Diari di Cineclub

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mercoledì 1 dicembre 2010

ECONOMIA



L'economia mondiale del capitalismo:
sviluppo economico e catastrofi sociali

di Michele Nobile



 In questo Post pubblichiamo le prime due parti del saggio di Michele Nobile L'economia mondiale del capitalismo: sviluppo economico e catastrofi sociali.  Le ultime due verrano pubblicate nei prossimi giorni.


SUMMARY


Il tema del saggio, esposto attraverso una sintetica esposizione delle trasformazioni dell’economia mondiale tra le fine del XIX secolo e la fine del XX secolo, è il nesso intrinseco tra sviluppo ed espansione territoriale del capitalismo e l’esplodere delle sue contraddizioni interne in crisi catastrofiche ed in fenomeni barbarici. Ciò costituisce il carattere paradossale della modernità capitalistica, segnata appunto dal nesso contraddittorio ma anche difficilmente districabile tra processi di liberazione e processi regressivi, dallo spostamento geografico o temporale delle contraddizioni e dal loro riprodursi su cala allargata e con rischi crescenti.
L’argomento principale è che lungi dal condurre ad una reale globalizzazione dei progressi scientifici e tecnologici ed a una omogeneizzazione delle speranze e della qualità della vita, lo sviluppo storico dell'economia mondiale capitalistica si fonda invece sulla riproduzione della ineguaglianza tra le aree socio-economiche, tra i settori e le branche produttive, tra le imprese, tra i salariati.
Lo sviluppo ineguale e combinato dell’economia mondiale è nello stesso tempo forma necessaria del capitalismo ma anche una delle radici delle esplosioni della barbarie espressa nelle guerre mondiali ed in tanti altri conflitti «minori», della predazione delle risorse naturali e della distruzione degli equilibri ecologici, della fame. Nonché delle fluttuazioni di lungo periodo negli stessi livelli dell'attività economica.

