Diari di Cineclub

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venerdì 24 dicembre 2010

ECONOMIA



Dall'età delle catastrofi
alla frana contemporanea

di Michele Nobile




Pubblichiamo in questo Post le ultime due parti del saggio di Michele Nobile "L'economia mondiale del capitalismo: sviluppo economico e catastrofi sociali".
Le prime due parti sono state pubblicate nel Post del 1 Dicembre, si possono anche trovare in "Etichette" sotto la voce ECONOMIA o Nobile Michele.
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NOTA DELL'AUTORE
Nel 1999 venni invitato dall’amico e compagno Luigi Cortesi a tenere una della serie di lezioni-discussioni che in quell’anno affiancavano il corso di Storia contemporanea della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Altri interventi vennero tenuti da Giorgio Nebbia, Marcello Cini e Nicola Labanca.
Questa è la seconda metà della rielaborazione di quella lezione. Il testo completo venne pubblicato nel n. 40 di Giano, nel 2002, con il titolo «L'economia mondiale del capitalismo: sviluppo economico e catastrofi sociali».
Segue una bibliografia parziale con scopi didattici.



Le radici del secolo americano
















Se il baricentro dell'economia europea si spostava verso la Germania, quello dell'economia mondiale si spostava, però, verso gli Stati Uniti d'America. L'influenza statunitense in Europa si era già fatta sentire attraverso crisi finanziarie, conseguenze dello straordinario decentramento del sistema finanziario nordamericano e delle occasioni speculative che questo favoriva; poi attraverso le esportazioni di prodotti agricoli, dei quali gli Stati Uniti erano e sono grandissimi esportatori, rese possibili dallo sviluppo dei trasporti interni e intercontinentali; infine attraverso le esportazioni di macchinario industriale. Nello stesso tempo gli Usa, come un gigantesco vortice, attraevano uomini e capitali a decine di milioni da tutto il mondo. Nel 1914 erano destinatari di più del 20% del totale mondiale degli investimenti diretti all'estero; viceversa, gli investimenti diretti all’estero degli Usa crebbero notevolmente dopo gli anni Settanta del XIX secolo, con una forte accelerazione all'inizio del nuovo secolo, specialmente verso l'Asia e l'America meridionale, ma nel complesso rimasero di molto inferiori a quelli britannici e francesi. Il dinamismo del capitale statunitense nel mondo era però chiaro e chiara era pure la coscienza dei suoi gruppi dominanti di dover espandere il mercato delle eccedenze nazionali.
Nonostante l'impatto crescente sull'economia e la politica internazionali, le dimensioni del mercato interno nord americano erano tali da assorbire una quota eccezionalmente alta del prodotto e da ridurre quindi il grado di apertura del paese, che da sempre aveva le tariffe doganali più alte tra i paesi dominanti.
Alle dimensioni geografiche e del mercato interno, che favorivano le economie di scala, si aggiungeva il fatto che, come in Germania, negli Usa si sviluppava l'integrazione tra ricerca scientifica ed applicazioni tecnologiche e, quindi, lo sviluppo dei nuovi settori produttivi e dei nuovi prodotti. Tipico degli Stati Uniti fu anche lo sviluppo precoce della produzione standardizzata di parti intercambiabili (cruciale per la produzione ed il buon uso di armi) e di nuove forme di organizzazione del lavoro, di cui la più nota e la più importante fu lo scientific management dell'ingegnere Frederick Taylor, i cui contributi sul piano tecnico sono meno noti di quelli gestionali ma, comunque, importanti ed indicativi delle linee di sviluppo dell'industria statunitense. La diffusione reale del taylorismo è minore di quanto comunemente si pensa, sia sul piano internazionale che su quello settoriale (in settori importanti come l'edilizia e la costruzione di infrastrutture, nell'agricoltura, nei servizi, nella produzione di macchine utensili, nella cantieristica, ad es., il taylorimo era ed è ancora poco o per nulla applicabile) ma, indubbiamente esso è rimasto, e rimane tuttora, la pietra di paragone di tutti gli sviluppi nell'organizzazione del lavoro.
Dimensioni del mercato, ricerca scientifica, economie di scala e gigantismo delle concentrazioni finanziarie ed industriali, innovazioni di processo e di prodotto: il tutto era animato dall'idea dell'espansione nel mondo della frontiera americana e sorretto da un riformismo politico ed amministrativo in cui l'azione politica e quella delle corporations tendevano ad integrarsi. Le riforme della Progressive Era ebbero effetti nefasti sul futuro del socialismo negli States.
Nel 1914 erano presenti tutti gli ingredienti affinché, una volta esplose in Europa le contraddizioni dello sviluppo dell'economia mondiale capitalistica, gli Stati Uniti d'America potessero proiettare nel mondo la potenza accumulata e fare del XX secolo il «secolo americano».
Forte di tutti quei vantaggi il Presidente Wilson poté permettersi, a danno dell'ancien régime europeo e contro l'antimperialismo rivoluzionario dei bolscevichi, di proclamare il diritto delle nazioni all'autodeterminazione, aprendo la via al principio dello sviluppo economico nazionale in una economia mondiale nella quale gli Stati Uniti avrebbero avuto una posizione dominante.

L'età delle catastrofi 1914-1945
















L'età delle catastrofi 1914-1945 si impone come un susseguirsi di esplosioni, risultanti dalle contraddizioni della «grande trasformazione» dei trent'anni precedenti a cavaliere dei due secoli. Essa contraddice l'idea progressista dell'evoluzione sociale graduale e organica. La modernizzazione richiede rapporti sociali, istituzioni, ideologie che apparentemente sembrano non-contemporanei e tradizionali. Questo è evidente in quel «modernismo reazionario» che coniugava industrializzazione e tecnica, potere carismatico e statalismo con l'irrazionalismo e l'aperto disprezzo per la libertà, l'uguaglianza e la fraternità. E che conquistò il potere politico proprio in quei paesi in cui l'industrializzazione era stata più veloce: la Germania, essenzialmente e, a distanza, l’Italia .
Non credo che l'età delle catastrofi possa rientrare facilmente in uno schema ciclico o di onde lunghe di sviluppo e crisi. Non solo per quanto riguarda la sua genesi, ma anche per alcune tendenze strutturali e per l'ineguaglianza spaziale dei ritmi di sviluppo, quell'età continuava e sviluppava contraddizioni precedenti al primo scontro interimperialistico. Si può dire che lo scontro interimperialistico «non solo creò forze nuove e nuovi problemi, ma altresì aggravò, o accentuò, tendenze ch'erano già all'opera prima del 1914» (Aldcroft). Il problema che si pone allora è quello del rapporto tra i nuovi problemi postbellici e l'accentuarsi delle tendenze preesistenti alla guerra mondiale, tra la specifica congiuntura degli anni Venti e le trasformazioni strutturali dell'economia mondiale tra il XIX e il XX secolo.

