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mercoledì 6 settembre 2017

LA LEGGE DEL PERDONO E LA LEGGE DELLA PIETA' di Teresio Spalla

 


LA LEGGE DEL PERDONO E LA LEGGE DELLA PIETA'
di Teresio Spalla


"Riina non deve morire in carcere ?" E altre osservazioni su come sia difficile per alcuni e facile per altri perdonare in Italia


 
Il testo di questo numero del mio Almanacco è un’elaborazione - completata il 2 agosto - di quanto già scritto tra il 5 e il 6 giugno quando giunse la notizia che il capomafia Salvatore Riina - forse il più pericoloso boss della mafia e colpevole di numerosi e gravissimi crimini, sulla persona e contro lo Stato, sui quali non tutto è stato ancora abbondantemente chiarito - per cause di salute era stato trasferito all’ospedale di Parma dove, pur sottoposto a rigorosa sorveglianza, può ricevere, oltre alle cure per le sue malattie, parenti e pacchi dono, vettovaglie e visite.

All’elaborazione si aggiunge però, oggi, una riflessione sulla “legge del perdono” che nell’Italia repubblicana ha una lunga tradizione che risale all’amnistia concessa ai fascisti fin dal ’46, alla tolleranza prima dell’esistenza “legittima” di un partito dichiaratamente neofascista e quindi della Lega, una formazione nata esplicitamente razzista ed oggi divenuta il nazifasciorazzismo del ventunesimo secolo.

Insomma, l’Italia non è solo il Paese degli omissis, dei politici colpevoli ma in piena libertà concessa da leggi formulate su loro stessa misura, della delinquenza organizzata tollerata come escrescenza violenta necessaria al sistema di potere, ma il Paese dove si è stabilita, da settant’anni, una “legge del perdono” non scritta ma tante volte ratificata che su di essa si potrebbe redarre un tomo di migliaia di pagine.

A tutto ciò, già nella forma in cui il mio testo su Riina avevo presentato ai lettori, si affianca, o forse si oppone, una “legge della pietà” che riguarda i diritti fondamentali del cittadini, la Costituzione e la “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”, sia nella forma nata con la Rivoluzione Francese nel 1789 sia nella “Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo” in cui sono confluiti tutti i principi della precedente ed adottata dalle Nazioni Unite nel 1948.
A ciò si aggiunga che l’Unione Europa, di cui facciamo parte, fin dalla sua nascita e prima di trasformarsi in un’organizzazione prevalentemente attenta a questioni finanziarie per lo più osteggiate dagli stessi cittadini italiani e non solo, ha adottato solennemente nel 2001 la “Carta dei diritti fondamentali” già emersa, durante il consiglio europeo di Colonia del 1999, come completamento di ciò che fu fissato duecentodieci anni prima dai padri rivoluzionari della libertà moderna.

In tutto questo si colloca l’intervento dello scrittore e docente Christian Raimo, un intellettuale che stimo molto per tante ragioni, il quale pose, riguardo al caso Riina, il problema di qualcosa che ho qui chiamato “legge della pietà” e si rifà appunto all’universalità, al diritto per tutti, di usufruire dei diritti fondamentali fissati da dalla “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”.
Durante il dibattito seguito in quei giorni di giugno, e i cui post ho voluto lasciare intatti, un solo parere concordò con quello di Christian Raimo : quello di un altro intellettuale, Gianni Priano, a cui va da tempo la mia più sincera e ammirata considerazione.

Poiché io non sono un esperto di mafia, non posseggo le dettagliatissime informazioni di cui si avvalgono Marco Travaglio o alcuni giuristi pronunciatisi sul caso Riina, ne ho mai pensato di volerlo diventare, non ho avuto intenzione, formulando la prima domanda “Riina deve rimanere in carcere ?” ( per altro sbeffeggiantemente superata dai fatti), di esprimere un’opinione solo sul caso di per se stesso ma sulle osservazioni formulate da Christian Raimo che pongono comunque, a qualsiasi cittadino per bene, una domanda rivolta non al proprio atteggiamento sul criminale Riina ma alla propria coscienza di democratico e sostenitore dei diritti inalienabili per gli altri, per se stesso, per tutti.

Riprendiamo quindi dalla notizia che a Riina era stato “sospeso” il regime fissato dal 41bis.

In realtà, come poi si capì nel avvicendarsi di notizie uscite disordinatamente dalla stampa e dal web, Riina si trovava già da tempo nell’ospedale di Parma e, giustamente, nel suo fondo su “Il Fatto” del 6 giugno, Marco Travaglio metteva in luce, con chiarezza assoluta, come ciò fosse ineluttabilmente sia un “premio” che qualcuno, in ambito politico e governativo, ha voluto concedere al tremendo personaggio o, comunque, sia un modo per toglierlo dal già più volte evaso severo regime ergastolano del 41bis, vissuto in maniera che gli fosse più facile lanciare messaggi ad amici e nemici, ordini agli accogliti, comunicazioni ai suoi sottoposti ed eredi nella dominanza della criminalità organizzata.