La paradossalità della modernità

Allo sguardo retrospettivo il secolo che si chiude appare innanzitutto come un'epoca di estremi, come qualcosa difficile da definire con un'unica parola e di cui si può parlare solo al superlativo. Questo, è noto, è il giudizio di Eric Hobsbawm nel suo The Age of Extremes. The short twentieth century. Un giudizio che condivido e che in effetti non è nuovo. Già nel 1944 Max Horkheimer e Theodor Adorno, con un linguaggio molto diverso, affermarono l'intrinseca contraddittorietà di un'epoca che creava nello stesso tempo sia le condizioni per la realizzazione delle promesse di liberazione dell'illuminismo sia quelle del dispiegamento della barbarie, del rovesciarsi del progresso in regresso e catastrofi.
I detrattori hanno assimilato la posizione dei francofortesi a quella dell'irrazionalismo antiscientifico. Ma Horkheimer e Adorno criticavano una logica sociale, non la razionalità in genere né la stessa razionalità strumentale in sé stessa. Essi criticavano la riduzione degli uomini e dei loro reciproci rapporti a rapporti tra cose, la combinazione della naturalizzazione dei rapporti sociali e della pretesa alla integrale socializzazione o del dominio assoluto sulla natura. Due tendenze complementari, che si rafforzano a vicenda ed il cui effetto estremo è la negazione di ogni intrinseco valore tanto dell'essere umano quanto della natura. La causa di queste tendenze, a ben vedere, è la logica sociale del capitalismo, che Horkheimer e Adorno caratterizzavano come mossa dalla riduzione delle concrete particolarità umane e naturali all'astrazione del valore di scambio mediante la manipolazione meramente strumentale. Essi respingevano la pretesa di dissolvere la contraddittorietà del reale nell'identità totalitaria della feticizzazione mercantile, a cui collegavano la dissoluzione dell'individualità autentica, anche nei paesi liberali. Indicavano così i nessi tra pretesa ad un dominio assoluto sulla natura e dominio sugli uomini, tra microrazionalità strumentale e irrazionalità della totalità sociale, tra liberalismo e tendenze totalitarie.
La teoria critica francofortese prese forma proprio mentre nell'Unione Sovietica la frazione staliniana avviava la collettivizzazione forzata e l'industrializzazione a tutti i costi. Essa suonava quindi anche come una critica radicale alla statalizzazione del socialismo ed alla burocratizzazione delle organizzazioni operaie, ma il terreno su cui nasceva era quello dell'emergere, in una formazione sociale per molti versi all'avanguardia quale era la Germania di Weimar, delle tendenze totalitarie latenti nella società capitalistica e che presto avrebbero trovato il modo di dispiegarsi nel modo più aperto e feroce.
I francofortesi concettualizzavano filosoficamente la paradossalità della modernità, la coesistenza di istanze di liberazione con la riproduzione ed il rinnovarsi del dominio degli apparati del potere economico e politico sugli individui massificati, anche mediante la mutilazione e funzionalizzazione delle originarie istanze di liberazione.
La teoria critica francofortese costituisce una autocritica in forma moderna e razionale della modernità capitalistica e del predominio della razionalità strumentale; si tratta di una interpretazione filosofico-sociologica che ha i suoi punti deboli nella determinazione dei meccanismi socioeconomici e politici, ma resta un punto di partenza imprescindibile per avviare la riflessione sulla realtà della barbarie e della catastrofe nel seno stesso della civiltà borghese e dello sviluppo economico.
In questo oggi è forse anche più attuale che nell'epoca della sua formazione.
Si può osservare che nessun sistema sociale prima del capitalismo ha concentrato in modo così spinto in mani private i poteri economici, in particolare la gestione diretta, monocratica e «scientifica» del processo di lavoro, dal che deriva lo straordinario sviluppo delle capacità di manipolazione delle forze naturali; e nello stesso tempo si può osservare che nessun sistema sociale prima del capitalismo ha concentrato in modo così spinto la potenza politica e militare nelle mani di un apparato specializzato e «separato». Da questa enorme, duplice concentrazione dei poteri economici e politici in apparati specializzati, distinti ma strutturalmente complementari, derivano le lotte e le speranze di liberazione della modernità, ma anche i suoi tremendi rischi ed i suoi orrori.
Uno dei modi per rendere operativa questa tesi sulla struttura di base del modo di produzione capitalistico consiste nell'assumere che un carattere costitutivo, essenziale, strutturale dell'economia mondiale capitalistica sia l'ineguaglianza dello sviluppo dei poteri economici e politici.
Il capitalismo ha creato il mercato mondiale e ridotto le distanze reali nello spazio planetario, ma le interdipendenze sociali e politiche in questo spazio sono tremendamente asimmetriche e polarizzanti. Lungi dal condurre ad una reale globalizzazione dei progressi scientifici e tecnologici ed a una omogeneizzazione delle speranze e della qualità della vita, lo sviluppo storico dell'economia mondiale capitalistica si fonda invece sulla riproduzione della ineguaglianza tra le aree socio-economiche, tra i settori e le branche produttive, tra le imprese, tra i salariati. I meccanismi, la distribuzione e la localizzazione delle diseguaglianze non sono invarianti proprio perché esse sono la molla delle lotte sociali e inter-statuali che sono parte integranti delle trasformazioni del capitalismo su scala mondiale. Un paese economicamente dipendente o neocoloniale oggi non è necessariamente un paese dedito alla monocoltura agricola o mineraria; il cosiddetto Terzo Mondo in effetti non esiste, non fosse altro che per i notevoli dislivelli tra le capacità tecnologiche, finanziarie, di gestione e di integrazione politica, ed anche di specifici interessi economici (ad es. tra paesi produttori di petrolio e non), esistenti nell'insieme estremamente diversificato delle formazioni sociali che sono accomunate dal solo fatto di non far parte del centro imperialistico.
In sintesi lo sviluppo ineguale e combinato è, nello stesso tempo, forma spaziale del capitalismo mondiale ed una delle cause strutturali, insieme alla crescita della produttività, dello sviluppo del capitalismo in alcune aree, ristrette, del mondo. Ma è anche una delle radici delle esplosioni della barbarie espressa nelle guerre mondiali ed in tanti altri conflitti «minori», della predazione delle risorse naturali e della distruzione degli equilibri ecologici, della fame. Nonché delle fluttuazioni di lungo periodo negli stessi livelli dell'attività economica.
Se la mitologia progressista ha una dimensione essenzialmente temporale la sua demistificazione richiede la corretta concettualizzazione anche della spazialità contraddittoria e paradossale dell'economia mondiale capitalistica. Sottolineare la paradossalità intrinseca allo sviluppo del capitalismo e dell'economia mondiale capitalistica significa mettere in discussione la mitologia progressista ma anche il crollismo economicistico ed il catastrofismo moralistico o neomalthusiano. Il capitalismo ha dato prova di grande vitalità e capacità di adattamento. Il punto è che questa vitalità si esprime attraverso fenomeni catastrofici e barbarici.

