Diari di Cineclub

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venerdì 5 gennaio 2018

IDEE PERDUTE E MAI RITROVATE di Teresio Spalla




IDEE PERDUTE E MAI RITROVATE
I “piani Beveridge”per l’Italia di oggi ? E buon Anno a tutti....

Almanacco di Teresio Spalla . novembre-dicembre 2017

Con “Idee perdute e mai ritrovate” (i “piani Beveridge....”) l’ultimo Almanacco dell’anno 2017 si adegua alla scarsità di tempo del suo autore in questi ultimi mesi, il quale, però, può promettere ragionevolmente, nell’anno che verrà, di cercare di rispettare la puntualità che ha accompagnato questa esperienza di riproposte da materiale già pubblicato o scritto appositamente - specialmente i pezzi che riguardano Imperia, la mia città natale – e che nell’anno imminente compie dieci anni.
Non potendo scrivere che poche righe mi sono rifatto, per illustrare i “piani Beveridge” a scritti da me pubblicati nel passato e, sempre nel passato prossimo, editi da storici e studiosi che, su questo frangente di analisi, mi sento di condividere al 99% anche se essi, nel tempo successivo, hanno preso posizioni diversificate dalla mia.

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Posso approfittarne, oggi 30 dicembre 2017, per fare gli Auguri per il 2018 a tutti le mie amiche e amici sinceri, presenti o non Fb, esprimendoli con tutto cuore, specialmente a coloro che non sono in salute o hanno cari parenti in grave malattia.
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Ma credo, ancora una volta, che, come cantava Lucio Dalla in un’antica canzone del ’79, “ (…)L’anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va. “(…) c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra. E si sta senza parlare per intere settimane. E a quelli che hanno niente da dire del tempo ne rimane”.
Mentre non credo affatto alla ritmata metafora : “ (…) la televisione ha detto che il nuovo anno porterà una trasformazione. E tutti quanti stiamo già aspettando. Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno. Ogni Cristo scenderà dalla croce. E anche gli uccelli faranno ritorno. Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno. Anche i muti potranno parlare. Mentre i sordi già lo fanno”.
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No. Il 2018, che non a caso comincia con una campagna elettorale tra le più confuse, espressa in un sistema elettivo ingannatore, non vedrà miracoli e, probabilmente, e la vera Sinistra dovrà misurarsi (con tutta o quasi la stampa e i network televisivi contro) con un incrementarsi della voracità del capitalismo mondialista e senza pietà, e dovrà molto combattere per ristabilire il proprio primato, poiché nessuna forza fortemente contrastante riuscirà che ad iniziare un cammino che si preavvisa molto lungo e contrastato.
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La dimostrazione simbolica di ciò, del resto, è stata la disposizione, firmata da quello stesso ministro Minniti specializzato nell’osteggiare i migranti e le manifestazioni a loro favore, che - con disposizione riportata dalla “Gazzetta ufficiale” dal 10 novembre - ha autorizzato il ritorno della salma di Vittorio Emanuele III, il re traditore di tutti e soprattutto del suo popolo; il re del massacro insensato di massa della prima guerra mondiale, del fascismo, l'alleanza con il nazismo, la guerra; il re che firmò le leggi razziali del '38 infamia delle infamie; il re della vergognosa fuga da Roma lasciata nelle mani dei tedeschi, il re dell'8 settembre e dell'esercito e gli italiani abbandonati all'occupatore e alle camicie nere; il re dalla putrida stirpe di eredi ancora in giro per la nazione e gli schermi televisivi; il quale non rinunciò neanche al regno, nemmeno nel suo esilio di Alessandria d’Egitto, se non quando, in un estremo tentativo di salvare la monarchia, fu costretto ad abdicare, soltanto sotto pressione degli accoliti più vicini, il 9 maggio 1946, a soli ventiquattro giorni dal referendum, concedendo al suo inetto figlio, fino allora soltanto luogotenente del regno, una monarchia già sconfitta dalla Storia e poi respinta dagli italiani il 2 giugno dello stesso anno.
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Questo evento è stato interpretato, dai soliti “terzisti” alle vongole e dai “buonisti” dalle vene di marmellata di cachi, come un evento che l’ineluttabile accettazione della Repubblica rende solo un atto di generosità per la soddisfazione di pochi nostalgici”.
Ciò non è assolutamente vero.
Il ripristino in Italia della salma del Savoia è un segno chiaro, un messaggio esplicito, di quella destra al potere e di quella ancor più feroce, che si è innervata nel sistema nervoso di tanta cittadinanza, la quale, manifesta così di sentirsi, in modo o nell’altro, al potere.