A ciò s’aggiunga che Riina, durante la reclusione che non avrebbe dovuto essere intaccata nemmeno per un attimo, aveva già ottenuto, più volte, piccole e grandi “evasioni” tramite concessioni a lui stesso, parenti e amici, che, dopo il contatto con lui, avrebbero emanato ordini e disposizioni di comportamento criminale alla cosca di cui è ancora il capo riconosciuto e ai tanti che, in mondi ben meno nascosti e taciti, potessero raccogliere i ricatti e gli avvertimenti di chi li tiene tuttora in pugno in un modo in un altro.

In quel frangente uscirono articoli e furono trasmessi programmi tv che toccarono il grottesco.

Il suo legale Cianferoni affermava sull’ “Huffington Post” : “Riina è sottoposto al 41bis ma da due anni (!!!! ndr) non è in carcere perché non ci può stare.
In carcere non ci può stare perché il carcere non può tenere un detenuto come Riina (!!! ndr).
Riina sta terminando i suoi giorni ed è curato dai medici.
Sono certo che la struttura più adeguata gli allungherebbe di un po' la vita.
Il signor Riina ha più di una patologia, che vengono trattate sia chirurgicamente che farmacologicamente.
Sta male da anni.
Tanto le vittime non le riporta in vita nessuna galera.
Uno Stato non ha bisogno di far morire in carcere un povero anziano (!!! ndr).
Il problema di questo Stato sapete qual è ? E’ che se ha bisogno di accanirsi così un vecchio malato ha problemi di crescita (!!! ndr) “.

Contemporaneamente, con un meno rozzo uso della lingua, aggiunge invece il procuratore generale antimafia Franco Roberti sul “Corriere della Sera” :
“ Riina deve continuare a stare in carcere e soprattutto rimanere in regime di 41 bis.
L’aspetto medico è stato valutato e scartato poiché gli stessi giudici di Cassazione confermano che la sentenza del tribunale di Bologna – che rigettava l’istanza sull’incompatibilità della reclusione con lo stato di salute - ha una motivazione insufficiente e contradditoria. Quindi l’ospedale del carcere basterà ad ovviare le sue necessità mediche.
Sono fiducioso che la sentenza apposita del tribunale di Bologna ribadirà le nostre ragioni che vogliono rimanga al 41 bis”.

E sempre Roberti rispondeva alla giornalista Fiorenza Sarzanini che gli chiedeva : “E’ sicuro che otterrete nuovamente ragione?” :
«Si tratta di un annullamento con rinvio, il Tribunale dovrà integrare la motivazione sui punti indicati dalla Cassazione e sono certo che a quel punto reggerà l’intero impianto.
Questa decisione non mi preoccupa. Sono tranquillo, fiducioso, che alla fine il Tribunale di Bologna ribadirà le nostre ragioni".

Era tanto tranquillo che Riina, non si capisce bene se col suo avvallo o no, era all’ospedale di Parma e, passati i clamori nel dimenticatoio appropriato ai mezzi di comunicazione di massa di questo vergognoso Paese, c’è ancora e, molto probabilmente, se ne ride di chi s’è preoccupato per la sua degenza.

Secondo me il più acuto parere sulla questione, oltre che da Travaglio, è stato dato dall’ex giudice di Cassazione Antonio Esposito che, su “Il Fatto” del 20 giugno, esplicita una dilungata esplorazione delle sentenze su Riina, affermando nel titolo “La mia corte ha sbagliato tutto”.

Sarebbe ora forse uggioso per i lettori se riprendessi tutto quanto scrive il magistrato.
Mi limito a ricordare questo periodo : “…dalle ‘relazioni sanitarie’ non emergeva che le pur gravi condizioni di salute fossero tali da rendere inefficace qualunque tipo di cure ed emergeva la trattabilità delle patologie del detenuto pur in ambiente carcerario anche in considerazione del continuo monitoraggio delle fisiologie cardiache di cui il detenuto era affetto e come episodi di aggravamento fossero stati adeguatamente fronteggiati con tempestivi interventi”.
Questo secondo il Tribunale il quale, inoltre, dichiarava “era da escludere il superamento dei limiti inerenti al rispetto del senso di umanità, attesa l’idoneità della struttura penitenziaria ad apprestare interventi urgenti….”

Abbiamo così saputo che, stando alle lastre, Riina ha un cuore.

Non si direbbe da questo racconto, fatto da lui stesso in sede di processo, nell’udienza del 28 luglio 1998.
"Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro.
Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo.
Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra.
Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia ndr) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva.
Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ (…).
Il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà.
Il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito.
Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi. (…).
Io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello ce abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino.
Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino.
Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. (…).
Io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro.
Poi siamo andati tutti a dormire..”