SECONDA PARTE

L'economia mondiale prima della prima guerra mondiale.

L'economia mondiale tra la fine del XIX e l'inizio del XX era certamente diversa da quella contemporanea ma, per tutta una serie di indici, non era meno globalizzata, per usare un termine tanto di moda quanto fuorviante.
Nel 1992 il rapporto medio tra esportazioni e Pnl dei paesi industrializzati era al 17%, nel 1913 al 21,2% (Nayyar 1997); per la Gran Bretagna, che tra le grandi potenze è da sempre quella con l'economia più internazionalizzata, quel rapporto nel 1900 era maggiore che nel 1950, e nel 1913 maggiore che nel 1992 (rispettivamente il 20,9% contro il 18,2%). Se per la Germania il rapporto tra esportazioni e Pnl nel 1992 (24%) era più alto che nel 1913 (17,5%), il rapporto per il Giappone, sempre relativamente al 1992, era di poco inferiore nel 1900 e superiore nel 1913. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto, da questo punto di vista, una economia meno internazionalizzata dei paesi europei. Si potrebbe continuare il ragionamento allo stesso modo con i flussi di capitale.
E' anche il caso di ricordare che tra i due secoli si verificò una straordinaria compressione spazio-temporale, un autentico salto qualitativo nella velocità dei trasporti e delle comunicazioni e nelle interdipendenze. Telegrafo e telefono ebbero allora un effetto «globalizzante» sulle operazioni finanziarie (e non solo) certamente non minore della telematica contemporanea. Le trasformazioni del senso dello spazio e del tempo trovarono espressione nella rivoluzione dell'avanguardia artistica.
Il carattere mondiale del capitalismo non costituisce affatto una novità epocale: il capitalismo è da sempre un sistema mondiale o, per meglio dire, è da sempre costituito da un complesso di livelli territoriali strettamente connessi, ma non riducibili meccanicamente l'uno all'altro: sub-nazionale, nazionale, internazionale, mondiale (per livello nazionale qui si intende l'area di uno stato territoriale e non quella di un'identità culturale).
Il problema è capire l'articolazione di quei livelli territoriali e il cambiamento nel tempo non solo dell'estensione geografica di questa economia mondiale ma della sua struttura e delle sue modalità di funzionamento. In altri termini: l'economia mondiale presenta configurazioni spaziali mutevoli, una struttura dinamica e diverse forme della divisione del lavoro e delle sue tensioni interne. Conseguentemente, diverse sono le modalità prevalenti dello sfruttamento della forza lavoro nelle varie aree e delle tensioni interstatali.
L'incorporazione nell'economia mondiale capitalistica di una data area geografico-sociale poteva avere effetti sconvolgenti sui rapporti sociali, gli assetti ecologici e la stessa composizione demografica: si pensi alla tratta degli schiavi, alla «de-industrializzazione» dell'India, al commercio delle pellicce nell'America del nord o in Siberia, alla rivolta dei Tai Ping o alla rivoluzione Meiji.
Ma questo non significava, ancora ben dentro il XIX secolo, che i rapporti sociali interni all'area incorporata si fossero trasformati in rapporti capitalistici. A differenza di Wallerstein e della world system analisys non penso che dalla caratterizzazione della totalità si possa automaticamente derivare la caratterizzazione della struttura interna di tutte le parti.
Il dato nuovo dell'ultimo quarto del XIX secolo era che attraverso le nuove forme dell'imperialismo economico informale, la conquista territoriale dell'entroterra e il dominio diretto, si acceleravano, con ritmi e modalità certamente molto diversi, la corrosione dei rapporti sociali non-capitalistici e la ristrutturazione dell'economia delle aree più recentemente incorporate, questa volta dall'interno, e anche nelle aree formalmente indipendenti, in funzione della riproduzione allargata del capitale nei paesi imperialisti. I prestiti esteri, in genere volti al finanziamento di infrastrutture (ferrovie, porti), la diffusione del sistema delle piantagioni, il controllo diretto dell'estrazione mineraria (Sud Africa in particolare, ad esempio) indicavano la trasformazione interna in senso capitalistico, ma subordinata ai centri imperialisti, di quelle formazioni sociali.