E così lo manifestano, nel modo più offensivo per quel che resta di onesto del sentimento repubblicano e di una Costituzione violata ogni giorno, minuto dopo minuto, che, nel suo settantesimo anniversario, si è vista tradita anche nella disposizione per cui “I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive.
Agli ex re di casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato.I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli.”
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E chi non capisce il valore ideologico reazionario di quest’atto di viltà della pseudosinistra governativa e di gran parte delle camere, o non può capire per stupidità o finge di non capire per vigliaccheria congenita.
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Vale comunque la pena ricordare che il percorso iniziò ben vent’anni fa, nel 1997, con un disegno di legge del primo governo Prodi – il cui ministro competente in materia era, guarda caso, Giorgio Napolitano – e si conclude nel 2001, con il sì del 2° governo Berlusconi all’abolizione della disposizione suddetta della Costituzione e l’autorizzazione al rientro dei membri della ghigliottinabile famiglia, col voto determinante, in parlamento, dei deputati e senatori Ds, col presidente della Camera Luciano Violante (quello che si appellò “ai fratelli in camicia nera”), ministri competenti Giuseppe Pisanu e Carlo Giovanardi.
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Ma, tralasciato lo sdegno per quanto avvenuto recentemente (poche cose ancora riescono a farmi indignare – ho visto troppo e troppo di troppo nella mia esistenza – ma questa ci è riuscita) e che certo non è solo ciò, cominciamo il discorso sui “piani Beveridge”.
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Varrà la pena, prima di riportare i brani raccolti, ricordare chi fosse William Beveridge (1879-1963) il quale, fin dal 1942, in piena guerra, rinforzato dal vedere i laburisti lavorare soprattutto sul “fronte interno” sotto i bombardanti tedeschi, scrisse un “rapporto sulla sicurezza sociale e i servizi connessi” - meglio conosciuto come “Rapporto Beveridge”- che servì da base per la riforma dello welfare britannico messa in atto dai gabinetti laburisti guidati da Clement Attlee (1945-1955), conseguentemente adattati e riproposti dai governi di Harold Wilson (1963-1976) e mai sostanzialmente smantellati dalle amministrazioni conservatrici Gaitskell e Brown (1955-1963) con Churchill presidente e capo ancora indiscusso del loro partito.
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Beveridge era un economista – ma è anche fondamentale il suo ruolo come sociologo e antropologo sociale e culturale – il quale, fin dal 1903, a soli ventiquattro anni, aveva cominciato ad interessarsi ai problemi dei salari e della disoccupazione dei lavoratori collaborando con Sidney Webb, uno dei fondatori eccellenti del socialismo brittannico, e con lui, per le loro competenze politiche, il sociologo marxista Edward Carpenter.
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Collaborarono inoltre con Beveridge lo scienziato comunista Oliver Joseph Lodge, la leader suffragista Emmeline Pankhurst (in seguito fondatrice del femminismo rivoluzionario fin dal 1879), Charlotte Wilson (prima anarchista e poi fondatrice della “Karl Marx society” nel 1886), il filosofo Bertrand Russell; il sessuologo Henry Havelock Ellis (il quale, attraverso i suoi studi, diede una prima ragione, libertaria e ampiamente tollerante, all’omosessualità - che nel regno rimase proibita fino al 1967 – e all’avanzare dell’eugenetica).
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Furono al fianco di Beveridge, come sodali e consulenti, per quel che competeva il loro impegno politico, gli scrittori Annie Bessant, George Orwell, H.G.Wells e il commediografo George Bernard Shaw, nonché, prima del suo penoso declino, Oscar Wilde.
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Beveridge, che era anche autorevole dirigente della “società di eugenetica”, avvocato, e propugnatore ( essendo nato a Rangpur, oggi nel Bangladesh, da una famiglia dove emergeva la madre, traduttrice dei testi fondamentali indiani e la quale insegnò l’indostano, l’arabo e il turco al figlio che finì col conoscere ben dodici lingue) dell’indipendenza delle colonie nel contesto di una configurazione di collaborazione tra pari che ne fa anche un fondatore del Commonwealth sebbene non abbia partecipato alla sua creazione;
non cessò mai di essere una figura di primo piano negli studi sociali tant’è che le sue opere non hanno mai smesso, se non altro, di essere tacitamente censurate dai governi di Margaret Thatcher e dal falso laburista Tony Blair, sebbene oggi Jeremy Corbyn ne abbia fatto uno degli ispiratori del socialismo attuale, favorendone la lettura tra i militanti del Labour Party ma anche tra le numerose aggregazioni giovanili che lo seguono.