Su questa dichiarazione cosa c’è da dire di più che essa stessa non esprima?
Che è ributtante che una belva del genere non solo sia stato e sia il padrone di gran parte della Sicilia, una regione della Repubblica italiana, ma sia anche soggetto di trattative, ricatti, discussioni a nome della mafia con personalità di ieri e di oggi che hanno rappresentato e ancora rappresentano lo Stato deteriorato (o, se volete usare un termine che approvo incondizionatamente il “doppio Stato”) e il parlamento marcescente rappresentato, in questi ultimi quarant’anni, quasi sempre da governi altrettanto depravati o incapaci d’altro se non di ubbidire a quell’insaziabile sistema economico che ci ha costretti all’attuale situazione di depressione economica e recessione morale.

Eppure Christian Raimo non si è fatto vincere dall’emozione giustizialista e ha posto un problema, ripeto, che è soprattutto di coscienza.
E il fatto che l’abbia espresso lui, un intellettuale della sua levatura, mi spinge ad ascoltarlo.

Scrive assennatamente Christian Raimo : “Sembra una provocazione ma non lo è.
Totò Riina ha gli stessi diritti di Stefano Cucchi o di Federico Aldrovandi, o di Eluana Englaro o dj Fabo, o dei massacrati di botte alla Diaz o dei migranti che naufragano al largo della Sicilia.
Ossia il dovere da parte dello stato di tutelare il corpo di una persona qualunque nei momenti in cui può trovarsi a decidere su di esso, cercando di preservare la massima dignità possibile.
Per questo combattiamo le nostre battaglie a Genova, o contro gli abusi della polizia, o per una legge sul fine vita, e persino quella contro la mafia. Per la dignità della vita umana.
Se perdiamo questa, del resto non sappiamo che farcene.”

E aggiunge
“Piccolo vademecum per le discussioni sulla giustizia penale:
01. Se io sto difendendo i diritti del peggiore e più feroce dei criminali, io non sto in nessun modo difendendo quel criminale, ma sto difendendo un principio.
02. Se uno dice "Io sono garantista ma in questo caso no", non è garantista. Il garantismo o è universale o non è garantismo.
03. Se uno dice che un criminale terribile ha rinunciato ai propri diritti con le sue azioni feroci, non è vero, perché ci sono dei diritti che si dicono inalienabili proprio perché non vi si può rinunciare.
04. A chi dice che bisogna pensare al dolore delle vittime nel caso si discuta di tutele dei diritti dei carnefici, si può controbattere che il dolore delle vittime non può essere lenito dalla negazione di un diritto fondamentale a un'altra persona (che può essere l'assassino di loro padre o di loro figlio), altrimenti non mi sto occupando del loro dolore, ma di qualcosa che non ha a che fare con la giustizia, ma con il senso di vendetta.
05. A quelli che dicono "io mi immedesimo in chi ha subito una certa violenza x", è facile rispondere che immedesimarsi è molto complicato, spesso non serve a una buona comprensione della questione, e soprattutto non è utile ai fini di una giustizia equa.
06. Tutelare i diritti di qualcuno di particolarmente cattivo non vuol dire rendere meno importante la tutela dei diritti di qualcun altro - una persona buona, o una vittima di ingiustizia. Anzi.
07. Morire in carcere non è dignitoso”.

Ma io dico :
Teoricamente sono d'accordo con Christian Raimo quasi tutto.
In un mondo perfetto anche Riina ha gli stessi diritti di me, di te, di lui e di lei, di ciascuno.

Ma leggo un articolo di Travaglio, più pragmatico di me, e il giornalista, assai esperto nella materia giudiziaria e sulla mafia, ci fa notare che i mafiosi che non vogliono morire in carcere spesso mentono e spesso si servono della scarcerazione, anche nel loro ultimo anelito di vita, per inviare messaggi ad altri come loro ma perfettamente in salute.

Nel caso dei mafiosi al 41bis, che detengono ancora segreti che riveleranno soltanto quando ci sarà una classe politica in grado di ascoltarli senza subire ricatti e paure, Riina, uscito dalla pena massima, lancia loro un messaggio che raccolgono altri mafiosi carcerati di cui è inutile qui fare l'elenco dei nomi.
E, con questa “liberazione”, altri messaggi vengono scambiati tra forze oscure di cui il cittadino subisce il potere senza neanche sapere chi siano e dove siano.

Non viviamo in un mondo perfetto, viviamo in un mondo corrotto e coinvolto in una crisi morale, sociale, economica, talmente profonda che persone ben meno agili di mente di Riina possono, per i loro luridi interessi, influenzare l'esistenza di tutti.
Perciò, pur non avendo mai condiviso la passione per la galera e le pene vendicative della destra, io, persona di Sinistra e incline alla pietà dello spirito, persona a cui non hanno parlato invano le parole di Christian Raimo, penso che fare uscire il tragico capomafia sia sbagliato.