La vera «artiglieria pesante» del capitalismo non è stata, a differenza di quanto scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto, l'esportazione di beni di consumo ma l'esportazione di capitale e, più limitatamente in questa fase, di mezzi di produzione. La classe dei salariati su scala mondiale si ampliava e nello stesso tempo si diversificava enormemente.
Elementi dei modi di vita tradizionali venivano riprodotti non in quanto parti organiche di totalità sociali non-capitalistiche ma in quanto funzionali allo sfruttamento del lavoro salariato. Ciò rendeva e rende tuttora possibile, l'impiego di metodi tipici della «accumulazione primitiva» di capitale, caratterizzati dall'importanza della coercizione e dello sfruttamento feroce della forza lavoro la cui sopravvivenza era (ed è) assicurata, dati i livelli retributivi, proprio dall'esistenza di rapporti ed attività «tradizionali». Il fenomeno del «sottosviluppo» in effetti non è altro che il «sottosviluppo» del rapporto di lavoro salariato: il che significa che all'interno dello sviluppo capitalistico su scala mondiale si pongono come dato strutturale fenomeni barbarici sul piano della repressione politica e del degrado delle condizioni di vita. Prima dell'esplosione europea una guerra di classe su scala mondiale era già stata lanciata dalle potenze occidentali liberali e imperialiste.
Non insisterò ulteriormente sul tema della dipendenza e sulla sua nota fenomenologia. Mi interessa però sottolineare la contraddittorietà dei processi e la diversità delle situazioni del cosiddetto Terzo Mondo, in realtà più diversificato al suo interno di quanto lo sia il Primo mondo dei paesi a capitalismo avanzato.
L'approfondimento della penetrazione capitalistica all'inizio del Novecento, poi durante la prima guerra mondiale e, tra alti e bassi, nei decenni della «età della catastrofe», suscitava, in alcuni paesi coloniali o semi-coloniali, insieme alla proletarizzazione, una borghesia interna interessata alla crescita del mercato interno o comunque alla formazione delle condizioni per poter avviare a sua volta un ciclo proprio di riproduzione allargata. Questo processo era accompagnato, o addirittura anticipato o surrogato, dalla formazione di una intellettualità, più o meno radicale e più o meno «occidentalizzata», promotrice dell'indipendenza e dello sviluppo nazionale. La penetrazione imperialista, politica ed economica, generava diversi tipi di movimenti nazionali e di rivolte sociali. Si possono ricordare i movimenti nazionalistici in Turchia e in Persia, la rivolta dei boxers e poi la fondazione del Kuomintang e la proclamazione della repubblica in Cina, l'ascesa del nazionalismo indiano, la rivoluzione messicana; più tardi la rivolta capeggiata da Augusto Cesar Sandino in Nicaragua o, meno radicale, l'aprismo peruviano.
Di fronte alla debolezza della borghesia interna rispetto a quella imperialista, ed a fronte sia delle contraddizioni tra le varie frazioni della borghesia sia dei conflitti tra questa e il proletariato urbano e rurale ed i contadini, in genere è stata però la burocrazia statale che ha avuto una funzione di primo piano nel promuovere lo «sviluppo nazionale». Questo è accaduto in condizioni politiche nazionali e internazionali particolari, spesso sotto la spinta di movimenti popolari e/o populistici (Messico, Argentina) e in forme del tipo «terza via» o «socialiste» (India) o nel quadro della guerra fredda (Corea del Sud, Taiwan).