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Tra le sue opere cruciali vanno ricordate quella che si può considerare la più importante – “La piena occupazione in una società libera” (’44) - e “Il prezzo della pace” (’45) che furono tradotte in Italia, per interessamento del Partito Socialista, e soprattutto di Lelio Basso, fin dall’immediato dopoguerra – ma accolte da una sostanziale indifferenza a causa dei fervori della lotta politica che privilegiava la storiografia soltanto se autorizzata da Togliatti.
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Di questi libri sono state stampate – anche in questo caso nella quasi totale distrazione del mondo accademico e storico – delle riedizioni da Franco Angeli negli anni Novanta e “La libertà solidale. Scritti 1942-1945” (Donzelli, 2010) e “Alle origini del welfare state. Il rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali” (ancora da Franco Angeli nel 2011).
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Egli ebbe, tra i suoi più accaniti studiosi italiani, Raniero Panzieri, Federico Caffé e Luciano Cafagna.
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Finché, recentemente, Lucio Villari, prima di iniziare una strana trasformazione che sembrerebbe averlo spostato su divulgazioni positive di pensieri lontani dai sue primarie interpretazioni storiche (vedi una discutibile interpretazione del “fordismo” e del pensiero di Keynes, ma non solo questo) non se n’è interessato, certamente pensando di introdurre Beveridge nella sua sistematizzazione attuale
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Però egli è riuscito, con la consueta competenza, a far comprendere come, in un Paese come l’Italia - dove la vaccinazione dal pensiero sociale avanzato perdura dall’apparizione preponderante di Craxi nella politica italiana (1976) - i “piani Beveridge” siano uno strumento, che potrebbe divenire essenziale, per reintrodurre nei rapporti tra Stato e Capitale una visione fortemente walferista, con la quale, a mio parere, potrebbe ricominciare l’evoluzione verso un nuovo “stato sociale” italiano benché – è giusto dirlo – oggi questo non basterebbe per curare una nazione (se tale può ancora definirsi) che è un corpo malato ormai giunto alle piaghe del decubito.
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In tal senso non basterebbero ne la reintroduzione dei diritti acquisiti dai lavoratori e dai cittadini, dalle donne, negli anni Sessanta e Settanta; nonché l'affermazione di quelli emersi negli anni Duemila (“ius soli” e altre legislazioni che risolvano equamente il problema dell’immigrazione), ma servirebbe una pulizia accurata delle arterie di questo corpo, della sua ossatura e del rivestimento di esso.
Operazione, per ripetermi, sociale ed economica ma anche culturale e morale, che riguarderà anni e anni di degenza attenta ad ogni globulo, ad ogni foruncolo, ad ogni febbriciatola stagionale,
poiché l’Italia è tutta, in tutti i suoi aspetti, da rifarsi da capo benché l’attuazione finalmente completa della Costituzione sarebbe già un grande aiuto medico.
Però basterà un foruncolo a causargli un'infezione nuovamente totale.
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Ma non solo.
Tutti sappiamo che viviamo in un Paese dove lo Stato non esiste nel senso in cui è stato concepito dai padri costituenti, e la sua ripartizione in politiche locali ha portato soltanto ad una grande sequenza di diseguaglianze ed ingiustizie che hanno contributo, più di ogni altra cosa, ad allontanare i cittadini dall’idea che risolvano i loro problemi ritrovandosi in organizzazioni e partiti che rispondano pienamente ai loro bisogni.
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Inoltre come si può pensare di risanare un popolo finché gli strumenti culturali, le dinamiche antropologiche – dalla scuola all’editoria, dal cinema al teatro, dallo stimolo della creatività alla ripresa di una valevole inventiva scientifica – non siano sottratti ad una classe dirigente (se così si può chiamare) o marcia o incapace, o inabile o non organizzata (anche nel caso sfuggisse alla corruzione e al cinismo oggi dominanti) che rifiuta naturalmente tutto ciò che si dimostra il più semplicemente istruttivo perché sotto il condizionamento amplificato e unificato dei più deviati e guasti media informativi, in special modo quello televisivo ?
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Ma diamo la parola a chi Beveridge ha studiato e ha individuato come esemplare fautore di una parte di questa lunga e difficile terapia a cui, a mio parere, se tutte le persone oneste e pulite non contribuiranno - se non per loro per i loro figli e nipoti - il corpo, ripetendoni, partendo anche dall’infezione di un’unghia incarnita, potrebbe ammalarsi totalmente senza, mai più, sia possibile guarirlo per le generazioni future.