E non penso nemmeno sia disonorevole, per la società in cui viviamo non quella in cui vorremmo vivere, morire in carcere per chi ha fatto patire tante sofferenze agli altri e ha contribuito violentemente alla deflagrazione etica del nostro Paese, all'inconsapevolezza irosa della nostra gioventù allo sbando.

Le carceri di massima sicurezza non sono le galere dei Borboni napoletani o lo Spielberg di Silvio Pellico.
Un letto con le lenzuola pulite, infermieri e dottori non gli mancheranno. Non gli mancheranno farmaci perché non crepi nella più dolorosa agonia.

In ben peggiori situazioni carcerarie e sotto tortura, in condizioni ben peggiori, sono morti tanti eroi della Libertà, per l'Eguaglianza e la Fraternità.
Per non parlare dei detenuti comuni, imputati di cose della minima importanza in confronto ai delitti progettati e realizzati da Riina, che muoiono per le condizioni vergognose di altre galere italiane molto meno accoglienti e ben più discutibili che l’associazione Antigone (di cui non condivido soltanto la campagna per l’abolizione dell’ergastolo) ci mostra dal 1992.

Può ben finire al 41bis la vita sciagurata di un delinquente che umanamente ha l'intelligenza e la sensibilità di una pantegana predatrice di cui purtroppo sono zeppi certi fiumi metropolitani.
E sto dicendo di un animale tutt'altro che privo di senno, tant'è che programma la sua riproduzione e il corso dell'esistenza in base al cibo di cui può nutrirsi la sua tribù.

Scrisse il poeta Esenin : "Come scheletri si alzano le betulle/E allo stesso modo finiremo anche noi/ Ma poiché non spunta fiore/nel mezzo dell'inverno/inutile è il perdono".

Inutile è il perdono ?
In realtà Christian Raimo e Gianni Priano non ci propongono il perdono di Riina ma il rispetto dei suoi diritti civili.
In essi, anche nei confronti dell’efferato delinquente, scatta il rispetto dei valori umani e lo spirito di pietà.

No. Non è inutile il perdono se esso è una questione interiore, che coinvolge primariamente il nostro stato d’animo, che si determina grazie al sentimento civico della pietà.

Ma come possiamo noi, proprio noi che dei diritti dell’uomo vogliamo l’applicazione incondizionata, perdonare chi li mette in costante stato di sospensione ?

Il problema, dal mio punto di vista, non va visto come una “vendetta dello Stato”, qualcosa che piace molto alla destra ma anche alla finta Sinistra che è stata rappresentata, negli anni, dall’ala “migliorista” del Pci e dalla trasformazione del Psi nella cosca craxiana, e che, guarda un po’, non è mai nei confronti dei migranti, in questi ultimi mesi cacciati, a Ventimiglia e dintorni, come degli schiavi in fuga nell’Alabama del 1850.

Lo Stato non si “vendica”. Lo Stato esegue delle leggi. E basta.

Ma quale Stato ? C’è in Italia, in questo momento, uno Stato di cui possano fidarsi i cittadini più deboli, gli essere umani che giungono da qualsiasi situazione li spinga all’emigrazione ?
Non c’è.

E questo è il vero problema che contempla sia la posizione di coscienza che la posizione politica le quali, mai come in questo caso, dovrebbero essere disgiunte, proprio perché ormai tra coscienza civile e politica si è formato un abisso che dura da quarantanni.

Eppure io non credo che la “legge del perdono” avrebbe trovato tanta applicazione negli anni Ottanta e Novanta, per poi allargarsi ancora nel decennio successivo e fino ad oggi, se non fossero state poste delle premesse che, nei primi anni dell’Italia liberata dal nazifascismo, segnarono la sua Storia in senso antidemocratico.

Si cominciò con l’ “amnistia Togliatti” che, in nome della “pace sociale”, concesse il perdono per i reati politici e comuni, compresi quelli di collaborazionismo con il nemico e annessi, ivi compreso il concorso in omicidio; quindi i reati politici commessi fino al 18 giugno 1946 stesso, giorno in cui tale provvedimento fu votato pur tra le proteste vivacissime del partito socialista, azionista, di molti leader comunisti, delle associazioni partigiane, persino di alcuni dirigenti democristiani.

E, per la prima volta nella storia della nuova Italia, quando nel Monferrato il dissenso si tramutò in scioperi e rivolte, arrivarono la polizia e i carabinieri e anche l’esercito, pronti a scatenare un altro bagno di sangue che non si verificò solo per la rapida e dolorosa mediazione del grande sindacalista De Vittorio.

Intanto l’ “amnistia Togliatti” impedì l’epurazione dei fascisti dalla magistratura, dagli ordinamenti dello Stato, dall’esercito, dalla pubblica sicurezza.

