Diari di Cineclub

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Rivista Cinematografica online e gratuita

giovedì 14 ottobre 2010




PERCHE' LA RIFORMA GELMINI E' DA ROTTAMARE PRIMA CHE NASCA  
di Francesco Sylos Labini








Le discussioni sul DDL Gelmini sono spesso basate su slogan del tipo: introduce la meritocrazia e la valutazione nell'università, limita i poteri dei "baroni", ecc. A me sembra che dietro questi slogan non ci sia nulla di concreto, tantomeno l'introduzione di criteri di valutazione seri o dei limiti ai poteri dei baroni. Questa è una riforma che non presta alcuna attenzione alle forze più fresche ed attive del mondo della ricerca e dell'università. La riforma Gelmini, con le sue 179 norme più le deleghe (che fa 500 norme)rappresenta l’affossamento definitivo del sistema pubblico.

IL CORPO DOCENTE

Il corpo docente dell'università (professori ordinari, associati e ricercatori) è il più anziano tra i paesi OCSE. In particolare vi è un grande quantità di ultra-sessantenni (27% con età maggiore di 60 anni, di cui il14% con età maggiore di 65 anni) ed una piccola frazione di giovani (1,8 % sotto i 30 anni e 14% tra 30 e 40). E’ bene tenere presente che entrambe queste caratteristiche non si ritrovano in nessuno dei paesi sviluppati (e non!).
Dal 1980 al 2005, si osserva un innalzamento dell’età media di reclutamento che cresce di circa quattro mesi ogni anno, ovvero i ricercatori assunti nel 1980 erano mediamente di otto anni più giovani rispetto a quelli assunti nel 2005 (29 anni nel 1980 e 37 nel 2005). Questa tendenza è caratteristica del sistema universitario nella sua interezza ed è un fenomeno di lungo corso. In tutti gli altri paesi europei i docenti universitari vanno in pensione a 65 anni. In Italia, si arriva oltre i 70. Il numero di “precari” («giovani» ricercatori qualificati con contratti di lavoro temporanei) nell’università e negli enti di ricerca è stimato essere una frazione rilevante che coinvolgono più del 50% del personale a tempo indeterminato circa (stimedicono addirittura il 100%, ovvero 70,000 o più unità). Dal breve elenco di cui sopra si nota che l’Italia è il paese al mondo in cui è massimo il contrasto tra giovani ed anziani nel corpo docente. Dunque per rimetterci in linea con il resto del mondo bisognerebbe considerare seriamente la proposta di abbassare l’età pensionabile dei docenti a 65 anni. E' una proposta del tutto ragionevole e necessaria. Ovunque si va in pensione a 65-67 anni. Ma un intervento così delicato andrebbe considerato all'interno di una riforma seria dell'università e discusso nel contesto in cui avviene, perché sono tanti i problemi che emergono insieme a quello dell’età pensionabile. Nei prossimi 10 anni, tra il 40 e il 50 per cento del corpo docente attuale andrà in pensione. Diminuendo improvvisamente l’età pensionabile questa frazione aumenterebbe, andando oltre il 60 per cento. Se poi consideriamo il blocco del turn over al 20 per cento, ecco che diventa chiaro un disegno di ridimensionamento del sistema universitario italiano, cosa che potrebbe in linea di principio avere un senso (ma non lo ha se si vogliono raggiungere standard europei) ma solo dopo una discussione pubblica ed approfondita del ruolo dell'università nella società e non come indotto di una politica di tagli indiscriminati.

RECLUTAMENTO

Vediamo come viene affrontato il problema del reclutamento, problema chiave non solo per l'immissione in ruolo di nuove leve ma anche per la progressione di carriera degli attuali docenti. Il DDL Gelmini vuole introdurre una figura nuova ispirata alla tenure-track (TT) americana. La TT è un contratto che alla fine di un periodo di prova, in genere di cinque anni, prevede l'assunzione a tempo indeterminato se la valutazione è positiva. E' quindi prevista da subito la copertura finanziaria per l'eventuale posizione tenured. Nella versione italiana invece, la conferma nel ruolo di associato avviene dopo il conseguimento di un giudizio di idoneità nazionale ed il superamento di un concorso locale, senza prevedere dall'inizio la copertura finanziaria per il posto permanente. La TT negli Stati Uniti funziona perché l’università assicura da subito la copertura finanziaria per la posizione permanente (per sempre). Le università italiane ad oggi non sanno ancora quale sia lo stanziamento di bilancio per l’anno in corso, dunque è evidente che la forma italiana della TT è simile ad un contratto a tempo determinato piuttosto che alla vera TT americana.
Inoltre viene messo in esaurimento il ruolo di ricercatore, figura introdotta con la 382/1980 e che è ancora in attesa della definizione dello stato giuridico. Secondo le attuali norme i ricercatori universitari non sono tenuti ad insegnare ma in realtà circa la metà dei corsi sono affidati a loro. Da questa situazione, e dal fatto che le prospettive di carriera per i ricercatori sono del tutto incerte con l'introduzione della TT (all'italiana), una gran parte dei ricercatori ha deciso l'indisponibilità a fare i corsi. Questo non è uno sciopero ma, appunto, una indisponibilità a fare un lavoro che, per legge, non sono tenuti a fare. In buona sostanza l’abolizione del posto di ricercatore con la sua sostituzione con la TT (all'italiana) è una presa in giro non solo per gli attuali ricercatori, ma per i 50.000 o più precari dell’università.