RILEGGERE WILLIAM BEVERIDGE PER PENSARE LA DIFFICILE RICOSTRUZIONE DI UN’ITALIA SOCIALMENTE GIUSTA
di Teresio Spalla  (2012)
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Nel Regno Unito, durante la guerra, un governo di coalizione, presieduto da Winston Churchill, governò il primo paese che stava opponendosi, praticamente da solo, ad Hitler che ne tentava l’invasione.
In quel periodo ai laburisti inglesi vennero affidati molteplici ministeri interni e fu possibile imbastire nell’Inghilterra devastata dalle bombe naziste, la costruzione di uno stato sociale, egualitario anche sul piano del lavoro dei sessi e dell’impegno di tutta la popolazione nell’apparato industriale e agricolo della nazione britannica, che, nell’immediato dopoguerra, favorì l’elezione di Clement Attlee, leader socialista, e l’estromissione dal governo di Churchill che pur aveva vinto la guerra.
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Quelli furono anni splendidi, documentati con fervore e passione da Ken Loach nel suo film “The Spirit of ‘45”.
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Ma, è chiaro, l’economia di guerra non poteva essere paragonata ma solo proporzionata all’esigenza di uno stato sociale che poteva risolvere, stendendo un “piano” che stese l’insigne economista William Beveridge e che costituì la base essenziale della ricostruzione del welfare in Inghilterra per quarant’anni.
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Nel tradizionale alternarsi dei governi di Sua Maestà Britannica il “piano Beveridge” (a cui ne seguirono degli altri che erano in realtà aggiornamenti ma consentono di chiamarli comunemente al plurale “piani Beveridge” ) non fu mai realmente modificato nemmeno dai governi conservatori nella coscienza che il concetto dell’intervento dello Stato nell’economia avrebbe impantanato le sfrenatezze del capitalismo.
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Lo stesso Churchill, negli anni Trenta, quando era passato dai conversatori ai liberali nella coscienza delle indegne condizioni delle classi umili, ebbe a dire che i “piani Beveridge” potevano fare dell’Inghilterra il Paese che garantiva più sicurezza sociale a tutti i suoi cittadini.
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Solo nell’atmosfera del “riflusso” antiriformatore e della “deregulation” - tra la fine degli anni Settanta e quella degli anni dieci del nuovo millennio - esso fu abolito dai famigerati governi della signora Tatcher (1979-1989) e non fu mai ripristinato poiché l’ala destra del partito laburista (allora guidata da Tony Blair, l’unico politico europeo dichiaratosi ammiratore della pseudosinistra italiana di D’Alema, Veltroni e Bersani; il che dice tutto su di lui) non trovò mai, come in tanti altri paesi, l’unità che proprio la fedeltà al “piano Beveridge” – oltre che agli ideali laburisti autentici – aveva garantito fino ai governi del l’ultimo veridico leader socialista Harold Wilson che tentò persino di esportare il “piano” anche nei paesi asiatici e africani collegati al Commonwealth.
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Beveridge, di per se stesso, non può definirsi dichiaratamente socialista.
Egli riteneva che un’esposizione troppo legata al Labour Party avrebbe potuto inficiare un lavoro che egli destinava a tutti i democratici che lo ritenevano logico anche senza sapere che esso era socialista, e in parte rivoluzionario, fino al midollo.
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Possiamo dire, tentando un audace paragone con uomini di valore italiani, che si collegasse idealmente a quella sinistra liberale e radicale che, da noi, espresse Gateano Salvemini, Piero Gobetti, i fratelli Rosselli, Piero Calamandrei, il partito d’azione.
Ed è quindi collegabile, nei due primi anni del “primo” “centrosinistra” (1963-1966) al lavoro di Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Giacomo Brodolini, i quali, solo in quel breve e contrastato periodo, riuscirono a garantire abbastanza bene in Italia la creazione di uno Stato libero e autenticamente riformatore, purtroppo destinato a rarefarsi presto tra minacce di colpi di stato e avversione netta delle correnti di destra della Democrazia Cristiana e del neofascismo che esprimevano il parere di una classe dirigente industriale e agraria di carattere nettamente avverso al 99%.
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Proprio per questo oggi alcuni moderati, specie dopo che Villari l'ha riscoperto, si appellano a questo pensatore in articoli come quello che segue che però mi pare utilissimo a capire chi fosse Beveridge e quali fossero le sue caratteristiche salienti.
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Ma, per l’autentica Sinistra italiana antagonista al sistema - o per quel che rimane di essa - i “piani Beveridge” potrebbero rappresentare oggi una piattaforma di opposizione netta ed efficace, forse l’unica possibile dato lo stato anche “culturale” in cui sono ridotti gli italiani rimbambiti da quarant’anni di craxismo, piduismo, berlusconismo; qualcosa che è cominciato prima di quanto si dica e pensino i giovani nati negli anni Ottanta e Novanta che oggi già aspirano a costituire una classe dirigente.
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E’ per questo che proponiamo la seguente lettura.