Non è vero, come è stato detto e ripetuto, che fu frutto di una deliberazione consensuale dei partiti del governo e del Comitato di Liberazione Nazionale.
Fu una decisione presa in esclusiva da Togliatti, allora capo del Pci, il quale, per essere sicuro di ottenere i voti necessari al comitato centrale, ne fece leggere una copia diversa e attenuata a Secchia, Longo, Terracini e Di Vittorio, che non avrebbero altrimenti mai accettato.

Come fece poi rilevare Lelio Basso, la “pacificazione nazionale” poteva avere un senso se una parte del popolo italiano avesse dovuto temere la rappresaglia armata della parte vincente per quanto, nell’immediato dopoguerra, si verificano alcuni sporadici episodi che il revisionismo degli anni Ottanta-Novanta amplificò ammantandoli di furibonda enfasi vendicativa.

Ma ciò era impossibile in un Paese in cui, dopo vent’anni di dittatura e venti mesi di guerra civile, era davvero impossibile varare una sollecita opera di pulizia di una popolazione tra la quale era assai difficile giudicare chi avesse subito e chi avesse sostenuto il regime.

Semmai si trattava di epurare lo Stato da tutti coloro che il fascismo lo avevano rappresentato apertamente e che era necessario sostituire con elementi di essenziale fede democratica.
In questo senso, secondo Basso, gli uomini usciti dalla Resistenza e i rappresentanti dell’antifascismo indomito fin dagli anni Venti rappresentavano la nuova classe dirigente non solo sui banchi parlamentari.

Era poi, concludeva ancora Basso, altrettanto necessario che fossero epurati gli industriali e i proprietari terrieri che s’erano serviti del fascismo per arricchirsi a spese dello Stato stesso, privando dei più comuni diritti i lavoratori dipendenti.

Solo un’epurazione di questo genere, senza sconvolgere la “pace sociale”, secondo il leader socialista, sarebbe stato possibile.
Ciò avrebbe permesso che la Sinistra non emergesse cercando di impedire e ostacolare i poteri dello Stato ma, al contrario, si facesse strada con la partecipazione democratica di tutti i cittadini alla vita di esso.

Quello proposto da Basso era anch’esso, in fondo, un compromesso con il rigore dell’antifascismo. Speranze di chi aveva resisto, lottato e vinto in un'epoca di nuove e numerose aspettative.
Ma non era il perdono, non era assolutamente il perdono concesso in toto allo Stato fascista.

Però l’amnistia ci fu, la “legge del perdono” fu applicata, e ciò ben si vide nelle lotte sociali che seguirono in cui la polizia fu riorganizzata per sedare scioperi e manifestazioni, la magistratura per condannare, la burocrazia per notificare.

Ciò ben si vide ancor prima della nascita della Repubblica.
Umberto di Savoia, ancora luogotenente del Regno, pensò bene, in previsione del referendum che lo condusse in esilio, di emanare un decreto che estese i termini dell’ “amnistia Togliatti” al 31 luglio 1946.
Tale decreto luogotenenziale, discusso animatamente in parlamento e nelle piazze, fu applicato dalle camere della Repubblica nata il 2 giugno 1946 a partire dal settembre dello stesso anno.

Il 7 febbraio 1948, il quarto governo De Gasperi varò un altro decreto, proposto dal sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri Giulio Andreotti, con cui si estinguevano i giudizi ancora pendenti dopo l’amnistia del 1946.

E, poco prima delle elezioni del 1953, ancora Andreotti, ancora sottosegretario del settimo e ultimo governo De Gasperi, si recò ad Arcinazzo, buen retiro del Maresciallo Graziani, ad abbracciare l’ex comandante in capo dell’esercito di Salò e gassatore di etiopi, che un atto ufficiale del governo inglese del ’44 ancora ci richiede come criminale di guerra internazionale.

Con quell’atto, pur mal digerito dai dirigenti cattolici provenienti dalla Resistenza, Andreotti sanciva l’inizio del suo potere personale nell’Italia centrale e la base di tutti gli intrighi e di tutte le lotte di potere di cui è stato protagonista questo discusso personaggio a cui si continuano a perdonare i legami con la malavita organizzata del Sud e con la mafia, legami per i quali è stato sottoposto a giudizio, a Palermo, per “associazione per delinquere”.

Mentre la sentenza di primo grado, emessa nel 1999, lo assolse; la sentenza di appello, emessa nel 2003, distinguendo il giudizio tra i fatti fino al 1980 e quelli successivi, stabilì che Andreotti aveva “commesso il reato di partecipazione all'associazione per delinquere con Cosa Nostra concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980”, reato però ”estinto per prescrizione”.
E per i fatti seguenti alla primavera del 1980 fu invece “assolto per insufficienza di prove”.