In sintesi l'età delle catastrofi:

a) si caratterizza per l'altissima intensità del conflitto interimperialistico, con acme nelle guerre mondiali, scatenate dalla Germania (poi alleata al Giappone e all'Italia, tutti paesi «revisionisti» per quel che riguarda la spartizione delle aree di influenza tra le grandi potenze), ma di cui portano responsabilità anche le altre potenze. Si tratta di una problematica spesso espressa come lotta per l'egemonia mondiale o, meglio, come assenza di uno Stato egemone che potesse prendersi la responsabilità di creare regole e garanzie nell'economia mondiale. In effetti, l’intero periodo 1914-1945 può caratterizzarsi come una «guerra dei trent’anni»; in questa prospettiva non è accettabile la riduzione dei conflitti mondiali a scontro ideologico: nel 1914 tutte le potenze coinvolte, ad eccezione dell’autocrazia zarista, erano liberali e nella Seconda guerra mondiale la dittatura totalitaria stalinista fu a fianco delle potenze anglosassoni liberali, come già lo zarismo.

b) Intenso fu anche il conflitto tra capitale e lavoro, nella forma degli squilibri tra produzione e consumo e delle lotte sociali e politiche. I picchi della barbarie nella sua forma più disumana furono raggiunti dal fascismo e dal nazismo, che si radicavano nella risposta borghese a questo conflitto, pur non potendosi spiegare solo nei suoi termini. Nel caso del nazismo sono della massima rilevanza sia le condizioni imposte alla Germania dalle potenze imperialiste liberali vincitrici sia la depressione; il razzismo, l'antisemitismo, lo spirito di conquista coloniale e l'antibolscevismo, non erano certamente una esclusività nazi-fascista, ma nel nazismo acquistarono un impeto proprio raggiungendo gli atroci livelli parossistici che sappiamo e che non si prestano ad una analisi esclusivamente nei termini del tradizionale cinismo politico. D'altra parte, le politiche economiche del fascismo e del nazismo negli anni Trenta furono parte, con le loro peculiarità, di un processo di crisi generale della forma statale e dell'ideologia liberale e di ridefinizione dei rapporti tra Stato ed economia capitalistici. Negli Stati liberali, fino alle sperimentazioni di politica economica della seconda metà degli anni Trenta negli Usa, la logica sottostante i rapporti tra capitale e salariato non fu fondamentalmente diversa da quella prebellica.

Tra gli orrori controrivoluzionari vanno ricordati quelli dello stalinismo, che richiedono un discorso a parte per la natura non capitalistica della società sovietica. La collettivizzazione forzata, che seguiva anni in cui si incitavano i contadini ad arricchirsi e si negavano lo squilibrio crescente tra agricoltura ed industria e la necessità di avviare una pianificazione razionale, le centinaia di migliaia di morti ammazzati in esecuzioni sommarie, i milioni di deportati nei gulag (con altri milioni di morti), la distruzione del pensiero critico, l’impossibilità di un’autonoma organizzazione operaia e le purghe politiche, furono il complemento necessario dell’industrializzazione nell’Urss staliniana. Tutta la storia sovietica fu segnata da quella prima e inedita espressione di feroce irrazionalità burocratica: l’industria sovietica si sviluppò in estensione e in qualità ma, alla lunga, il sistema burocratico di pseudo-pianificazione risultò incapace di superare il capitalismo avanzato in termini di produttività e qualità dei prodotti. Sul piano della libertà politica e sindacale o della creatività artistica la possibilità di un confronto neppure si pone.
Comparativamente, il sistema sovietico si è rivelato una sorta di aborto storico. Non è senza buone ragioni, dunque, che la nomenklatura «comunista» abbia colto l’opportunità di trasformarsi da gestore burocratico di mezzi di produzione statali in proprietaria privata degli stessi, convertendosi in borghesia, l’ultimo e definitivo abbraccio tra la controrivoluzione staliniana e il capitalismo.

c) Si delineò il conflitto tra potenze coloniali e movimenti di liberazione nazionale, ma anche in questo caso sulla base di contraddizioni che prolungavano le tendenze precedenti.

d) Emerse un conflitto qualitativamente nuovo: quello tra capitalismo e Unione Sovietica. Per la prima volta nella storia del mondo l'esplodere delle contraddizioni intercapitalistiche e della barbarie su scala mai vista produssero nell’impero zarista un movimento di milioni di uomini e di donne che iniziarono a costruire, con un prezzo enorme, un’alternativa al capitalismo, trasformando la partecipazione alla guerra imperialista in guerra di classe. Il protrarsi della guerra civile, l'aggressione esterna, il fallimento dei tentativi rivoluzionari nel resto d'Europa, gli errori dei bolscevichi (anche prima della guerra civile), contribuirono a deformare orrendamente l'alternativa socialista in embrione, senza però riuscire a schiacciare il nuovo Stato. Quest'ultimo tipo di conflitto si sovrappose ai precedenti, risultando nella strana e temporanea alleanza tra Urss ed angloamericani contro gli aggressori nazisti e fascisti, e continuò in modo da contraddistinguere su scala mondiale, e non solo continentale, il secondo dopoguerra. La sua specificità e dinamica possono intendersi considerando simultaneamente sia la natura sociale, non capitalistica, della società sovietica, sia il fatto che la burocrazia dominante in Urss, almeno dalla metà degli anni Venti, perseguì i propri interessi statali-nazionali e non quelli della rivoluzione mondiale, dalle cui sorti Lenin e Trotsky avevano fatto dipendere la stessa sopravvivenza del nuovo Stato. L'Urss riuscì a sopravvivere, ma tradendo le promesse della rivoluzione.

La Prima guerra mondiale fu un cataclisma umano, economico, psicologico, ideologico, geopolitico, un terremoto le cui onde si fecero sentire fino ai primi anni Venti nei tentativi rivoluzionari e nei successi controrivoluzionari.

Ma, tenendo presente la portata del cataclisma, quel che colpisce è la relativa continuità dei problemi e delle tendenze economiche fondamentali nel dopoguerra fino agli anni Trenta ed alla guerra mondiale.