Lo sviluppo del capitalismo prebellico e le sue contraddizioni

Il vigore dell'espansione coloniale e dell'imperialismo informale furono espressione delle trasformazioni socio-economiche e politiche nel cuore stesso dell'economia mondiale capitalistica, all'interno delle economie dominanti come nei loro rapporti, sia nei processi di produzione che nelle forme della proprietà e del finanziamento dell'investimento, sia nella composizione sociale che nella struttura della produzione e nei rapporti tra agricoltura e industria. Mi riferisco all'insieme di fenomeni che sono in genere indicati come caratterizzanti l'avvento del capitalismo di tipo monopolistico e la seconda rivoluzione industriale. Sarebbe più giusto parlare di transizione a, o di inizio, della trasformazione in senso monopolistico del capitalismo. In effetti, emersero diverse modalità di centralizzazione del capitale, che permettevano investimenti su una scala qualitativamente nuova e grandi processi di concentrazione del capitale produttivo, particolarmente nelle branche più recenti e nell'industria pesante. Si trattava di fenomeni determinanti ma squilibranti.
La trasformazione della struttura sociale ed economica dei singoli paesi fu, nello stesso tempo, una «grande trasformazione» dell'economia mondiale, nella quale emersero nuove potenze industriali quali la Germania e gli Stati Uniti e si formarono le condizioni per un brusco decollo industriale in altre aree, una trasformazione costellata da oscillazioni e crisi, caratterizzata dalla ineguaglianza dei livelli sviluppo e dalla loro interazione. Si potrebbe definire una Gerschenkron-wave, una fase di cambiamenti strutturali, con differenti sentieri e ritmi di crescita, della produzione mondiale. L'altra faccia di questo processo fu il reciproco rafforzarsi delle contraddizioni interne e di quelle internazionali.
Fino alla prima guerra mondiale, la Germania mantenne tassi di crescita complessiva e di formazione del capitale molto alti e tendenzialmente crescenti, nonostante dei rallentamenti e delle crisi brevi e intense, diventando la più dinamica tra le economie europee. Facendo scorrere a velocità accelerata un film delle trasformazioni del paesaggio economico europeo vedremmo infatti crescere, fino a primeggiare, le esportazioni tedesche di prodotti metallurgici, meccanici, chimici e crescere anche le importazioni tedesche di prodotti alimentari ma anche di manufatti, di cui giunse a costituire lo sbocco maggiore per quasi tutti i paesi europei, svolgendo quindi un ruolo di «locomotiva» nonostante la bassa percentuale di queste importazioni sul consumo interno. L'industria tedesca esportava con successo su tutti i mercati, compreso quello britannico e statunitense, i prodotti più recenti e dalla domanda più dinamica. Nello stesso tempo l'Inghilterra vedeva crescere il peso percentuale delle sue esportazioni nell'Impero. Le esportazioni tedesche di capitale erano minori di quelle britanniche o francesi, anche per l'alto tasso di accumulazione interna, ma significative e molto importanti in alcuni casi, come quello italiano. L'imperialismo tedesco era un imperialismo industriale più che finanziario, nonostante il ruolo delle banche tedesche nell'industrializzazione di alcune aree.
In secondo luogo, vedremmo che né la Germania né negli altri late comers i rapporti sociali si trasformarono secondo le linee e con lo stesso ritmo dell'industrializzazione britannica.
Le caratteristiche interne dei processi di industrializzazione dei singoli paesi in questo periodo non possono essere ricondotte ad un modello unico. Ma si può dire che i late comers saltarono letteralmente quelli che la letteratura definirà gli «stadi di sviluppo». La crescita accelerata della produzione industriale non avvenne lungo un sentiero equilibrato ed organico. Enormi impianti con le tecnologie più avanzate coesistevano con una miriade di officine più tradizionali; aree in cui la produttività agricola cresceva grazie alla meccanizzazione ed ai fertilizzanti ed in cui i rapporti agrari si modernizzavano coesistevano con aree «tradizionali» dal punto di vista produttivo e sociale. Questi paesi presentavano tutta una serie di fenomeni per i quali l'espressione «dualismo» è in molti casi un eufemismo.