Ciò ci riporta da dove abbiamo cominciato.
Poiché nella sentenza della Corte di Appello del maggio 2003 descrive, in definitiva, una “autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980” .

E, interrogato dalla procura di Palermo il 19 maggio 1993, il sovraintendente capo della polizia Francesco Stramandino, dichiarò di aver assistito il 19 agosto 1985, in qualità di responsabile della sicurezza dell'allora ministro degli esteri, ad un incontro tra lo stesso Andreotti e quello che solo successivamente sarà identificato come il boss Andrea Manciaracina, all'epoca "sorvegliato speciale" e uomo di fiducia di Antonio Riina detto Totò.

Lo stesso Andreotti ammise in aula l'incontro con Manciaracina, spiegando che il colloquio ebbe a che fare con problemi relativi alla legislazione sulla pesca (!) nella regione Sicilia.

Tornando al ’53, il primo governo di Giuseppe Pella, esponente della destra democristiana succeduto a De Gasperi, approvò, a settembre, ad elezioni vinte, un’altra amnistia che assolveva tutti i reati politici commessi dal 18 giugno 1940 sino alla stesso giorno del 1948.

La quarta amnistia fu quella varata dal terzo governo Moro, che per questa cadde dopo venti giorni, il 4 giugno 1966, imponendo la depenalizzazione dei reati sino al 1960.

Eppure, sia negli anni del “centrismo” sia in quelli del primo “centro-sinistra”, lo Stato italiano riuscì egualmente, nonostante le lotte dentro i suoi stessi gangli tra libertà e autoritarismo, a mantenere il Paese in un regime sufficientemente democratico dove, ufficialmente, il fascismo fu sempre condannato, anche in base alla “legge 20 giugno 1952, n. 645” (Legge Scelba) che realizzava l’attuazione della “XII° disposizione transitoria e finale” della Costituzione italiana che introdusse il reato di apologia del fascismo e il divieto di ricostituzione del partito fascista.
Questo si realizzò in special modo con il mantenere il Movimento Sociale Italiano fuori dall’ “Arco Costituzionale” e quindi da gran parte dei potere derivati dalla gestione dello Stato da parte dei partiti.

Ciò nonostante il Movimento Sociale Italiano, fondato quasi clandestinamente nel dicembre 1946 da reduci di Salò e finanziato sotto banco da industriali e latifondisti, ebbe il suo battesimo elettorale nelle elezioni locali del ’47.
E, nelle elezioni del ’48, pur conseguendo solo il 2% dei voti per la Camera e l’O,89% dei voti per il Senato, ottenne sei deputati e un senatore.

Quel partito, dichiaratamente fascista, non solo fu così toccato dalla “legge del perdono” ma si apprestava a farne uso in misura sempre maggiore quando i suoi voti furono necessari per l’elezione, nel '60, del governo Tambroni (vedi “Almanacco n°047) e per l’elezione dei presidenti della Repubblica Segni e Leone.

Implicato da una parte nel terrorismo di destra fin dagli anni Cinquanta, negli scontri con operai e studenti durante tutto il periodo dal 1959 all'89, a capo di confuse rivolte popolaresche come quella di Reggio Calabria ('70) - legato da stretti rapporti alla dittatura fascista spagnola, greca e a quelle sudamericane - si fuse nel ’73 con il Pdum, il partito dei nostalgici della monarchia, assorbendo così tutti i cospicui suffragi di Achille Lauro, il colorito e discusso sindaco e padrone di Napoli.

Come attestò la sua la partecipazione al referendum sul divorzio (‘74) in chiave dichiaratamente politica, divenne, già dalle elezioni del maggio ‘72, il 4°partito italiano per numero di elettori.

Giorgio Almirante, ex fucilatore di partigiani e capo dell’ala estrema della formazione finché non ne divenne segretario dal ’69, appena eletto cambiò tattica e, inaugurando la “politica del doppiopetto”, accolse alcuni personaggi della destra che non provenivano direttamentedal fascismo, in nome di un anticomunismo accecante e di un graduale inserimento ufficiale nello Stato a cui si prestarono i giochi finanziari di Gastone Nencioni, l’uomo del Msi nelle trattative con le grandi società quotate in borsa.

Tutto ciò gli diede modo di creare il Movimento Sociale Italiano/Destra Nazionale che, apparendo meno compromesso con il passato mussoliniano a chi non interessava vedere, raccolse molti consensi tra la più gretta piccola borghesia del Nord e la rabbia sottoproletaria del Sud.

Benché il comportamento di Almirante come segretario sia sempre stato duplice (da una parte l’uomo dell’ordine e della presunta legalità e dall’altra sostenitore dei gruppi estremisti armati che organizzarono più di una strage e una vasta rete di omicidi lungo tutti gli anni Settanta) la sua posizione parafascista e fascista fu sempre chiara a tutti.