Nel complesso la produzione industriale mondiale, secondo diverse misurazioni, continuò a crescere nel 1913-1929 rispetto al periodo precedente, specialmente dopo il 1924; nel centro imperialistico crebbe in modo ineguale, con la riduzione della quota dei paesi europei sul totale, specialmente dell'Inghilterra e della Germania, e l'aumento di quella degli Usa, del Giappone e del Canada.
In Germania gli squilibri aumentarono, a causa dell'ineguaglianza dei ritmi di crescita della produzione di beni di consumo rispetto alla produzione di mezzi di produzione, aggravata dalla razionalizzazione industriale. Le esportazioni ricominciarono a crescere nella seconda metà degli anni Venti, ma probabilmente realizzando profitti minori.
Negli Stati Uniti l'attività economica fu espansiva dal 1923 quasi fino al crollo della borsa, alimentata dal credito e dall'intensa attività speculativa immobiliare ed in titoli. La disoccupazione si mantenne molto bassa, l'occupazione crebbe nei servizi e nell'edilizia, nella quale si verificò un boom nella prima metà del decennio, ma stagnò nel settore manifatturiero, che però aumentò la produzione grazie ad una maggiore produttività per addetto. L'industria automobilistica ebbe il suo boom e i consumi, anche dei beni durevoli, crebbero in modo considerevole: questi ultimi con un ritmo più lento verso la fine del decennio, come l'investimento (nel 1927-1928).
Nel nel periodo tra le guerre mondiali non si ebbero innovazioni tecnologiche rivoluzionarie, ma si diffusero quelle di processo e di prodotto già emerse.
Nei paesi della «periferia» la Prima guerra mondiale costituì un impulso all'espansione della produzione primaria che, certamente con risultati diversi e crisi specifiche, continuò a crescere anche dopo la fine della guerra, specialmente quella di materie prime per l’industria. Molti studiosi attribuiscono al crollo dei prezzi dei prodotti primari ed al crescente indebitamento estero di questi paesi, in particolare dell'Europa centrale, una funzione determinante nella spiegazione dell'origine della depressione degli anni Trenta: certamente questi fattori contribuirono alla sua lunghezza ed intensità.
Se si guarda alla produzione industriale si può dire che in alcuni paesi sud americani prima della guerra era già iniziata la creazione spontanea di industrie «leggere» e di trasformazione, in particolare tessili e conserviere, processo continuato durante il conflitto mondiale. La rivoluzione messicana fece crollare la produzione industriale, ma questa si riprese negli anni Venti e, come in Brasile e più tardi in Argentina, dopo la scossa dei primi anni Trenta diminuì il peso delle importazioni. Il nazionalismo più o meno populista iniziò, costretto dalle circostanze internazionali ma anche dalle lotte interne, un marcato intervento statale nell'economia. Quest'ultimo punto ci porta però ben dentro la seconda metà degli anni Trenta e fino agli effetti della Seconda guerra mondiale, specialmente se si considera il bonapartismo di Perón, il fenomeno politico sudamericano maggiore tra la rivoluzione messicana e quella cubana.

Alcune note sulla Depressione e la guerra mondiale


















La ripulsa da parte del partito socialdemocratico tedesco del piano di Woytinski, Tarnow e Baade per il sostegno della domanda e l'espansione della spesa pubblica, o di idee simili avanzate dal Trade Union Congress, e addirittura dei liberali influenzati da Keynes, da parte dei laburisti al governo, evidenzia perfettamente quanto, nei primi anni Trenta, gli sguardi fossero rivolti al passato. La Gran Bretagna ritornò al gold standard (in realtà a un gold exchange standard, in cui tra le riserve figurano anche monete legate all'oro) nel 1925 e vi rimase fino al 1931, gli Stati Uniti lo mantennero dal 1919 al 1933, e paesi come il Belgio, la Francia e l'Italia rimasero attaccati all'oro fino al 1935 o al 1936. Ancora nel 1936 il governo di fronte popolare di Blum, mentre adottava misure di sostegno della domanda e favorevoli ai sindacati, negava la possibilità della svalutazione, alla quale fu costretto dopo pochi mesi.
Nell'analisi delle cause scatenanti della depressione o della sua diffusione e severità si attribuiscono, in modo eclettico ed in proporzioni variabili, grandi responsabilità agli errori di politica economica e monetaria, all'assenza di uno Stato egemone disposto ad accollarsi le responsabilità del mantenimento dell'ordine internazionale e delle funzioni del prestatore di ultima istanza, al crescente protezionismo, all'idealizzazione del gold standard.
Il rischio è che ci si ponga le domande sbagliate o che, comunque, non si possa spiegare perché non vennero fatte le mosse giuste, perché le risposte alla crisi furono così diverse, variando tra l'ortodossia della deflazione voluta, il protezionismo e la svalutazione, mosse, queste ultime due, che si discostavano dalla ortodossia senza rompere con essa, da una parte, ed il sostegno alla domanda dall'altra, autentica rottura con l'ortodossia; e perché solo con la preparazione della guerra alcuni paesi uscirono dalla depressione. Una impostazione di questo tipo si rifletterà sull'interpretazione delle «età dell'oro» postbellica e della frana, enfatizzando la gestione «politica» dell'economia e facendo del «keynesismo» la chiave di volta sia della crescita sia della proposta politica per uscire dallo stallo attuale. Il rischio è che la formazione dell'assetto caratterizzante il periodo di crescita nei diversi paesi sia ridotto ad un unico modello «keynesiano» e «fordista», partorito in modo indolore e magari già adulto e compiuto intorno al 1950. Potrebbero passare in secondo piano i nessi tra condizioni della depressione e catastrofe bellica, e tra il bellicismo e la fase qualitativamente nuova dopo la guerra mondiale.
L'impressione è che si lamenti, anacronisticamente, l'inesistenza di ciò che non poteva ancora esistere in forma compiuta prima della stessa catastrofe economica e del secondo massacro mondiale. Se non si confonde in un unico mazzo ogni forma storica dell'intervento statale nell'economia, possiamo dire che la politica economica non poteva darsi organicamente fino a quando veniva privilegiato il vincolo estero posto dal gold exchange standard.
Solo rompendo quel vincolo l'azione statale poteva non limitarsi più a garantire le condizioni esterne o generali del processo di accumulazione ma intervenire direttamente (ma in modo comunque contraddittorio e limitato) sulla conformazione della divisione sociale del lavoro e su aspetti importanti dei rapporti di produzione. La grande depressione comportò un salto nella qualità capitalistica dello Stato e dei suoi rapporti con l'economia, salto che deve considerarsi irreversibile, quali che siano i trionfi vantati dal cosiddetto neo-liberismo e dal neoclassicismo globale di destra e di sinistra. Quel che cambiano, anche profondamente ed in modo tale da segnare distinti periodi storici, sono i rapporti di forza sociali e gli orientamenti e gli strumenti della politica economica, non i dati strutturali della riarticolazione dei rapporti tra Stato ed economia a partire dalle guerre mondiali e dalla depressione e della imprescindibilità dell’intervento statale nell’economia, irriducibile a un modello (neo)liberista o di tendenziale obsolescenza della statualità in un’economia divenuta «globale».
Di questo fa parte la combinazione della gestione della moneta e della forza lavoro: e fu durante il New Deal che si crearono le condizioni sociali e politiche che spinsero verso esperimenti in questo senso e verso il riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva, inserendo a tutti gli effetti la riproduzione della forza lavoro nella riproduzione allargata del capitale.
Il riconoscimento reale dei diritti economico-sociali, peraltro, non fu per nulla pacifico: se esso venne avviato dal New Deal, in pratica dovette passare attraverso i terribili sacrifici della guerra e la sconfitta delle lotte più radicali del movimento operaio post-bellico. Esso avvenne effettivamente, quindi, solo quando si verificò il rilancio dell'accumulazione di capitale nel nuovo contesto internazionale, segnato dalle ineguali condizioni dell'Europa e del Giappone rispetto agli Usa e dal «contenimento del comunismo», e solo quando fu chiaro che le prerogative della borghesia non sarebbero state messe in discussione, rimanendo contrattazione, salario ed occupazione variabili dipendenti dall'accumulazione. Il dinamismo dell’accumulazione di capitale permise la crescita del salario reale, a ritmi diversi nei diversi paesi e settori produttivi, insieme all’approfondirsi del processo di mercificazione e, anche in questo caso con estensione e modalità molto diverse, lo sviluppo del welfare State.
Se un compromesso di classe vi fu, fu compromesso tra vincitori e vinti.