RILEGGERE BEVERIDGE 73 ANNI DOPO IL SUO RAPPORTO
da “keynesblog” del 17 dicembre 2015 in “Economia e stato sociale”.


Lo storico ed economista Michele Colucci ci riporta al dicembre del 1942 quando a Londra venne presentato il rapporto finale della Commissione sulla riforma delle assicurazioni sociali, presieduta da William Beveridge.
Colucci ricostruisce la personalità di Beveridge, ricorda l’enorme successo del suo Rapporto, che rappresentò una svolta storica del dibattito sullo Stato sociale, e sostiene che esso conserva, pur nel mutato contesto, una perdurante attualità.
La sua conclusione è un invito a non limitarsi a citarlo ma a leggerlo o rileggerlo.


RILEGGERE BEVERIDGE 73 ANNI DOPO IL SUO RAPPORTO
di Michele Colucci, da “Menabò di Etica ed Economia” . 2013


Il 1 dicembre 1942 a Londra viene presentato alla stampa il Rapporto finale della Commissione sulla riforma delle assicurazioni sociali, insediata dal governo Churchill nel giugno 1941.
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Il volumetto contenente le conclusioni della Commissione, presieduta da William Beveridge, è messo in vendita nelle librerie, dopo un battage pubblicitario sapientemente allestito utilizzando soprattutto le radio.
Il successo è immediato e impressionante: in pochissimi giorni vengono vendute 70.000 copie.
Davvero tantissime per un libro stampato nel pieno della guerra che si occupa, con linguaggio prettamente tecnico, di questioni non “facili” come la previdenza, le assicurazioni, i salari, la sanità e il reddito.
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Il libro viene fatto circolare anche tra i soldati britannici impegnati sui fronti di guerra e viene tradotto e diffuso perfino nei paesi nemici, come l’Italia, dove arriva in una versione corredata da fumetti e vignette esplicative.
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I sondaggi rivelano che l’85% dei cittadini britannici si dichiara favorevole al piano contenuto nel rapporto.
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Ma il Parlamento, riunitosi nel febbraio 1943 per discuterlo, rinvia ogni decisione alla fine delle ostilità belliche.
Le forze politiche sono spaccate: laburisti e liberali sono propensi all’attuazione immediata del progetto, mentre i conservatori sono contrari, anche se trentasei deputati conservatori (i cosiddetti “tory reformers”) si dissociano e approvano una dichiarazione di appoggio al piano.
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Nel 1945 il Rapporto in Gran Bretagna conta più di 500.000 copie vendute.
Ma chi era Beveridge e come riuscì a fare breccia in una congiuntura così delicata?
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Nato nel 1879, quando viene chiamato presso il “Board of trade” nel 1942, è una figura già molto importante, non solo in Gran Bretagna.
Di formazione rigorosamente liberale (nel senso inglese del termine), collabora a lungo sia con il partito liberale che con i laburisti.
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I suoi interessi e i suoi progetti si concentrano in particolare sui problemi della disoccupazione e del collocamento.
Durante la prima guerra mondiale, viene assegnato al Ministery of Food, con l’incarico di sovrintendere alla sorveglianza dei prezzi e al razionamento degli alimenti.
Nel 1919 viene nominato direttore della “London school of economics, su indicazione dei coniugi Webb, che ne erano stati fondatori come erano stati fondatori del Socialismo britannico.
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Ne resta a capo per quasi un ventennio, fino al 1937: un periodo ricco di ricerche e di attività per Beveridge, che diventa molto conosciuto non più solo come funzionario pubblico ma anche come studioso di economia e scienze sociali.
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Nel 1937 diventa rettore dell’”University college of London”.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale resta inizialmente fuori dagli incarichi governativi, soltanto con la formazione del gabinetto Churchill (11 maggio 1940) – e grazie al consenso che le sue idee riscuotono nella parte laburista del governo di unità nazionale – inizia a collaborare attivamente con i ministeri economici e preposti alla ricostruzione e alla difesa delle popolazioni più deboli.
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Il periodo in cui si riunisce la Commissione che Beveridge presiede, e in cui viene prima redatto e poi lanciato il rapporto finale (giugno 1941 – dicembre 1942) è un periodo cruciale per le sorti della guerra e dell’alleanza internazionale antifascista.
La Carta atlantica firmata il 14 agosto 1941 da Roosevelt e Churchill afferma, al quinto punto, che i paesi contraenti “desiderano attuare fra tutti i popoli la più piena collaborazione nel campo economico, al fine di assicurare a tutti migliori condizioni di lavoro, progresso economico e sicurezza sociale” e, al sesto, che “dopo la distruzione definitiva della tirannide nazista, essi sperano di veder stabilita una pace che consenta a tutte le nazioni di vivere sicure entro i propri confini, e dia la certezza che tutti gli uomini, in tutti i paesi, possano vivere la loro vita liberi dal timore e dal bisogno”.
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Proprio di “libertà dal bisogno” aveva parlato già il 6 gennaio 1941 Roosevelt, annunciando la sua scelta di campo contro la guerra nazifascista.
La guerra, nel 1941, aveva ormai un nuovo fronte, quello della battaglia per i diritti sociali e Beveridge aveva intuito l’importanza di riempirlo di contenuti, di proposte e di progetti che potessero rilanciare l’aggregazione delle potenze democratiche.
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Ma non è soltanto la dimensione ideologica della guerra a condizionare con forza l’elaborazione delle proposte di Beveridge.
E’ anche la sua dimensione materiale.
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La guerra infatti ha prodotto nella società britannica un clima nuovo, di mobilitazione permanente, in cui i confini tradizionali e abituali tra le classi sociali si sono modificati, in cui il livellamento generale delle condizioni di vita ha generato un riavvicinamento complessivo della popolazione, unita non solo nello sforzo di sostenere la guerra ma anche nella fatica di sopravvivere ad essa.
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E’ lo “spirito di Dunquerque”, ma è anche, secondo Beveridge, un’occasione per poter riscrivere le regole dello stato sociale, approfittando del maggiore senso di responsabilità diffuso tra i cittadini e del peso minore delle differenze sociali.
La guerra e le sue conseguenze possono quindi diventare una risorsa eccezionale per affrontare in modo nuovo quelle questioni su cui Beveridge già da tempo aveva focalizzato la sua attenzione, anche rivedendo alcune delle sue certezze liberali rispetto al rapporto tra Stato e mercato:
l’assistenza sociale, la sanità, la disoccupazione, l’indigenza, il collocamento, il ruolo economico dello Stato, il rapporto tra cittadini e istituzioni.