Ma nessun partito ne volle mai ufficialmente la sparizione se non le organizzazioni della Sinistra antagonista che tentarono, nel ’75, di raccogliere le firme per un referendum che certamente si sarebbe concluso con la realizzazione dello slogan “Msi fuorilegge”.

Non ci sarebbe stato bisogno di alcun referendum se non ci fosse stata, trent’anni prima, l’”amnistia Togliatti”.
E ancora una volta, per mera tattica politica, il Pci schierò i suoi attivisti più accesi ad ostacolare, anche con la violenza, il progredire della raccolta di consensi.
Il Comitato Centrale diramò anche un ordine del giorno che vincolava i segretari di federazione, sezione e cellula, a sorvegliare gli iscritti che avessero intenzione di aderire all’iniziativa.

Non è questa la sede per rievocare le ragioni che spinsero gli altri gradi del partito a compiere quegli atti.
Ma è questa la sede per far notare come, dopo il fallimento della campagna per il “Msi fuorilegge”, la stessa Dc si sentì così minacciata dal crescere di adesioni alla destra fascista da provocarne una scissione di più della metà dei deputati e senatori che diedero vita alla breve esistenza di Democrazia Nazionale.
Breve esistenza perché, pur avendo perso i suoi uomini più autorevoli e i suoi rappresentanti più votati, il Msi/Dn, alle elezioni del ’78, ricompose i quadri e rimase il quarto partito della Repubblica, mentre gli scissionisti raccolsero pochissimi consensi e finirono così nelle correnti dorotea e andreottiana della Dc a stabilizzare ancor di più la matrice democratica del movimento cattolico.

Tutto questo condusse facilmente, negli anni turbolenti tra la metà dei Settanta e i primi anni Ottanta, il Msi/Dn ad essere perdonato di ogni suo comportamento tanto che i fascisti trovarono, già nel 1983, un’aggregazione con il partito di Bettino Craxi, il cinghiale mannaro che aveva trasformato il Psi in un feudo personale di ladri e tangentari, piduisti e corrotti.

La Destra Nazionale, il partito dell’ordine e della legalità, votò a favore della conversione in legge del decreto di liberalizzazione del mercato televisivo con cui si ratificò il dominio nell’etere privatizzato di Silvio Berlusconi.
Il governo Craxi (1983-86), che di Berlusconi era amico e complice, fu così il primo ad accogliere come presidente di una giunta della Camera un fascista, nonché a ricevere gli alabardieri di Almirante e il segretario stesso nelle consultazioni per la formazione del governo.

Dai legami tra Craxi e Almirante non è difficile discendere al più recente sdoganamento totale della destra fascista da parte di Berlusconi disceso in politica.
Dai legami tra Berlusconi e la mafia non è difficile discendere all’importanza che le associazioni a delinquere cominciarono ad avere all’interno di quasi tutti i partiti politici negli anni della Seconda Repubblica.

Certamente il berlusconismo è nato ben prima che Berlusconi scendesse in campo e la sua disgraziata gestione dello Stato divenisse proverbiale in tutto il mondo.
Si può anzi dire senza tema che il berlusconismo è nato con il craxismo.
Entrambi i compari ebbero nella “legge del perdono” la loro principale ragione di esistenza politica.
Tanto che si può dire che la Seconda Repubblica non nacque da Tangentopoli ma, sedici anni prima, dal congresso del Midas.

Entrambi, in veste di presidente del consiglio, hanno perdonato il fascismo, lo hanno accolto tra i loro e emendato di tutte le sue colpe.
Entrambi, in veste di presidente del consiglio, hanno perdonato la mafia, l’hanno accolta tra i loro e emendata di tutte le sue colpe nascondendone i reati finché è stato possibile.
Entrambi, in veste di presidente del consiglio, hanno usato i mezzi di comunicazione di massa per manipolare le menti del popolo italiano ai loro fini e ai fini dei loro compari.
Entrambi, in veste di presidente del consiglio, hanno subito denunce, processi, condanne di ogni tipo e se la sono cavata, a modo loro.

Per quanto concerne la mafia, e qui il cerchio si chiude, è difficile dire se si sia di più essa servita della parte ormai marcia dello Stato o se quella parte marcia si sia servita della mafia e delle altre associazioni criminali che, da tempo immemorabile, tengono in pugno cinque regioni italiane.

Sia come sia Berlusconi è ancora qui a far da ago della bilancia nella lotta politica degradata di una classe politica deflagrata grazie a lui.

Sia come sia, Craxi, benché sia fuggito in Tunisia in seguito a tre condanne penali e si sia lasciato alle spalle circa dodici processi, è ancora considerato un mito non solo da coloro che ha beneficato a destra ma anche da taluni che si ritengono tuttora “socialisti" ma che tali non sono.