Ma perché il ritorno al gold standard tra le guerre? Perché le resistenze alla rottura con l'ortodossia nei rapporti tra Stato ed economia?
Il «pacifismo» impersonale del gold standard richiedeva la centralità indiscussa di Londra e la convergenza tra interessi nazionali e ordine finanziario internazionale, tra le ragioni della mobilità internazionale del capitale e quelle dello sviluppo interno. Convergenza progressivamente venuta meno già prima della guerra mondiale, con lo sviluppo tedesco e nordamericano, e l'acuirsi delle tensioni internazionali, poi spezzata dall'asimmetria dei rapporti commerciali e finanziari postbellici: rapporti che potevano tenere solo con adeguati flussi finanziari dagli Usa, in particolare verso la Germania. Quando, nel secondo semestre del 1928, questi flussi si invertirono, congiuntamente all'afflusso d'oro verso la Banca di Francia, nel quadro del gold standard le politiche monetarie e fiscali degli altri paesi dovevano farsi più restrittive, cercando nello stesso tempo di ridurre le importazioni e di aumentare le esportazioni, avviando un circolo che avrebbe portato, anche a causa della contrazione nordamericana, alla catena dei fallimenti bancari (1931), alla crisi di fiducia nella convertibilità, all'abbandono del gold standard ed alla svalutazione.
L'attaccamento al gold standard non era però un fatto meramente culturale e psicologico.
Con il gold standard si intendeva riaffermare l'oggettività e l'impersonalità del dominio della moneta e dei rapporti monetari capitalistici, sottraendo il processo economico all'arbitrio della volontà politica e alle pressioni dal basso sul bilancio statale. Insieme al libero scambio esso rappresentava l’agognato ristabilirsi dell'ordine sociale interno, oltre che internazionale. Ma né l'uno né l'altro erano più gli stessi. Tentare di ritornare al passato significava aggravare le contraddizioni e le tensioni prebelliche elevandone ancora il potenziale esplosivo innescabile da un qualche shock.
Il gold standard era coerente con alcuni fatti sociali fondamentali: la relativa continuità del rapporto di lavoro salariato prima e dopo la guerra, la schiacciante vittoria sul proletariato in Italia, il prevalere di determinate frazioni e settori della classe dominante su altre: in genere dell'industria sull'agricoltura, della City nel Regno Unito, della finanza, dell'industria e dell'agricoltura di esportazione negli Usa, dell'industria esportatrice in Germania.

Il conservatorismo socialdemocratico rende bene quanto la sconfitta dei movimenti operai nella prima metà degli anni Venti e la stabilizzazione del potere borghese, di cui aveva già parlato Trotsky al Terzo congresso dell'Internazionale comunista nel 1921, impedissero quelle riforme che, in linea teorica, avrebbero potuto almeno alleviare la depressione degli anni Trenta. Per Trotsky, così come poi, ma su tutt’altre basi politiche, per l'Internazionale stalinista, la stabilizzazione era solo temporanea, in quanto l'epoca iniziata sarebbe stata caratterizzata da guerre e rivoluzioni. Lo scontro politico nel Partito Comunista si concentrava piuttosto sulla valutazione congiunturale dei rapporti di forza tra le classi e strategicamente sulle alleanze politiche e sul rapporto tra salvaguardia dell'Urss e processi rivoluzionari nel mondo, tra possibilità del «socialismo in un solo paese» e «rivoluzione permanente». Per Varga, l'economista interprete della linea del Komintern, la depressione iniziava un nuovo e più alto stadio della crisi generale del capitalismo. Nei primi anni Trenta in Germania l'Internazionale e il Kpd sostenevano che il nemico principale del movimento operaio fosse la socialdemocrazia, ammettendo solo il «fronte unico dal basso», che si voleva settariamente egemonizzato dal Kpd; sulla base di un'analisi «epocale» non dissimile, Trotsky era invece fautore del fronte unico di tutte le organizzazioni operaie e dell'autodifesa comune: posizione classista ben diversa non solo da quella «ultrasinistra» del Komintern dei primissimi anni Trenta, ma opposta anche a quella dei fronti popolari interclassisti, frutto dell'ennesimo zigzag della burocrazia staliniana, fallimentare in Francia e catastrofico in Spagna.

La depressione e l'assalto nazista al potere sembravano inverare le prognosi circa la crisi da sottoconsumo delle masse popolari, l'esaurimento del liberalismo, l'imminenza della catastrofe bellica. L'interventismo nazista e il New Deal ponevano su basi più concrete ed ampie la discussione sul «capitalismo organizzato». Si oscillava tra la tesi eterodossa della subordinazione dell'economia alla politica nel quadro del «capitalismo monopolistico di Stato» dominato dalla pianificazione burocratica, fino a quella estrema del nuovo modo di produzione totalitario del «collettivismo burocratico», e quella secondo cui l'intervento statale non modificava le leggi fondamentali del capitalismo, per i comunisti destinato non a crollare spontaneamente per motivi economici ma sotto i colpi della guerra e della rivoluzione. Si possono segnalare le polemiche interne alla «scuola di Francoforte» tra Pollock e Neumann, la tesi del «collettivismo burocratico» di Bruno Rizzi sul sorgere di una nuova classe sociale affermatasi nell'Urss, nell'Italia fascista e nella Germania nazista, le riflessioni di Polanyi, l'elaborazione di Michael Kalecki, che anticipava Keynes mettendo però in luce i limiti politici al sostegno della domanda, The theory of capitalist development di Paul Sweezy. Una discussione che sarebbe continuata a lungo, fino agli Settanta ed alla tesi dello Stato-piano di Antonio Negri, giusto a ridosso delle vittorie elettorali della «nuova destra» «neoliberista» della Thatcher e di Reagan.

