il segno del "quattro". Non capì subito cosa volesse dire. Pensai alla Quarta internazionale, ma poi fu chiaro che intendeva i mesi che ancora mancavano alla nuova nascita.
Negli ultimi momenti della sua vita, ancora una volta guardava avanti, alle generazioni future. Gli accarezzai la mano affilata posata sul lenzuolo candido. Infondeva ancora calore. Ricordo che trattenevo a stento le lacrime e il suo viso gentile mi appariva sfocato. Guardandoci con dolcezza ci fece cenno di andare. Andammo: incespicavo scendendo le scale perchè le lacrime non più trattenute mi impedivano di vedere. Sapevamo che non l'avremmo rivisto e che un pezzo della nostra vita se ne andava con lui.
Pochi giorni dopo, a ridosso dell'ultimo dell'anno, un pomeriggio freddo e ventoso, lo commemorammo con altri compagni a piazza del Pantheon. Ricordo che mi stringevo rabbrividendo nel giaccone, pensando che mio figlio non l'avrebbe conosciuto. E mi venivano in mente le parole piene di fiducia nel futuro che mi aveva scritto in una delle sue lettere:

"...a 88 anni, conservo per il futuro dell'umanità e il socialismo, la stessa certezza che avevo a 18 anni quando, nel '13 mi iscrissi al "fascio" giovanile socialista di Andria... l'essenziale è conservare questa certezza. E allora, importa poco tutto il numero di rinnegati, di traditori o semplicemente di quanti abbandonano il campo. Si può rimanere soli ed essere nel solco della storia, cioè non essere soli. Io non credo alla fine del nostro pianeta. Ci saranno grandi distruzioni e grandi massacri, ma gli uomini, vinti o vincitori, continueranno a esistere. I problemi che si porranno per essi -vivere, organizzare la società su basi nuove -porranno ancora e sempre il problema del socialismo, il solo -nell'epoca presente- capace di assicurare pace e sviluppo."

Autunno 2004

Per gentile concessione della Massari Editore

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