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Ma quali sono i punti salienti della sua proposta e perché hanno avuto tanto successo e ancora oggi sono considerati fondamentali?
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La prima novità del suo approccio è costituita proprio dalla cornice unitaria che tiene insieme i differenti settori che caratterizzano l’intervento dello Stato a favore della protezione sociale.
Una cornice che è innanzitutto orientata alla razionalizzazione amministrativa degli interventi, considerata da Beveridge una questione di carattere non soltanto tecnico ma squisitamente politico a cui assegnò sistematicamente un ruolo centrale nei suoi scritti.
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In estrema sintesi, possiamo individuare tre tipologie di intervento, finalizzate a raggiungere l’obiettivo dell’”abolizione del bisogno”.
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01.L’introduzione di un sistema previdenziale unificato e obbligatorio per tutti i cittadini, capace di coprire i periodi di “interruzione o perdita della capacità di guadagno”.
E’ la riforma in senso universalistico e progressivo non solo del sistema pensionistico ma dell’intero sistema delle assicurazioni sociali.
Il tema della previdenza viene da Beveridge declinato non in termini di intervento in situazioni di emergenza ma come un pilastro del progresso sociale, capace di combattere la miseria e gli altri quattro giganti che si frappongono al “cammino della ricostruzione”: malattia, ignoranza, squallore, degradazione.
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Il calcolo delle pensioni e delle quote di sussidio alla disoccupazione e all’invalidità sono rigorosamente pianificati nella relazione del 1942, in cui viene prevista la definizione dell’età pensionabile e la quantificazione della pensione minima.
La previdenza viene svincolata dall’assistenza sociale.
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Beveridge prevede che il suo piano possa riguardare la stragrande maggioranza dei cittadini e delle cittadine, indipendentemente dall’età lavorativa, inclusi i minori e le donne che non lavorano.
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Oltre a quantificare gli interventi per le pensioni, la relazione del 1942 si sofferma anche su altre indennità, quali quelle per la disoccupazione, per il tirocinio, per la nascita e il sostentamento dei figli, la vedovanza, la separazione, le spese funerarie, la gravidanza.
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02.L’organizzazione di un sistema coerente e articolato di servizi sanitari, gratuiti e aperti a tutti, pensati anche in un’ottica di monitoraggio e prevenzione delle malattie.
Dalle urgenze alla riabilitazione, il servizio sanitario nazionale è il secondo pilastro previsto da Beveridge, capace di sostenere e tutelare i cittadini non solo nei momenti di difficoltà ma anche nella loro quotidianità.
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03.La realizzazione della piena occupazione, ritenuta il requisito indispensabile per poter mettere in atto e far sviluppare correttamente il piano di protezione sociale previsto.
Nella relazione del 1942 (e non soltanto in essa) sono numerosissimi i riferimenti alla necessità di prevedere un’indennità di disoccupazione (senza accertamento del reddito ma con un graduale accompagnamento verso la riqualificazione professionale) e di favorire l’avviamento al lavoro.
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Tuttavia Beveridge – consapevole che una disoccupazione superiore al 3% avrebbe reso impossibile qualunque riforma – nella successiva relazione del 1944 (“Il pieno impiego nella società libera”) propone un sistema complesso di iniziative pubbliche finalizzate alla massima occupazione e alla sua tutela.
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Il piano di protezione sociale elaborato da Beveridge, non è incentrato sulle categorie occupazionali e non è basato esclusivamente sulla figura del cittadino-lavoratore; tuttavia, il lavoro resta un elemento fondamentale della sua analisi e dei suoi progetti, e come tale non può essere delegato soltanto al mercato e al mondo dell’impresa.
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Come Beveridge stesso precisa, anche in contributi successivi a quelli del 1942 e del 1944, le innovazioni principali della sua proposta non sono da individuare soltanto nella loro dimensione unitaria (sia in senso amministrativo sia dal punto di vista dei destinatari) e universalista, cui abbiamo già accennato.
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Esistono almeno altre tre novità cui prestare attenzione.
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La prima è che il principio contributivo possa costituire la base del finanziamento – a seconda delle possibilità di ognuno – del sistema di protezione sociale.
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La seconda è l’esigenza di mantenere sempre viva la responsabilizzazione dei destinatari utilizzando accorgimenti idonei a non renderli passivi percettori di prestazioni (un esempio sono i corsi di formazione professionale per chi riceve l’indennità di disoccupazione).
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La terza novità è che in entrambe le relazioni è ben evidente il tema della redistribuzione del reddito, richiamato in più occasioni come orizzonte irrinunciabile di riferimento.
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L'intero corpus delle iniziative proposte dai “piani Beveridge” è strettamente legato a una sorta di idealismo tecnocratico, che vede negli uffici pubblici e nei funzionari dello Stato i luoghi e gli attori di un’azione capace di trasformare le condizioni materiali dei cittadini e le loro aspettative.
Una sorta di “rivoluzione statale” – quindi – che deve essere accompagnata da una generale responsabilizzazione “dal cittadini come Stato esso stesso”.
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E' doveroso ricordare che le proposte di Beveridge furono messe in pratica solo in minima parte dal governo di coalizione bellico ma dai laburisti che, pur con alcune differenze, le fecero proprie quando, a sorpresa, vinsero le elezioni nel 1945.
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Nel corso del tempo, il dibattito sullo Stato sociale si è fatto sempre più complesso, come d’altronde sempre più complesse e variegate sono diventate le società che hanno sperimentato i diversi percorsi di welfare.
Il discorso pubblico su quest’ultimo è sempre più appannaggio degli addetti ai lavori e si è frantumato in specialismi e tecnicismi che ne hanno indubbiamente messo a dura prova la popolarità e la capacità di penetrare in settori ampi della popolazione.
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Paradossalmente, a riempire di contenuti ideali il dibattito sul welfare sono oggi coloro che ne predicano l’estinzione.
Chi ne difende lo spirito e la legittimità fatica a elaborare un discorso capace di mobilitare le persone e le coscienze.
Rileggere Beveridge a più di 70 anni di distanza può servire anche a ripensare l’attuale dibattito pubblico sulla protezione sociale.



