Diari di Cineclub

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sabato 12 maggio 2018

IL NOSTRO VICINO NUCLEARE: LA GRANDEUR A TEMPO DI BREXIT di Gregorio Piccin






IL NOSTRO VICINO NUCLEARE: 
LA GRANDEUR A TEMPO DI BREXIT
di Gregorio Piccin




A partire dal 2019 il Regno Unito sarà a tutti gli effetti fuori dall’Unione europea. A dire il vero la sua adesione è sempre stata alquanto ambigua e molto parziale considerato il mantenimento della sovranità monetaria e il reale collocamento strategico/militare (più spostato verso Usa e Commonwealth che interno all’asse franco-tedesco europeo). Tuttavia, indipendentemente dal profilo sfuggente del Regno Unito, in Europa la politica estera comune non è mai esistita: ogni Paese si fa gli affari suoi e dove necessario, li difende anche militarmente in concorrenza con gli altri. Questa è ancora la realtà materiale delle relazioni internazionali. E poco conta se dagli anni novanta si sia astrattamente creduto ad una presunta “fine degli Stati” a fronte dei fenomeni di globalizzazione e finanziarizzazione. Nella grande maggioranza dei casi, gli Stati stanno semplicemente dismettendo la loro funzione regolatrice per concentrarsi sulla funzione repressiva interna e di proiezione militare verso l’esterno. Lo schema neocoloniale, in sintesi, rappresenta la versione aggiornata e perfezionata del colonialismo e dell’imperialismo novecenteschi: multinazionali di bandiera e grandi banche > ricerca scientifica e tecnologica > professionalizzazione delle Forze armate > controllo dei mercati, della forza lavoro e delle materie prime. Si è di fatto passati a piè pari dalla “civilizzazione” della Belle epoque alla “democratizzazione” post ’89 e la Francia, in questo senso, è grande maestra. Se consideriamo il paniere delle devastanti aggressioni militari occidentali dell’ultimo venticinquennio ogni Paese ha infatti partecipato o meno a seconda degli interessi materialmente in campo. Fa eccezione l’Italia che si è sempre indistintamente buttata nella mischia, a prescindere persino da qualsiasi valutazione di così detto interesse nazionale, per dimostrare “responsabilità e prestigio” ovvero un imbarazzante servilismo nei confronti di Washington. La Brexit ha quindi consegnato alla Francia l’indiscusso primato militare in Europa. Questo Paese è infatti una media potenza militare, con potere di veto all’Onu, con autonome capacità nucleari, con estesi interessi neocoloniali in Africa e in Medio oriente, con basi, avamposti e pezzi di “territorio nazionale” in diversi continenti ed oceani e con conseguenti spiccate capacità di proiezione della forza militare.

Vive la France (afrique)!

La così detta Françafrique è ancora oggi il pilastro del neocolonialismo francese e della sua stessa grandezza economico/militare. Dopo aver perso Laos, Cambogia e Vietnam nel 1954, la Francia perde anche la più prossima Algeria nel 1962 dopo quattro anni di guerra di sterminio: almeno 300.000 algerini vennero uccisi e circa 3.000.000 deportati in campi di prigionia, a fronte di una popolazione complessiva di dieci milioni. E’ proprio nel bel mezzo di questa guerra che il generale De Gaulle (presidente della repubblica nel decennio ’59-’69) comprende che il vecchio colonialismo andava rapidamente sostituito con qualcosa di nuovo, più accettabile per l’opinione pubblica ma soprattutto che potesse scongiurare la perdita totale del controllo francese sulle sue stesse colonie. Nel 1960 De Gaulle concede unilateralmente l’indipendenza a tutte le colonie africane francofone e contemporaneamente crea le così dette “reti Foccart”, composte da soggetti economici, politici, militari e dei servizi segreti. Lo scopo di queste reti politico-affaristiche era quello di controllare direttamente due grandi risorse strategiche come le materie prime e i nuovi fondi per lo sviluppo. La Francia, per presidiare questo controllo nel tempo, ha utilizzato sia la finanza che le forze armate: da una parte l’imposizione del franco CFA (il così detto franco africano) come moneta direttamente convertibile con quella della “madre patria” e dall’altro il mantenimento di basi militari con annessa “cooperazione” ossia addestramento e controllo degli eserciti locali. Dopo quasi sessant’anni la Francia è ancora presente nella Françafrique con multinazionali, banche, basi e forze armate, mercenari ma soprattutto con il CFA, oggi convertito in euro. Il risultato di questa prodigiosa “decolonizzazione”? Un pesante indebitamento di questi Paesi principalmente verso il sistema bancario francese, corruzione strutturale, sistematica perdita di controllo sulle risorse strategiche (tra cui petrolio e uranio), disastri ambientali, l’assenza di qualsiasi prospettiva di sviluppo, migrazioni disumane.