Il protezionismo saldò in Germania l'alleanza tra l'industria pesante e l'aristocrazia agraria junker; l'Italia presentava una vasta area di sottosviluppo agricolo; nel complesso dell'impero russo le condizioni dei contadini peggioravano, ma le stesse norme che ponevano fine alla servitù perpetuavano l'obscina. In Giappone si ebbe la più riuscita delle «rivoluzioni dall'alto», sulla base di un capitalismo già incipiente e sotto la pericolosa pressione imperialista: una «rivoluzione» in cui lo Stato promuoveva ed assisteva l'industrializzazione, ma che conservava tratti del regime precedente in misura tale da alimentare la discussione in campo marxista, molti decenni dopo, tra i sostenitori della persistenza di rapporti feudali nelle campagne (per la scuola «ortodossa» Koza-ha, legata alla linea della rivoluzione a tappe del Komintern) e chi invece affermava il carattere borghese della Restaurazione Meiji (scuola Rono-ha).
Il fatto è che non è funzionalmente necessario che lo Stato borghese sia gestito direttamente da capitalisti: è anzi preferibile che ciò non avvenga, proprio per salvaguardare l'«interesse generale» della borghesia. Concretamente, ciò fu reso tanto più necessario non solo dalla storia passata delle classi dominanti nelle diverse formazioni sociali, ma dalle alleanze presenti in assenza di autentiche o presunte «rivoluzioni democratico-borghesi». Nell'epoca precedente il primo conflitto mondiale, e in parte anche nel periodo tra le due guerre mondiali, la persistenza di forme politiche che ricordavano l'ancien régime in Europa e in Giappone aveva la sua base nella relativa continuità dei rapporti sociali nelle campagne, ma non solo in queste.
In tutti i paesi i caratteri dello sviluppo del capitalismo industriale dell'epoca erano tali da richiedere forme politiche più o meno liberali ma certamente non democratiche sul piano del diritto di voto e dei rapporti tra legislativo ed esecutivo, tanto più in presenza di partiti socialisti in crescita. Si poteva accettare il paternalismo sociale, per finalità nazionalistiche e di contrasto del socialismo, ma non l'istituzionalizzazione dei diritti socio-economici, affermatasi parzialmente e con difficoltà dopo la seconda guerra mondiale. Le forme politiche ed ideologiche ereditate dall'ancien régime erano parte integrante del processo di modernizzazione capitalistica, non meri residui, ed organicamente connesse alla lotta ed alle alleanze di classe nel quadro di una rapida industrializzazione.
I limiti alla democrazia politica ed alla contrattazione sindacale, il drenaggio di capitali dall'agricoltura e la compressione dei salari necessari all'accumulazione di capitale industriale, il protezionismo agrario, erano tutti fattori che contribuivano a limitare i consumi della forza lavoro, che non erano pienamente integrati nel processo di riproduzione allargata del capitale, essendo non istituzionalizzata ed affidata ai processi ciclici spontanei la fluttuazione del salario reale: fatto che trovava espressione nell'importanza dell'industria pesante.
Non a caso il marxismo «ortodosso» vedeva nel sottoconsumo del proletariato, quindi nella crisi da realizzazione del valore, la causa maggiore di destabilizzazione del capitalismo e dell'imperialismo; mentre alcuni revisionisti enfatizzavano come causa di crisi le sproporzioni tra i grandi compartimenti della produzione di mezzi produzione e della produzione di beni di consumo.
L'insistenza sulla persistenza di aspetti dell'ancien régime può portare all'interpretazione dell'imperialismo come fenomeno essenzialmente politico, conseguente al predominio di strati aristocratici; così come la tesi del colonialismo come conseguenza del sottoconsumo e del parassitismo finanziario della borghesia può portare a ipotizzare la fine dell'imperialismo attraverso la crescita del consumo delle masse, alleate al capitale produttivo.
Ma il dominio politico territoriale è solo una forma dell'imperialismo economico. La Germania, su cui potrebbe basarsi l'interpretazione politica dell'imperialismo, ebbe poche colonie e di scarso valore per il complesso della sua economia; la liberale Gran Bretagna, viceversa, era la prima potenza coloniale, ed all'Impero rimase tenacemente attaccata fin dopo la seconda guerra mondiale. L'India svolgeva una funzione fondamentale nel bilanciare i suoi conti con l'estero. Gli Stati Uniti iniziarono a sviluppare prima di altri la produzione e il consumo di massa, ma si costruirono attraverso la conquista continentale a cui aggiunsero pezzi nel Pacifico, interventi e protettorati nel mediterraneo caraibico e centroamericano, la pretesa di «porte aperte» e di pari opportunità per tutti i concorrenti in Cina. Ma non si può dire fossero una potenza coloniale classica.