SALARI

È noto che un ricercatore in Italia, all’ingresso, percepisce una retribuzione netta di circa 1.500 euro al mese (contro i quasi 2.000 di Francia e Spagna e i 2.500 del Regno Unito), mentre un professore ordinario a fine carriera ha una retribuzione del tutto comparabile agli stipendi dei professori delle università americane (dell’ordine di 100.000 euro lordi all’anno). A questo riguardo è importante notare che, mentre negli Stati Uniti lo stipendio di un professore è correlato al merito accademico, in Italia ciò dipende, all’interno di ogni fascia, solo dall’anzianità di servizio. Quindi, contrariamente agli Stati Uniti, la fascia di professori universitari d’età avanzata coincide con la fascia maggiormente retribuita. Questo fatto può essere dimostrato in maniera quantitativa calcolando la retribuzione media percepita dai docenti di una certa età. Come ci si poteva aspettare, osserviamo una semplice relazione lineare tra età e retribuzione, definite quindi da due quantità, determinate dalla politica salariale, che sono lo stipendio di entrata e la differenza tra retribuzione minima e massima. Dunque, in media, a 30 anni si guadagnano 20.000 euro l’anno, a 50 anni 60.000 ed a 70 se ne guadagnavano 80.000 nel 2002 e quasi 95.000 nel 2004. Questa disparità sembra paradossale, considerando che le necessità economiche di un settantenne sono senz’altro inferiori rispetto a quelle di un trentenne o quarantenne che sia. Analizzando i dati delle retribuzioni dei docenti per vari anni accademici (1998-2004) è possibile osservare come la differenza tra la retribuzione minima e quella massima sia rimasta sostanzialmente invariata negli anni, mentre lo stipendio d’ingresso di un giovane ricercatore è cresciuto di poco. Un aumento che compensa in parte l’inflazione ma certamente non in maniera adeguata da poter confrontare tale stipendio con quello percepito in un altro paese europeo e dunque tale da rendere competitivo il nostro sistema universitario.
Possiamo quindi concludere che la tendenza delle variazioni delle retribuzioni negli anni 1998-2004 non è andata nella direzione di una ripartizione più equa delle risorse tra giovani ed anziani. Dall'analisi dei dati OCSE, si giunge alla conclusione che un ricercatore italiano con un'esperienza lavorativa tra 0 e 4 anni guadagna circa 12.500 euro l'anno contro i 30.500 del collega francese ed i circa 24.000 di quello tedesco. In Spagna si arriva comunque vicino a 17.000: per trovare compensi più bassi bisogna guardare ai Paesi dell'Est. Inoltre si tenga presente che i salari di ingresso attuali sono più bassi di quelli delle generazioni precedenti. Negli ultimi anni si è assistito ad un ritardo nelle progressioni di carriera che dunque hanno aggravato la situazione salariale delle componente più giovane del corpo accademico anche nella prospettiva della pensione.