Libia insidiosa

La pretestuosa aggressione alla Libia nel 2011, di cui la Francia fu promotrice e capofila (insieme al Regno unito), è stata un chiaro esempio di “difesa” della propria area di interesse strategico. Nel caso della Libia si è trattato principalmente di neutralizzare il progetto di Gheddafi di mettere in gioco le ingenti riserve auree, il petrolio e il gas libico per costruire una moneta panafricana (e un sistema bancario) che potesse insidiare il CFA tuttora in uso nella Françafrique. Anche in altri Paesi si è tentata la strada dell’indipendenza economica ma è chiaro che la grandeur non può stare in piedi senza il pilastro della Françafrique: più della metà degli 87 colpi di stato che si sono susseguiti nel continente africano negli ultimi 50 anni si sono verificati nell’Africa francofona. E proprio l’Africa, in particolare quella centro-occidentale, sembra essere diventata ultimamente il terreno di una ricomposizione di interessi a livello di alcuni Paesi dell’eurozona. Da quando il franco francese è scomparso, il CFA è stato infatti agganciato all’euro mantenendo il sistema bancario francese come centro drenante dei capitali provenienti dalla Françafrique. La convertibilità CFA/euro ha portato con sé almeno due conseguenze importanti: la prima è che i Paesi sottoposti a questa sorta di vessazione finanziaria hanno sviluppato economie dipendenti dalle importazioni europee e con una capacità d’acquisto della popolazione strutturalmente depressa; la seconda è che la Francia non può più sostenere l’esclusiva. Ecco spiegato come mai, dal 2015, la Germania ha inviato in Mali un suo contingente che conta oggi più di mille soldati mentre l’Italia ha tentato maldestramente d’inviare il suo in Niger nel quadro della così detta “Coalizione per il Sahel” lanciata dal governo Macron in un vertice a Parigi lo scorso 13 dicembre.

Il nuovo ruolo militare della Francia: verso il 2% del P.i.l

Macron eredita da Hollande il rilancio del protagonismo francese nel continente africano. Parigi intende infatti consolidare la presenza militare in Africa dalla Costa Atlantica fino all'Oceano Indiano, dal Senegal a Gibuti, passando per il Sahel e quindi ricongiungersi con altre basi e avamposti già presenti nei due oceani. Questa visione strategica espansionista, aggressiva e molto ambiziosa richiede un concorso negli “oneri per la sicurezza” che la Germania offre già da anni. La capacità di proiezione globale (condivisa come piattaforma con gli alleati) offre all’industria bellica francese prospettive senza fine.
Il ruolo di capofila richiede però alla Francia (e a tutti i francesi) un forte aumento della spesa militare: con la nuova Legge di Programmazione Militare (LPM 2019 - 2025), Macron intende stanziare la somma di 295 miliardi di euro, ben 105 miliardi in più rispetto al quinquennio precedente. L’8 febbraio scorso, nel presentare la LPM il ministro della difesa Parly ha giustificato questo forte aumento definendolo “…necessario per mantenere l’influenza globale della Francia ed intervenire in ogni luogo del globo in cui vengano minacciati gli interessi della Nazione e la stabilità internazionale…” (RID, aprile 2018, pag.68). Il piano ha l’ambizione di garantire “l’autonomia strategica” nazionale ed europea. Oltre alle nuove acquisizioni (sommergibili nucleari, fregate, droni, satelliti, aerei ed elicotteri) la LPM prevede un corposo aumento del personale: 6.000 unità per le forze armate di cui 1.500 per i servizi segreti e 1.000 operatori per la cybersicurezza più 750 funzionari da impiegare nella “divisione vendite” nella Direction Générale de l’Armement. In Francia infatti è lo stesso governo ad occuparsi dell’export dei prodotti dell’industria bellica nazionale, dalle pistole ai caccia. Un servizio che secondo Alessandro Profumo (a.d Leonardo), anche lo Stato italiano dovrebbe fornire all’industria bellica nostrana per avere maggiore rappresentatività di fronte alla domanda internazionale. La Francia intende inoltre aggiornare la sua capacità nucleare: la LPM stanzia 25 miliardi di euro in cinque anni per conferire ai caccia Rafale capacità di bombardamento, sviluppare un nuovo missile balistico intercontinentale e un nuovo sommergibile con capacità di lancio. Non c’è dubbio che la grandeur stia attraversando una fase di poderoso slancio, favorita dalla Brexit e sostenuta dalla Pesco. La nuova Legge di Programmazione Militare, che vorrebbe garantire l’”autonomia strategica” attraverso la difesa degli interessi della nazione, fa il paio con la dichiarata intenzione di raggiungere, entro il 2025, la soglia del 2% del p.i.l per le spese militari. In questo modo il governo Macron persegue l’intenzione di dirigere lo scomposto neocolonialismo europeo con il ruolo di capofila militare-industriale e nucleare. Per il momento, sempre all'ombra della Nato.




Dal sito FriuliSera 
e  Movimento Operaio



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