Lo sviluppo e l'estensione dell'economia mondiale nell'ultimo quarto del XIX secolo e la transizione verso forme monopolistiche di capitalismo acuirono le tensioni intercapitalistiche, portandole alla guerra. Quest'ultima, nonostante l'enorme carneficina e gli sconvolgimenti geopolitici, non stroncò la Gerschenkron-wave di crescita mondiale ma ne accentuò l'ineguaglianza di sviluppo ed introdusse nuovi problemi. Con la stabilizzazione e il gold exchange standard sembrò trionfare lo «spirito» prebellico nei confronti del lavoro salariato. Rimaneva aperto, e non risolto, il problema dell'integrazione del consumo dei nuovi beni durevoli nel prezzo della forza lavoro, la cui organizzazione era cresciuta e che poteva ispirarsi anche all'esempio rivoluzionario russo.
Rimanevano aperti e non risolti anche i problemi di sovrapproduzione e di sovraccumulazione di capitale, che il gold exchange standard e la fame d'oro aggravavano, fino a quando non crollò il sistema monetario internazionale, insieme all'occupazione, alla produzione ed all'investimento. Con l'avvento del nazismo e la sua espansione in Europa, l'invasione della Manciuria e l'aggressione all'Etiopia da parte, rispettivamente, del Giappone e dell’Italia, si ripresentavano su scala ampliata ed intensificata i problemi sottostanti la Prima guerra mondiale.
La profondità della depressione degli anni Trenta non fu la crisi finale del capitalismo, né esso entrò in putrefazione a causa dei monopoli e dell'intervento statale. La depressione sconvolse i rapporti tra le classi e nelle classi e fu la madre del nazismo, del riarmo e della guerra mondiale, della barbarie e di una gigantesca distruzione di vite e di valori, che pure furono gli impulsi determinanti per la fuoriuscita dalla depressione attraverso l'espansione della spesa pubblica, dopo l'abbandono del regime aureo. Le sofferenze della depressione e della guerra furono la fornace nella quale si bruciarono le contraddizioni interimperialistiche dello sviluppo del capitalismo mondiale tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo e che consolidò il capitalismo dei monopoli.

Stagnazione economica, crisi dei modelli di sviluppo e ricerca del nemico

Quando il Presidente Truman autorizzò lo scatenamento della potenza del Sole su Hiroshima e Nagasaki, città di un Giappone già sull'orlo della resa, chiudeva di fatto la Seconda guerra mondiale ed iniziava una nuova era; nello stesso tempo si evidenziava il tragico paradosso della trasformazione della creatività umana in inedite capacità di distruzione. Horkheimer e Adorno vedevano la barbarie in atto, ma presagivano anche la paradossalità dei decenni futuri.
La Seconda guerra mondiale pose fine alla catastrofica conflittualità bellica tra le grandi potenze capitaliste, trasformandola nella possibilità latente della distruzione nucleare della civiltà umana. La barbarie venne allontanata da (quasi) tutta l'Europa ma non dalle colonie o dai paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Una nuova sfera di diritti, quelli economico-sociali, venne sancita dalla Carta delle Nazioni Unite e si affermò faticosamente, parzialmente e in modo ineguale, nei paesi a capitalismo avanzato: ma l'ineguaglianza continuò ad approfondirsi su scala mondiale. Il «modo di vita americano», alimentato dal consumo e dalla proprietà di beni durevoli (la casa, l'automobile, gli elettrodomestici) e dalla diffusione dell'istruzione superiore, sembrò trasformare negli Stati Uniti la maggior parte dei salariati in una middle class e divenne un riferimento per i salariati europei e giapponesi. Intanto gli equilibri ambientali si trasformavano, spesso in peggio, dando luogo alla forma contemporanea dei movimenti e dei problemi ecologici, l'agricoltura si industrializzava, il consumo (o la distruzione) delle risorse naturali si intensificava come non mai. Mentre si teorizzava la fine del ciclo economico e l'avvento di un'epoca di prosperità senza fine, la concorrenza economica tra Stati Uniti, Germania e Giappone si intensificava, minando gli assetti internazionali ed anche interni, rivelandone la precaria storicità. Le lotte sociali e la crisi economica dei primi anni Settanta rilanciarono la discussione sui cicli lunghi e quindi sull'alternanza di crisi e sviluppo.
Non è questa la sede per discutere più analiticamente se la crisi degli anni Settanta sia conseguenza dell'esaurirsi di un «modello fordista-keynesiano» o delle rendite tecnologiche e della crescita della produttività, oppure dell'effetto delle lotte sociali nazionali o della concorrenza internazionale sul profitto, se esprima il prevalere della tendenza alla caduta del saggio di profitto sulle controtendenze, costituendo quindi essenzialmente una crisi del processo di valorizzazione del capitale, o piuttosto risulti da una crisi della domanda aggregata e quindi della realizzazione del plusvalore, o una qualche combinazione di queste possibilità.

La sinergia tra le lotte dei salariati, dei nuovi movimenti sociali e dei movimenti antimperialisti originò quello straordinario fenomeno indicabile come il «1968», probabilmente l'unico caso veramente mondiale di confluenza nella stessa congiuntura di movimenti di massa anticapitalistici (ed antiburocratici: Cina, Jugoslavia, Cecoslovacchia). Senza dubbio il «1968», che è un fenomeno globale e multidimensionale, aggravò l'incipiente crisi dei rapporti economici tra i paesi a capitalismo avanzato, di cui fu espressione il crollo, pilotato, del sistema monetario detto di Bretton Woods (la conferenza di Bretton Woods ebbe luogo nel 1944, ma il «sistema» fu veramente operativo solo dal 1958 e quindi per non più di un decennio). Ma nel complesso, sul piano economico ed in rapporto al rendimento del capitale, gli effetti del «1968» furono congiunturali, limitati ai primi anni Settanta, e pienamente comprensibili solo nel quadro della intensificata concorrenza interimperialistica, risultato del successo dello sviluppo capitalistico.
A fronte della crescita della disoccupazione, della ristrutturazione industriale e della deindustrializzazione di alcune regioni, dell'attacco al salario ed al welfare-state, del rovesciamento di tendenze nella distribuzione del reddito e nella politica economica, alla crisi del «debito estero» ed ai programmi di «austerità» nei paesi detti in via di sviluppo, non è credibile che si possano imputare alle lotte sociali ed alla «rigidità del lavoro» le difficoltà dell’investimento e la modesta crescita del prodotto interno degli anni Ottanta e Novanta. Questa è la posizione di una classe sociale che su scala mondiale non riesce a trovare le risorse per uscire dalle proprie contraddizioni, se non gestendole in modo da scaricarle sui più deboli. Dal punto di vista del rilancio dello sviluppo capitalistico quelle precedenti sono condizioni necessarie ma non sufficienti per uscire dalla stagnazione.
Se si considerano tutti i principali indicatori della crescita economica, tasso dell'investimento, tasso di profitto, tasso di disoccupazione, tasso dei salari reali, tasso di produttività, tasso di crescita del commercio mondiale, l'unica conclusione che si può trarre è che gli anni Ottanta sono stati peggiori degli anni Settanta, e gli anni Novanta sono peggiori degli anni Ottanta. Ogni vantato miglioramento è tale solo relativamente a un ventennio di sostanziale stagnazione per l'economia mondiale, e di regresso per centinaia di milioni di individui. Naturalmente questo vale per il complesso delle attività economiche nazionali e dei paesi. Stagnazione e regressi non si distribuiscono egualmente né geograficamente né nel tempo né quanto a portata.
A quelli dell'Africa e dell'America latina si aggiungono, negli anni Novanta, regressi gravi nelle condizioni di vita nei paesi ex «socialisti» e, più recentemente, negli «emergenti» asiatici.
Se una crisi dell'idea di progresso esiste, dal punto di vista dell'economia mondiale, essa è innanzitutto crisi della teoria liberale dello sviluppo e della modernizzazione, e crisi dell'idea della transizione al socialismo mediante la pianificazione statale burocratica.
In un quarto di secolo sono stati «bruciati» o duramente colpiti quattro modelli di progresso sociale, economico e politico nella cui rappresentazione idealtipica si mescolano indicazioni operative e ideologia:

a) il modello di sviluppo nazionale mediante sostituzione delle importazioni, di cui esempio tipico era la posizione della Commissione Economica per l'America Latina dell'Onu, diretta da Raul Prebisch;

b) il modello «occidentale», liberale ma caratterizzato dall'espansione dell'intervento statale nei rapporti socio-economici, spesso etichettato come socialdemocratico o keynesiano;

c) il modello «sovietico» di pianificazione burocratica e di statalizzazione economica dei mezzi di produzione;

d) e infine, nel 1997, è entrato in crisi quello che sembrava il modello emergente e vincente di sviluppo mediante la promozione delle esportazioni industriali, caratterizzato dalla flessibilità del lavoro e da un ruolo di primo piano dello Stato e della regolazione del credito: quello «orientale», delle tigri asiatiche. Crisi che getta un'ombra anche sul modello detto neoliberale, centrato sull'offerta e l'attacco al salario e al welfare-state.

Con questi modelli difficilmente si possono spiegare i processi reali. Essi andrebbero piuttosto considerati come classi comprensive di diverse varianti specifiche. Ma dietro la crisi della rappresentazione idealtipica c'è, appunto, la crisi reale delle forme storiche che non è né geneticamente né nei suoi effetti un processo esclusivamente economico. Deriva, infatti, dall'insieme delle contraddizioni sociali, anche politiche ed ideologiche delle formazioni sociali dell'economia mondiale.
Si può anche notare che la «crisi del debito estero» ha rivelato che le strategie di sviluppo nazionale e statalistiche non costituivano forme di rottura ma piuttosto di articolazione nell'economia mondiale capitalistica (anche per i paesi detti socialisti), e più precisamente di un'articolazione che ha trasformato le società senza eliminare la dipendenza e i differenziali di sviluppo. Ma la durezza di quella stessa crisi non può essere compresa al di fuori degli shock petroliferi, che hanno colpito molti «paesi in via di sviluppo», o della riduzione del prezzo del petrolio negli anni Ottanta (che ha colpito paesi esportatori di petrolio fortemente indebitati come il Messico o il Venezuela o la Nigeria). E specialmente non può essere compresa al di fuori della politica monetaria statunitense e della politicizzazione della questione del debito a favore dei creditori: dei grandi consorzi delle banche «occidentali», spalleggiate dai loro governi e dal Fmi e dalla Banca Mondiale. Senza l'appoggio dei governi dei paesi imperialisti e delle istituzioni internazionali il «mercato» della finanza internazionale, per quanto molto concentrato, non avrebbe potuto imporsi in modo così schiacciante sui paesi debitori, con effetti spesso incontrollabili sulle loro società e sulla loro stessa integrità statale.
E' una crisi che richiede anche risposte politiche, militari ed ideologiche. In un contesto in cui i rapporti tra le classi non sembrano poter determinare «spontaneamente» un rilancio dell'accumulazione, il «keynesismo militare» svolge un ruolo importante sia per motivi interni sia per condizionare gli assetti geopolitici e socioeconomici nel quadro della competizione mondiale. Da qui anche la necessità di scoprire nemici ben selezionati della stabilità internazionale e della democrazia.
La spesa militare statunitense negli anni precedenti la fine dell'Urss non è quasi mai scesa sotto il 5% del Pnl, nel 1985 raggiunse il 7%: un'impulso notevole all'attività economica, specialmente nei settori a più alta tecnologia. Un modo per garantire statualmente i profitti e di pianificare parte dell'attività economica senza intaccare le prerogative manageriali ed i rapporti di proprietà.
Oggi la percentuale della spesa militare Usa sul totale della spesa militare mondiale è più alta che nell'anno di picco della «seconda guerra fredda», il 1985, maggiore delle spese militari della Russia, del Giappone, della Cina, della Gran Bretagna, della Germania, della Francia sommate insieme. Lo Stato sociale è ovunque sotto attacco in nome dell'antistatalismo e della flessibilità del lavoro; ma il «keynesismo militare» e il militarismo «umanitario» conoscono nuovi fasti, come al tempo del «fardello dell’uomo bianco». Viene così ribadita la centralità dell'azione statale, o meglio dell'azione di alcuni grandi Stati, nell'economia nazionale e mondiale.
Un «keynesismo militare» tanto più necessario quanto più se si considera che, con le parole di Lester Thurow: «Gli eterni capisaldi del capitalismo - la crescita economica, la piena occupazione, l'aumento dei salari reali, la stabilità finanziaria - sembrano svanire proprio mentre svaniscono anche i suoi nemici».
Ma il «keynesismo militare» non può da solo rilanciare l'espansione, né è detto che i processi innescati su scala internazionale dalla piena mobilità dei capitali e dal neoliberismo siano controllabili.
Le sofferenze inflitte a centinaia di milioni di individui in carne ed ossa in nome dei sacri principî della libertà economica e del pagamento degli interessi sono parte integrante dell'età che Hobsbawm definisce «la frana». Essa, pur con tutte le differenze rispetto all'età della catastrofe», sembra manifestare una caratteristica del secolo e forse dell'intera storia dello sviluppo capitalistico: l'oscillazione del pendolo tra progresso civile e rinnovata barbarie, tra sviluppo e crisi. Dalla guerra tra paesi «socialisti», tra Cina e Vietnam, Vietnam e Cambogia alla «seconda guerra fredda» degli anni Ottanta; dai massacri dei khmer rossi al genocidio ruandese; dal macello in America Centrale all'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq ed alla guerra interminata che ne è seguita; dai test nucleari pakistani ed indiani alle «pulizie etniche» nel territorio della ex Jugoslavia, fino alla «guerra umanitaria» in corso mentre parlo: ho omesso molto, ma già da questo incompleto elenco si può vedere una «qualità» nuova della conflittualità sulla scena mondiale.
Quelli appena accennati sono fenomeni dai quali non si può prescindere per una interpretazione dei processi economici, che non si verificano in condizioni di «purezza» ma che sono spesso all'origine degli stessi conflitti e da essi sono a loro volta condizionati.
Si può portare l'esempio del processo di sfaldamento della Federazione Jugoslava, iniziato quasi venti anni fa, in cui hanno avuto un ruolo di rilievo, come in altri paesi detti «in via di sviluppo» o in paesi «socialisti», il problema della distribuzione del peso del debito estero accumulato negli anni Settanta tra le varie Repubbliche, e le misure di «aggiustamento» imposte dal Fondo Monetario Internazionale.
Lungi dal realizzarsi, a più di mezzo secolo dal termine dell'età della catastrofe, le promesse dell'illuminismo si allontanano. Venuta meno la minaccia, presunta o reale che fosse, dell'«espansionismo comunista» e sfaldatosi il blocco sovietico, in un modo che contraddice decenni di elaborazioni basate su quella nozione di «totalitarismo» che confondeva stalinismo e nazismo assolvendo il capitalismo liberale, assistiamo non al sorgere di un epoca di disarmo e di pace universale ma, piuttosto, all'emergere di pulsioni razziste e genocide che nell'età d'oro sembravano, nonostante aspri conflitti, se non scomparse almeno sommerse da una logica diversa, più politica, più universalistica. Da qui anche la difficoltà di distinguere i «buoni» ed i «cattivi», mentre si consumano tragedie sulla pelle di interi popoli.
L'economia mondiale del secolo, nonostante le tesi sulla formazione di un «mondo socialista» e di un «mercato socialista» semiautarchici, è sempre stata dominata dal capitalismo. Oggi esso non ha più alibi.