VALUTAZIONE

Passiamo alla questione della valutazione, tema strettamente collegato alla meritocrazia. Il DDL Gelmini non s'impegna nel disegno di un sistema di incentivi che cerchi di premiare chi fa bene e punire chi fa male. Finora di passi concreti verso una valutazione dell’attività di ricerca non ne sono stati fatti, né durante il Ministero Mussi né durante il Ministero Gelmini. L'unico tentativo è stato quello fatto durante il ministero Moratti con il CIVR che ha analizzato la produttività scientifica 2001-2003, senza poi alcun tipo di riscontro nella successiva distribuzione delle risorse.
A questo riguardo, va sottolineato come le parole siano spesso usate per creare una cortina fumogena che nasconde i pochi fatti. Ad esempio, le linee guida diffuse dal ministro Gelmini il 6 novembre 2008 intendevano dare: «Autonomia e responsabilità, quindi, ma anche, soprattutto, il merito come criterio costante di scelta: nell’allocazione delle risorse, nella valutazione dei corsi e delle sedi, nella scelta e nella remunerazione dei docenti, nella promozione della ricerca». Inoltre si dichiarava che: «Già nel 2009 il 7% di tutti i fondi di finanziamento alle università sarà erogato su base valutativa e la percentuale è destinata a crescere rapidamente negli anni successivi per allinearci alla migliore prassi internazionale. L’obiettivo è infatti quello di raggiungere entro la legislatura il 30%». Questi buoni propositi, finora, sono rimasti tali e, come notato da Daniele Checchi e Tullio Jappelli, a metà del 2009 nessun passo concreto è stato fatto verso una ripartizione reale del finanziamento in base alla produttività didattica o scientifica degli atenei. Gli stessi autori, analizzando i criteri con i quali vengono ripartiti i fondi collegati alla Programmazione triennale 2007-2009, concludono: «La morale è che comunque ti comporti avrai qualcosa, e che premio e sanzione non differiscono di molto».
Il punto chiave, non affrontato in alcun modo dal DDL Gelmini, sarebbe stato quello di puntare ad un sistema di incentivi secondo il quale le risorse siano distribuite ai dipartimenti e non agli atenei. Una valutazione analitica e sistematica del sistema universitario è indispensabile per identificare quello che funziona e quello che non funziona, per premiare chi fa bene e "punire" chi fa male. Tuttavia nell'attuale situazione si vuole perseguire una valutazione senza risorse, ovvero perseguire obiettivi di qualità senza strumenti. Il taglio nel finanziamento all'università è stato di fatto orizzontale: si colpisce indipendentemente dal merito ed è una mannaia che si abbatte in maniera indiscriminata su tutto e su tutti, ed in particolare sugli anelli più deboli del sistema universitario, i cosiddetti "giovani".
La meritocrazia nel DDL Gelmini è delegata all’istituzione dell’ANVUR, di cui tra l’altro si parla da un decennio e che per il momento è una scatola vuota.

GOVERNANCE

Uno dei punti cardine del DDL Gelmini è la riforma della governace universitaria, in cui vi sarà un Senato Accademico senza poteri ed un Consiglio di Amministrazione che diventa il vero organo deliberante dell'ateneo. In questo quadro i Rettori assumono un potere notevolissimo, che di fatto già hanno (e quindi il DDL non fa che istituzionalizzare una situazione che di fatto già esiste ed i Rettori non possono essere che contenti, ed infatti lo sono). L'idea è che il CdA sia aperto all'esterno, ma non si affronta la domanda: chi sono i membri esterni? La riforma della governance apre le porte per la trasformazione delle università in ASL, in cui oltre al potere accademico ci saranno interferenze da parte del potere politico

CONCLUSIONE

Concludo citando Il Senato Accademico dell'Università La Sapienza: “Abbiamo fatto tutto il possibile: abbiamo ridotto i Dipartimenti del 40%, le Facoltà del 60%, riordinato la governance, decentrando tutti i poteri gestionali di ricerca e didattica ai Dipartimenti con organi centrali e Facoltà che hanno funzione di valutazione premiale delle attività. La responsabilità è ora del Governo e del Parlamento che debbono dare risposte concrete sui finanziamenti ormai drammaticamente insufficienti (l’università italiana è ultima in Europa) e sullo stato giuridico che i ricercatori attendono da 30 anni. La Sapienza ha operato per razionalizzare, risparmiare e riprogettare in funzione della qualità. Se dalla politica non ci saranno risposte, soprattutto finanziare, avremo una didattica da terzo mondo e una ricerca in dissoluzione. In tali condizioni non saremo in grado di iniziare l’anno accademico 2010-2011”.

La riforma Gelmini non solo sta per assestare un colpo mortale all’università ed alla ricerca in Italia, ma sembra essere un vero e proprio insulto alle nuove generazioni. Quelli che nell’università non sono ancora entrati e che probabilmente, a parte rare eccezioni, non ci entreranno mai. C’è bisogno di un’opposizione intransigente, con iniziative consone alla gravità della situazione, ma è necessario anche elaborare una riforma dell’università che abbia presupposti e prospettive completamente differenti da quelle del DDL Gelmini. Perché rifiutare una riforma insensata come quella della Gelmini è necessario, ma difendere l’esistente è impossibile. Per questo una riflessione seria e sistematica è quantomai opportuna in questo momento, anche se mi sembra difficile che la classe accademica, che ha messo del suo nel generare il disastro attuale, sia capace di auto-riformarsi. C’è bisogno di un coinvolgimento di tutti, compresi gli studenti e gli attuali precari ed i ricercatori che alla fine rappresentano il futuro del sistema universitario, ed anche quella parte dei sindacati che lavora con competenza nel mondo della ricerca per capire come agire.



12 ottobre 2010
Pubblicato su La Scienza in Rete

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