QUEI “PIANI BEVERIDGE” CHE SEMBRANO SCRITTI PER ESSERE USATI OGGI
di Lucio Villari . 
da “Micromega” . 2013/2015


Esattamente settant'anni fa prendeva avvio il "Piano Beveridge", il progetto di protezione sociale elaborato dal rettore dell'Univeristy College di Oxford, sir William Beveridge, che è alla base dei moderni sistemi di welfare.
Ecco perchè le sue idee sono ancora attualissime.
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C’era una precisa intenzione politica nel fatto che tra le armi e l’equipaggiamento dell’ottava armata di Sua Maestà britannica e della Quinta Armata americana destinate allo sbarco in Sicilia nell’estate 1943, i reciproci uffici di informazione e di propaganda aggiungessero testi letterari e opuscoli politici.
Gli americani preferivano regalare recenti romanzi e racconti in italiano e in formato rettangolare,
gli inglesi diffondevano, tra gli stupiti italiani, insieme ad un impeccabile “The Remaking of Italy del 1942”, testi più impegnativi.
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Tra questi, un opuscolo edito dalla “stamperia reale” , con la data 1943, dal titolo “Il Piano Beveridge”.
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In autunno l’Ottava Armata, risalendo la penisola e volendo aiutare gli italiani ad aprire gli occhi sul mondo, diffonderà anche “Il Mese2 (edito dalla londinese “The fleet steet press”), un compendio della stampa internazionale che sarà una efficace arma giornalistica di documentazione democratica dove venivano sintetizzati alcuni articoli, scritti per quotidiani e rotocalchi, da Beveridge.
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Il primo “Piano Beveridge” aveva questo sobrio sottotitolo :
“La relazione di Sir William Beveridge al Governo britannico sulla protezione sociale. Riassunto ufficiale”.
Centosedici pagine, in perfetto italiano, che riportavano 272 paragrafi, i più essenziali, dei 461 che componevano il Piano.
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Pochi grammi di dinamite culturale che avrebbero coinvolto e convinto gli italiani più consapevoli sui fondamenti della giustizia sociale, sulla solidarietà tra le classi, sulla tutela dei diritti e i bisogni dei lavoratori e dei ceti più deboli, sui doveri dello Stato e dei poteri economici per assicurare e garantire libertà e democrazia.
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Mentre imperversava una guerra dall’esito incerto, l’opuscolo, scritto senza verbosità propagandistica e senza voler suggerire alcuna ipotesi di rivoluzione socialista, era una minuzioso catalogo di progetti, di programmi, di dati tecnici.
Indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i popoli liberati dal fascismo e dal nazismo e suggeriva l’inedito sapore della protezione sociale e della libertà dal bisogno in un sistema di democrazia, vera, attiva.
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Il “Piano Beveridge” era un piano pragmatico e funzionale diretto non ai settori guida dell’economia, industria, agricoltura, terziario, mondo finanziario, come accadeva negli Stati Uniti del New Deal, ma a quello della immediata e quotidiana esistenza delle persone.
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Il governo, presieduto da Winston Churchill, lo aveva annunciato alla Camera dei Comuni il 27 gennaio 1942 come iniziativa di una “Commissione interministeriale per le assicurazioni sociali e servizi assistenziali” costituita nel giugno 1941 e alla cui guida era stato chiamato un economista liberale di sessantadue anni, rettore dell’University College di Oxford, Sir William Beveridge.
Si faccia attenzione a questa ultima data: era l’inizio dell’operazione Barbarossa tedesca contro la Russia.
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L’opinione pubblica inglese, anche la più moderata e liberale, aveva compreso che con l’estendersi in Europa della potenza tedesca, con i continui bombardamenti di Londra e i successi dell’Asse in Africa, la guerra aveva preso una piega pericolosa.
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Ma ottimismo e volontà di resistenza parvero prevalere in quei giorni.
E non mancavano lampi di umorismo “british” come quelli del disegnatore satirico del “Daily Express” - Osbert Lancaster - che pubblicò con la didascalia “June 1941” un disegno che ho rivisto con molto divertimento: un aristocratico e un ricco borghese si salutano, quasi sorpresi essi stessi, con il pugno chiuso.
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In questo clima fu elaborato il primo “Piano” che Beveridge consegnò a Churchill il 20 novembre 1942.
Ai primi giorni di gennaio del 1943 il progetto di “protezione sociale e di politica sociale”, il Welfare state nel senso più razionale e umano del termine, fu conosciuto e se ne iniziò l’esecuzione.
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Sono trascorsi, come abbiamo detto, esattamente settant’anni, ma l’idea che ha guidato Beveridge e i suoi collaboratori e esperti resta intatta ed attuale.
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Il piano implicava tre premesse.
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01 . Sussidi all’infanzia;
02 estesi servizi sanitari e di riabilitazione;
03 . mantenimento degli impieghi
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Cioè una riforma politica totale della società.
Delle tre premesse è superfluo ricordare l’importanza che ebbe il servizio sanitario nazionale e da esso dipenderebbe anche il nostro in ormai molto parziale vigore.
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Ma è importante anche la conclusione di Beveridge:
“L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede, coraggio e sentimento di unità nazionale”.
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Una premessa ideale al secondo “Piano Beveridge”, consegnato il 18 maggio 1944, e intitolato “Full employment in a free society”, tradotto in italiano : “Piena occupazione in una società libera”.
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E’ questa la più vasta indagine che sia mai stata elaborata (oltre seicento pagine) sulle cause della disoccupazione e sulla possibilità, al ritorno della pace, della piena occupazione in industria, agricoltura e terziario.
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Un “piano” costruito su una diagnosi profonda e perfetta, sia del funzionamento dello Stato e delle sue strutture sia dell’efficienza del sistema produttivo.
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“La piena occupazione produttiva in una società libera — scriveva nell’introduzione il non semplicista ottimista Beveridge — è possibile, ma non la si può realizzare agitando una bacchetta magica finanziaria”.
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Qui termina il saggio di Villari al quale aggiungerei una conclusione che, nel 2013, non sembrava forse urgente come oggi.
Secondo Teresio Spalla :
No, non è certo una bacchetta magica che si può agitare per creare la piena occupazione e un completo stato sociale.
E’ con la lotta, dura e durevole, di una Sinistra che, se non si formerà pienamente in Italia come si sta realizzando, proprio in Gran Bretagna, attraverso il lavoro di Corbyn e del suo Labour, che il nostro Paese potrà cominciare a tornare ai diritti acquisiti nei primi trent’anni di storia repubblicana.
E sarebbe solo l’inizio