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Bibliografia essenziale

I testi a cui accenno inizialmente sono la Dialettica dell'illuminismo, di Theodor Adorno e Max Horkheimer, Einaudi, Torino, 1966 e Il secolo breve di Eric Hobsbawm, Rizzoli, Milano, 1995. Altri testi intorno al libro di Hobsbawm: a cura di Silvio Pons, L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, Carocci, Roma, 1988; Agosti, Gallerano, Sofri, in Passato e presente, n. 37, gennaio-aprile 1996; gli interventi di Therborn, Nairn e Mann sulla New Left Review n. I/214, novembre-dicembre 1995; Luigi Cortesi, «Appunti sul «Secolo breve» di Hobsbawn», in Giano n. 21, 1995. I saggi in L'economia mondiale nel Novecento. Una sintesi, un dibattito, il Mulino, Bologna, 1998, prendono spunto da un saggio del curatore Pierluigi Ciocca, ma il confronto con Hobsbawm è esplicitamente o implicitamente costante.

Per le trasformazioni storiche delle concezioni dello spazio e del tempo: Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Bologna 1988; David Harvey tratta ampiamente la compressione spazio-temporale nell'epoca dell'accumulazione flessibile e del postmodernismo in La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano, 1993.

Sulle guerre mondiali e l'economia: Pierre Leon, Guerre e crisi 1914-1947, Laterza, Roma-Bari, 1979, e Alan Milward, Guerra, economia e società 1939-1945, Etas, Milano, 1983.

Sul processo di industrializzazione: di Alexander Gerschenkron Il problema storico dell'arretratezza economica, Einaudi, Torino, 1970 e La continuità storica. Teoria e storia economica, Einaudi, Torino, 1976; di Tom Kemp, L'industrializzazione in Europa nell'800, il Mulino, Bologna, 1975, Modelli di industrializzazione, Laterza, Roma-Bari, 1981 e Industrialization in the non-western world, Longman, London-New York, 1989; David Landes, Prometeo liberato, Einaudi, Torino, 1978, e la discusione in A che servono i padroni? Le alternative storiche dell'industrializzazione, Bollati e Boringhieri, Torino, 1987; Alan Milward e Saul Berrick, Storia economica dell’Europa continentale 1780-1870, e Storia economica dell’Europa continentale 1850-1914, il Mulino, Bologna, 1979; Sidney Pollard, La conquista pacifica. L’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, il Mulino, Bologna, 1984.

Sugli Stati Uniti: Pier Angelo Toninelli, Nascita di una nazione. Lo sviluppo economico degli Stati Uniti (1780-1914), il Mulino, Bologna, 1993; Michel Aglietta, A theory of capitalist regulation. The U. S. experience, New Left Books, London, 1979; G. Gordon, R. Edwards, M. Reich, Segmented work, divided workers, Cambridge University Press, Cambridge 1981; D. M. Kotz, T. McDonough, M. Reich (a cura di), Social structures of accumulation. The political economy of growth and crisis, Cambridge University Press, 1994. Gli ultimi tre libri si segnalano come particolarmente importanti anche per comprendere gli approcci teorici della scuola della regolazione e delle strutture sociali dell'accumulazione. Per la critica teorica e storica della scuola della regolazione: Robert Brenner, Mark Glick, «The regulation approach: theory and history», in New left review n. I/188, luglio-agosto 1991.

Sull'industrializzazione del Giappone: E.H. Norman, La nascita del Giappone moderno. Il ruolo dello Stato nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, Einaudi, Torino, 1975; Claudio Zanier, Accumulazione e sviluppo economico in Giappone. Dalla fine del XVI alla fine del XIX secolo, Einaudi, Torino, 1975; Franco Mazzei, Il capitalismo giapponese. Gli stadi di sviluppo, Liguori, Napoli, 1979; Jon Halliday, Storia del Giappone contemporaneo. La politica del capitalismo giapponese dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino, 1979.

Sulla problematica dei cicli e delle onde lunghe: Nicolaj Kondratev, I cicli economici maggiori, a cura di Giorgio Gattei, Cappelli, Bologna, 1981, che contiene la critica di George Garvy del 1943; Angus Maddison, Le fasi di sviluppo del capitalismo, Giuffrè, Milano, 1987 e Monitoring the world economy, 1820-1992, Oecd, Paris, 1995. Il punto della ricerca è nei saggi raccolti in New findings in long-wave research, St. Martin's Press, New York, 1992, a cura di Alfred Kleinknecht, Ernest Mandel e Immanuel Wallerstein; il principale teorico marxista delle onde lunghe, e per chi scrive anche il miglior economista marxista del dopoguerra, è Mandel, di cui si possono leggere: Long waves in capitalist development: the marxist interpretation, Cambridge University Press, Cambridge, 1980, e specialmente Late capitalism, Verso, London, 1975. Dello stesso in traduzione italiana è stato ripubblicato recentemente il Trattato marxista di economia, Erre emme, Roma, 1997 (la cui prima edizione è del 1962). Si vedano anche, per i rapporti tra egemonie e cicli di sviluppo e crisi del capitalismo: Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, Milano, 1996 e Charles P. Kindleberger, I primi del mondo. L'egemonia economica dalla Venezia del Quattrocento al Giappone di oggi, Donzelli, Roma, 1997. A questi testi possono essere accostati: Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989, e Robert Gilpin, Politica ed economia delle relazioni internazionali, il Mulino, Bologna, 1990.

Sulla critica della teoria delle onde lunghe: Solomos Solomou, Phases of economic growth, 1850-1973: Kondratieff waves and Kuznets swings, Cambridge University Press, Cambridge, 1987; Andrew Tylecote, The long-wave in the wordl economy. The present crisis in historical perspective, Routledge, London and N. Y., 1992; e di Richard Day, «The theory of the long cycle: Kondratiev, Trotsky, Mandel», sulla New Left Review n. I/99, settembre-ottobre 1976.