Un mito che ha trasformato un latitante fino alla morte ingloriosa nel simbolo di qualcosa che alla mente di un socialista autentico sfugge per ritrosia e naturale avversione.

E’ un mito che comunque esiste, e si basa sul perdono che le istituzioni gli hanno concesso, sul fatto che anche eminenti storici e docenti, che per amore di cattedra e di immagine sentenziano in tv sul passato recente (che poi è il presente), ne esaminano le azioni (già di per se stesso deplorevoli) come se l’aspetto giudiziario non contasse nella gestione del potere di un uomo politico.

Il cinghiale mannaro di Hammamet, come il peccatore indefesso di Arcore, sono simboli che stimolano apprezzamento e stima nella gente che ormai è avviata verso un nuovo fascismo collettivo che non è solo gestito dalla Lega e ha nel razzismo più profondo la sua radice più odiosa e più diffusa.

Il popolo italiano non sopporta le tasse esose e le ingiustizie del potere, la mancanza di diritti che fino a pochi anni fa si davano per acquisiti e la speranza in un futuro migliore, la mancanza di uno Stato efficiente e di strutture solide di sostegno a chi più ha bisogno.
Ma ha imparato a rivolgere verso i migranti la sua rabbia e a sopportare che ai due di cui sopra si siano sostituite figure più anonime come Renzi e Gentiloni ai quali non viene più imputata direttamente la responsabilità che su di loro dovrebbe gravare.

Se si continuerà così, domani il popolo italiano sopporterà chiunque li sostituirà tranne una Sinistra forte, emancipata dalle timidezze di questi ultimi decenni, capace di contestare e combattere il sistema fino a governarne un altro più giusto e più solidale.

Forse questa è una visione che molti considereranno eccessiva, troppo negativa.
Beh, se sono ancora qui a scrivere quello che scrivo mi pare chiaro che un po’ di speranza me la sono riservata anche per me.

Ma se siamo indulgenti, se siamo distratti, se siamo flessibili e accondiscendenti, prima o poi, più prima che poi, a noi nessuno perdonerà più niente e i ladri e i corrotti, gli ipocriti e i razzisti, ci sconfiggeranno per sempre.

La pietà è insita nell’animo di ogni persona per bene.
I nostri nemici non ne hanno e non ne avranno.
Come fece Riina col bambino, dissolveranno nell'acido le nostre ultime ragioni di lotta.

E quella che si combatterà tra non molto in Italia non sarà una diatriba filosofica ma una guerra contro chi è stato indulgente e gentile.

Contro i migranti la stanno già combattendo con la violenza.
Presto, se non li difenderemo con le loro stesse armi, rivolgeranno manganelli e canne di pistola contro di noi.

E, se chi legge non sopporta, come me, che questo continui ad accadere, sulla pelle di un italiano come di un esule di qualsiasi paese, si deve mettere in testa come, se ci vogliono riportare a prima della presa della Bastiglia, noi dovremo essere pronti a riprendercela.

Chiedetemi come.
Non chiedetemi con chi.
In quest'afosa estate la Sinistra fuori dal Pd (come se il Pd fosse ancora un partito di Sinistra, ahhh) è impegnata in una discussione un pò esaltante e un pò depressiva su quale unità, quale forma di unità, essa dovrebbe avere.

Eppure la risposta onesta dovrebbe essere semplice e chiara.
E' proprio vero che è "la semplicità difficile a farsi".

Circa questo epilogo del n°050 dell'Almanacco, solo un’ultima cosa posso dire :
che se non ci sbrighiamo ci toglieranno anche la pietà che pensate non possa essere strappata dai nostri cuori.

Riusciranno anche a farci questo ?
Domandatevelo.

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Nella foto : un'immagine di "La lunga notte del '43" ('60) di Florestano Vancini, scritto da De Concini, Pier Paolo Pasolini e il regista; con Gabriele Ferzetti, Belinda Lee, Enrico Maria Salerno, Gino Cervi e Andrea Checchi.
Tratto dal racconto "Una notte del '43", inserito nel volume "Cinque storie ferraresi" (1°edizione, Einaudi 1956 - ultima, Feltrinelli 2012) di Giorgio Bassani, racconta un episodio cruento del fascismo al suo ultimo rigurgito. Qualcuno vede tutto dalla sua finestra ma non dirà mai la verità.
Così il colpevole verrà assolto, perdonato, riaccolto.
Così, quando il figlio di una delle vittime trucidate in quella notte del '43, tornerà a Ferrara ignaro e ormai indifferente, e lo incontrerà, stringerà la mano all'assassino di suo padre.
Se c'è un film che racconta perfettamente la "legge del perdono" nelle tacite vene degli italiani è questo che, tra l'altro, è anche una delle migliori opere di un cinema impegnato ed amato dal pubblico di cui, nell'Italia infamata di oggi, s'è persa la radice.



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