L'imperialismo deve essere compreso non solo come rapporto tra i paesi capitalistici avanzati e quelli arretrati, ma come struttura mondiale in cui determinanti sono i rapporti economici e politici tra i paesi dominanti ed interni ad essi.
Esso è una struttura globale anche perché non può essere compreso solo in rapporto alla circolazione e distribuzione dei redditi. Alla base dell'imperialismo vi era ed è tuttora l'interdipendenza (che non equivale alla leniniana fusione) tra capitale monetario e produttivo, tra banche ed industria, che rese possibile un enorme sviluppo delle forze di produzione ed in particolare la formazione di nuovi, tutti moderni, settori produttivi.
L'imperialismo, con le sue guerre di conquista e interimperialistiche, il razzismo, la distruzione di equilibri socio-ecologici, è un prodotto non della putrefazione e del mero parassitismo del capitalismo ma della sua riproduzione allargata, cioè del suo sviluppo.
Ciò che contraddistinse l'imperialismo della prima metà del Novecento rispetto a quello della seconda, oltre al dominio politico diretto ed alla accelerazione della trasformazione delle aree periferiche, fu l'intensità delle tendenze al conflitto tra le potenze, ad un certo punto alimentate principalmente dalla Germania. Tendenze che in questo nuovo stato erano a loro volta alimentate dalla necessità di contrastare politicamente ed ideologicamente il più grande ed organizzato partito socialdemocratico. Una interpretazione tutta in termini di politica interna del bellicismo germanico mi sembra insufficiente, ma senza dubbio occorre connettere le contraddizioni sociali e politiche interne del processo di industrializzazione con il loro impatto sulla struttura geopolitica e sullo sviluppo dell'economia mondiale, di cui quel processo fu parte integrante e decisiva, così come fu componente decisiva per le due guerre mondiali e la grande depressione.
Per la Germania nel 1914 (e nel 1939) si trattava di affermare l'egemonia in Europa e di integrare in modo subordinato vaste aree del continente, costruendo un blocco da contrapporre all'Impero britannico ed all'imperialismo informale nordamericano. La proiezione realmente mondiale della potenza economica tedesca e il ridimensionamento dell'Impero sarebbero state conseguenze ovvie.
Detto questo, posta la diversa posizione dei singoli stati imperialisti nell'economia mondiale, bisogna sottolineare che l'imperialismo è molto di più che una politica. In effetti le politiche imperialiste possono essere diverse, sia in relazione ai dominati sia in relazione ai concorrenti, più o meno conflittuali più o meno tese alla «cooperazione». Ma, e questo è il punto fondamentale, l'imperialismo è la struttura socioeconomica e geopolitica mondiale entro cui quelle politiche si muovono e che contribuiscono a formare ed a trasformare: è un modo per indicare sinteticamente il carattere mondiale del capitalismo e la ricerca su scala mondiale del sovra profitto. Di questa struttura sono parte costitutiva e forza motrice la concorrenza economica e la conflittualità politica tra le potenze dominanti. Tesi, questa, che non può essere coerentemente sviluppata all'interno del paradigma del neoclassicismo globalista. E se proprio si vuole usare la nozione di «totalitarismo», allora bisognerà tener conto che alcuni dei caratteri di quest'ultimo, quali la repressione feroce fino al limite del genocidio, il razzismo, la distruzione dell'identità culturale, la «nazionalizzazione» delle masse, sono geneticamente e strutturalmente connessi proprio all'imperialismo liberale.
La fondamentale considerazione dell'imperialismo come modo d'essere del capitalismo mondiale è anche il motivo per cui i marxisti rivoluzionari, al di là di pur importanti divergenze (ad esempio sull'autodeterminazione nazionale, sul rapporto tra nazione e capitalismo mondiale o tra stato ed economia) non caddero nella trappola della «guerra difensiva» o del semplice «neutralismo», riconoscendo nella sostanza della guerra innanzitutto, ed oltre la conflittualità tra capitalismi nazionali, la più violenta delle aggressioni contro il proletariato in quanto classe sociale mondiale, indipendentemente dalla nazionalità. Questo significava spingere a riconoscere nel nemico un fratello proletario o contadino, sabotare la guerra, volgere le armi contro i fautori della carneficina.


pubblicato in Giano n. 40, 2002

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