Sull'imperialismo: Giampiero Carocci, L'età dell'imperialismo (1870-1918), il Mulino, Bologna, 1989; di Eric Hobsbawm, L'età degli imperi, 1875-1914, Mondadori, Milano, 1996 e La rivoluzione industriale e l'impero, Einaudi, Torino 1972; Wolfgang Mommsen, L'età dell' imperialismo, Feltrinelli 1989.

Sulla struttura dell'economia mondiale e l'analisi marxista: Anthony Brewer, Marxist theories of imperialism, Routledge & Kegan, London, 1980, utilissima e puntuale panoramica; Charles-Albert Michalet, Le capitalism mondial, Presses Universitaries de France, Paris, 1976; Christian Palloix, L'economia mondiale capitalista e le multinazionali. Volume I: Nello stadio della concorrenza, e Volume II: Nello stadio del monopolio, Jaca Book, Milano; David Harvey, The limits to capital, Basil Blackwell, Oxford, e University of Chicago Press, Chicago, 1982; Late capitalism di Mandel. Per la world-system analysis, si vedano i lavori di Immanuel Wallerstein, Samir Amin, Gunder Frank e, in particolare, Il capitalismo storico, di Wallerstein (Einaudi, Torino 1985) e Eric Wolf, L'Europa e i popoli senza storia, Il Mulino, Bologna, 1990.

Sulle imprese multinazionali: a cura di Luciano Ferrari Bravo, Imperialismo e classe operaia multinazionale, Feltrinelli, Milano, 1977; Christos Pitelis, «The transnational corporation: a synthesis», in Review of radical political economics 1990 e a cura dello stesso; di R. Sugden, The nature of transnational firm, Routledge, London, 1990.

Sui rapporti tra Stato, classi sociali e politica economica: Arno J. Mayer, Il potere dell'Ancien régime fino alla Prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1982; Alan Wolfe, I confini della legittimazione, De Donato, Bari, 1981 e Simon Clarke, Keynesianism, monetarism and the crisis of the state, Edward Elgar, Aldershot, 1988.

Il riferimento a Trotsky è dalla «Relazione sulla crisi economica mondiale», in Problemi della rivoluzione in Europa, a cura di Livio Maitan, Mondadori, Milano, 1979.

Sulla grande depressione: John K. Galbraith, Il grande crollo, Boringhieri, 1976; Charles Kindleberger, La grande depressione nel mondo 1929-1939, Etas 1982; Barry Eichengreen, Gabbie d'oro. Il «gold standard e la Grande depressione 1919-1939, Cariplo-Laterza, 1994; A. J. H. Latham, The depression and the developing world, 1914-1939, Croom Helm, London, 1981; Livio Maitan, La grande depressione (1929-1932) e la recessione degli anni ‘70, Savelli, Roma, 1976.

In particolare sulla la politica economica: Suzanne De Brunhoff, Stato e capitale, Feltrinelli, Milano, 1979; Peter Gourevitch, La politica in tempi difficili. Il governo delle grandi crisi economiche 1870-1980, Marsilio, Venezia 1991; a cura di Mario Telò, Crisi e piano. Le alternative degli anni Trenta, De Donato, Bari, 1979; Thomas Jean-Paul, Le politiche economiche del novecento, il Mulino, Bologna, 1998. Gian Enrico Rusconi, La crisi di Weimar. Crisi di sistema e sconfitta operaia, Einaudi, Torino, 1977; A. R. L. Gurland, O. Kirchheimer, H. Marcuse, Tecnologia e potere nelle società post-liberali, Napoli, 1981.

Rassegne sulle teorie marxiste della crisi: Elmar Altavater, «Il capitalismo si organizza: il dibattito marxista dalla guerra mondiale alla crisi del '29», in Storia del marxismo, volume terzo, I Dalla rivoluzione d'Ottobre alla crisi del '29, Einaudi, Torino, 1980; a cura di a cura di Lucio Colletti e Claudio Napoleoni, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, Laterza, Bari, 1970; F. R. Hansen, The breakdown of capitalism. A history of the idea in western marxism, 1883-1983, Routledge and Kegan Paul, London, 1985; M. C. Howard e J. E. King, A history of marxian economics, Mcmillan, London, 1992, un ottimo lavoro in due volumi; Bertrand Rosier, Teorie delle crisi economiche, Sansoni, 1989, agile e aggiornato.

Sul sistema monetario internazionale: Michel Aglietta, Il dollaro e dopo, Sansoni, Firenze 1988, tratta anche il gold standard; Marcello De Cecco, Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1880 al 1914, Einaudi, Torino, 1979; Barry Eichengreen, La globalizzazione del capitale. Una storia del sistema monetario internazionale, Baldini & Castoldi, Milano 1998; Charles Kindleberger, Storia della finanza nell’Europa occidentale, Cariplo-Laterza, 1987; Andrew Walter, Wordl power and wordl money. The role of hegemony and international monetary order, Harvester Wheatsheaf, Hemel Hempstead, 1993, oltre a trattare il gold standard e gli sviluppi più recenti critica il concetto di egemonia usato correntemente.

Sullo sviluppo del capitalismo nel secondo dopoguerra: Armstrong J., Glyn A., Harrison J., Capitalism since wordl war II, Fontana, London, 1984; Brenner Robert, Uneven development and the long downturn: the advanced capitalist economies from boom to stagnation, 1950-1998, in New Left Review n. I/229, maggio-giugno 1998; Michel Chossudovsky, La globalizzazione della povertà. L'impatto delle riforme del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1998; Andrew Glyn, «Stability, inegualitarianism and stagnation: an overview of the advanced capitalist countries in the 1980s», in G. A. Epstein, H. M. Gintis, Macroeconomic policy after the conservative era, Cambridge University Press, Cambridge 1995; a cura di S. A. Marglin, Juliet Schar, The Golden Age of Capitalism, Clarendon Press, Oxford, 1989; Riccardo Parboni, Il conflitto economico mondiale. Finanza e crisi internazionale, seconda ed. Etas 1985 e a cura dello stesso i saggi in Dinamiche della crisi mondiale, Editori Riuniti, Roma 1988; Lester C. Thurow, Il futuro del capitalismo. Regole, strategie e protagonisti dell’economia di domani, Arnoldo Mondadori, Milano, 1997.

In particolare sulla critica del concetto di globalizzazione: Paul Bairoch «Globalization myths and realities: one century of external trade and foreign investment», in Boyer Robert, Drache Daniel (a cura di), States against markets, Routledge, London and New York, 1996; Gupta Satya Dev (a cura di), The political economy of globalization, Kluwer Academic Publishers, 1997; Paul Hirst, Graham Thompson, La globalizzazione dell'economia, Editori Riuniti, Roma, 1997; Bellofiore Riccardo, «Le contraddizioni della globalizzazione. Una prospettiva marxiana», in Capitalismo e conoscenza, a cura di Lorenzo Cillario, Roberto Finelli, Manifestolibri, Roma, 1998.

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