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A questo punto, continuando l’ordine cronologico, ci sarebbe da citare il saggio “Alle origini dello stato sociale nell’Italia repubblicana. La ricezione dei 'piani Beveridge' nel dibattito nella Costituente” di Loreto Nucci, pubblicato in “Cittadinanza”, nel 2016.
Ma questo testo, oltre che enormemente lungo per essere esposto in un luogo di divulgazione che vorrebbe essere semplice come l’Almanacco, è talmente viziato dall’idea che i tutti i partiti italiani fossero in fondo nemici dei “piani Beveridge” per i più disparati e talvolta oscuri disegni, che non ho creduto opportuno nemmeno riassumerlo.
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Anche perché avrei dovuto inserirmi tra le righe e far notare come tante interpretazioni (che l’autore attribuisce persino a partiti scomparsi subito dopo il ‘47 e quasi privi di una base elettorale già alle prime elezioni amministrative del ’46 che anticiparono quelle per la Costituente) risultassero qui inutili da conoscere visto che, con i primi tatticismi togliattiani (la mancata epurazione dei fascisti nei gangli dello Stato e della dirigenza industriale e agraria, l’inserimento dei patti lateranensi nella Carta) e quelli degasperiani dettati dal destreggiarsi tra Pio XII e Truman, gli unici partiti a rivendicare i “piani Beveridge” furono il socialista (non ancora spaccato, ricordiamolo), quello d’Azione (ancora attivo e poco accorto a considerare la futura sparizione data la sua fondamentale importanza nella Resistenza) e, a titolo personale, personaggi autorevoli e di grande prestigio di tutti i partiti.
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Si segnalano qui, tanto per far capire con che differenza di intenti si discuteva di “welfare” allora in confronto al marasma elitario di oggi, Di Vittorio e Terracini per i comunisti; il gruppo detto dei “professorini” della Dc che comprendeva La Pira, Dossetti, Fanfani e Lazzati; e persino Aldo Bozzi che la mia generazione ha conosciuto vecchio conservatore ma, allora, era a capo di una frazione “di sinistra” del partito liberale che intendeva realizzare gli ideali di Giovanni Amendola e i fratelli Rosselli.
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Sappiamo bene che nessun “piano Beveridge” , fuori dall’Inghilterra e dalla Scandinavia, avrebbe potuto resistere alla morte di Roosevelt che ad essi guardava con sommo interesse.
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Arrivò Truman, arrivò la guerra fredda, arrivò la divisione del mondo in due, e arrivarono, in Italia, le camionette di Scelba a tutelare che, nelle maggior parte delle fabbriche, fossero epurati gli operai socialisti e comunisti in cambio di un aumento ragionevole di stipendio e tutela del lavoro.
Quelle fabbriche erano guidate dagli stessi proprietari e dirigenti che, compromessi e arricchiti anche eccessivamente dalla politica fascista, s’erano convertiti immediatamente al liberismo all’americana che degli studi di Beveridge ignorava persino l’esistenza.
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In realtà fu tentata, nell'inverno del '45, da parte dei socialisti e azionisti del Cln “alta Italia” un’immediata epurazione con base sociale che può riportarsi all'economia di guerra su cui si stese il primo "rapporto Beveridge", prima che arrivassero gli Alleati nei municipi e nelle sedi della Confindustria.
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Ma, come raccontano Basso e Lombardi, la differenza di forze, la difficoltà di accordo con i democristiani degasperiani e i liberali, più le destre rappresentate dai partiti minori o minoritari (in primo luogo la Democrazia del lavoro guidata dal primo ministro Ivanoe Bonomi), fecero smarrire le aspettative di chi voleva un’Italia completamente rinnovata sul piano sociale prima ancora che essa fosse autorizzata ad essere uno Stato autonomo da americani ed inglesi.
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Se a ciò aggiungiamo la scissione socialista di palazzo Barberini nel '47 (con la diaspora iniziale di molti autorevoli rappresentanti del socialismo italiano in governi esonerati dalla complessità della conflittualità sociale) si capisce come, in Italia, i “piani Beveridge” furono abbandonati e nemmeno ripresi nei soli due anni del “primo” Centrosinistra in cui qualche riforma strutturale fu pur eseguita; forse i soli due anni in cui, senza l’apporto positivo o negativo del Pci, la formula degli “equilibri più avanzati” fu, in parte, avanzata, e, in parte - sempre in parte - equilibrata.
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Venendo ora alle conclusioni esprimo subito una nota :
i “piani Beveridge” non saranno stati parte della strategia italo-sovietica;
“i piani Beveridge” presumevano la mancanza dell’uso della violenza e non richiedevano lo scoperchiamento delle basi dove giacevano i fucili nascosti dai partigiani prima della requisizione.
Ma, anche se non possiamo dirli "comunisti" come tanti oggi vorrebbero tornare ad essere (considerando l’atmosfera per cui è considerato un pericoloso estremista o un folle minoritario da prendere per il sedere dai gazzettieri più servili - su “La repubblica” come su “La verità” di Belpietro – chi si richiama ad una formazione che voglia riportare in Italia almeno i diritti che credevamo di aver acquistato in anni di lotte e sacrifici) non sarebbe opportuno riproporre lo studio dei “piani” di William Beveridge ?
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Forse, in questo momento, tanto per cominciare, si potrebbe riprendere da lì.
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E, se proprio devo dirlo, io credo che Basso e Lombardi, Brodolini e Giolitti (Antonio), Di Vittorio e Terracini, La Pira e Dossetti, Parri e Lussu, Pertini e Berlinguer, la penserebbero come me.
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Forse anche gli organizzatori della Sinistra più avversa allo status quo avrebbero, in questo momento, la necessità di un “piano Beveridge” che garantisse proposte concrete, attraverso un meccanismo sociale semplice ma dettagliato, da proporre al popolo italiano oltre l’articolo 18, lo “ius soli”, l’abolizione della famigerata “legge Fornero” e altre rivendicazioni che stanno pericolosamente trasformandosi in slogan esclusivi.
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Penso che anche Anna Falcone sarebbe lieta di mettersi alla testa di chi voglia cominciare dal lavoro, dalle idee perdute e mai ritrovate, dell’economista, sociologo, antropologo ed eugenista che, nel ’45, tra razionamenti controllati e macerie da ricostruire, riuscì a garantire, come si disse allora, "a tutti gli inglesi, una tazza di latte sul tavolo, ogni giorno".
E anche qualcosa di più per i lavoratori, le loro mogli e i loro figli.
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O forse mi sbaglio ?
                                                   


Nella foto : l’unica immagine a colori che ho trovato di William Beveridge è stato questo quadro, autrice Gwynne Jones (University College©1959) mentre la foto, di pubblico dominio, di Anna Falcone, è stata più facile da trovare e, pur tra le tante, è quella che mi è sembrata migliore.
Non so se sia del mio stesso parere e contenta dell’accostamento a questo vecchio signore. Ma credo sinceramente di sì.



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