CATALOGNA:
CLASSI, EGEMONIA E INDIPENDENTISMO CATALANO
di Marc Casanovas e Brais Fernández
Con questo testo intendiamo partecipare alla discussione strategica apertasi nelle sinistre sul referendum catalano dell’1 Ottobre, ma che riteniamo vada anche oltre. Non ci soffermeremo sulla storia della formazione del processo indipendentista catalano, ma ci limiteremo a proporre una caratterizzazione di questo cosiddetto “processo” e a cercare di fornire argomenti sulle ragioni per cui le sinistre non indipendentiste dovrebbero impegnarsi attivamente per far sì che questa scadenza diventi un momento di rottura.
Uno degli argomenti tipici del “senso comune” della sinistra tradizionale per non sostenere il movimento catalano del 1° ottobre è che il processo è guidato dalla borghesia. Detto in questi termini, si tratta di un’affermazione semplicemente falsa che può basarsi soltanto su due fraintendimenti, uno malevolo e l’altro semplicemente frutto di ignoranza, o di un uso distorto di categorie così assurdo da invalidarsi da solo. L’erroneità di questo argomento è verificabile empiricamente.
La grande borghesia catalana si è espressa a più riprese contro questo movimento, giudicandolo irresponsabile e creatore di instabilità per i propri affari, come può verificare chiunque si scomodi a ricercare in Google le dichiarazioni di Foment del Treball (l’associazione padronale catalana). L’ignoranza entra in questione quando si tratta di definire il significato di borghesia, un concetto che la sinistra spagnola ha utilizzato solo nell’ultimo quarantennio per riferirsi alla Catalogna o, nel caso del PCE (Partito comunista spagnolo), per giustificare la propria politica di alleanza con la borghesia “progressista e nazionale” (sic) che rappresentava Suárez nel 1978.
“Borghesia” è un concetto dell’economia classica ripreso dal marxismo, che definisce la classe dominante in rapporto alla proprietà privata dei mezzi di produzione. Come già detto sopra, le élites di questo strato sociale sono ostili al “processo”: Foro Puenté Aéreo, Foment del Treball, l’elitario Circulo Ecuestre, il Circulo de Economía, o la Commissione Trilaterale internazionale hanno reiteratamente espresso la loro opposizione all’indipendenza, come anche Manuel Lara (del gruppo editoriale Planeta), Isidre Fainé (CaixaBank), Josep Luís Bonet (dell’impresa vinicola Freixenet) o Josep Oliu (Banco Sabadell), anche se qualche settore della Foment del Traball ha invece fornito all’indipendentismo il proprio sostegno, prima dei fatti recenti, nella speranza di migliorare la propria posizione e le proprie prebende rispetto alla borghesia del resto dello Stato e internazionalmente. Anche di fronte alla dinamica di mobilitazione il processo ha via via incontrato l’avallo dell’imprenditoria delle piccole e medie aziende organizzate in enti come la PIMEC, la Cecot, o la Camera di Commercio. In nessun caso, comunque, esse hanno sospinto il processo, ma semplicemente, fedeli al proprio pragmatismo, hanno cominciato a riposizionare i loro interessi a seconda dell’avanzare di questo. Come aveva dichiarato Artur Mas (Presidente fino al 2016 della Generalitat de Catalunya) davanti al Collegio di economisti della Catalogna prima del 9 novembre [2016]: «I gruppi dirigenti del paese non devono cambiare la storia, ma occorre invece incanalare questo movimento di base. Non si tratta né di frenare né di bloccare, ma di fare in modo che vada a finire bene».
Far sì che le cose non vadano a “finire bene” per questi settori della classe dominante, incidere sulle loro contraddizioni e cercare di fare in modo che non si riesca ad “incanalare” la crisi di regime, per chiuderla dall’alto con un nuovo patto e con la distribuzione della torta tra privilegiati, è il primo compito di qualunque organizzazione o spazio che aspiri al cambiamento politico e sociale.
Starsene lì a guardare dalla finestra, ad aspettare che si esaurisca il maggior movimento di massa che ci sia in questo momento in tutta la Spagna con la scusa che settori della borghesia catalana vorrebbero “incanalarlo” secondo i propri interessi, non è l’alternativa. Al contrario, è proprio per questo che bisogna appoggiare il movimento e contenderne la direzione politica, attivandone e organizzandone i settori più popolari. Nel contesto dell’applicazione “di fatto” dell’articolo 155 [della Costituzione spagnola, che autorizza l’intervento dello Stato centrale quando si ritenga minacciata “l’unità nazionale” da parte delle rivendicazioni di “autonomia”] e dell’involuzione democratica dell’intero Stato [spagnolo], non capire che se si esaurisce il processo sovranista ci esauriamo tutti/e ha una valenza ermeneutica: non si può permettere che la realtà ti mandi a monte una buona occasione.
E allora: chi guida, o meglio chi “cavalca l’onda” del movimento sovranista catalano? È chiaro che un settore della classe politica catalana (sicuramente zeppa di elementi poco gradevoli e scarsamente sospettabili di volere una trasformazione radicale della società) ha smesso di rappresentare gli interessi politici della grande borghesia catalana (pur continuando a sostenerne il programma economico) e tiene ferma la sua aspirazione a svolgere un ruolo dirigente tramite il proprio controllo di parte dell’apparato statuale e la propria capacità di andarsi adattando a un processo indipendentista di settori di massa. Di nuovo, quello di cui si tratta qui è non lasciare allegramente che il processo di mobilitazione sociale al quale stiamo assistendo serva da narrazione eroica per giustificare il proprio progetto sociale ed economico di austerità. Qui, la sfida non si basa su chi è capace di configurare un terreno comune tra la sinistra indipendentista e sovranista di Catalogna e il resto dello Stato che consenta una nuova egemonia: Repubblica catalana e processi costituenti rappresentano un futuro senza paragone, che il 1° Ottobre potrebbe mettere in moto se ci fosse un’adeguata volontà politica.
Di fronte alla tendenza a vedere il processo indipendentista catalano come qualcosa di omogeneo, è interessante esplorarne le contraddizioni interne e vederlo come un terreno di lotta senza un finale predeterminato. In un processo nazional-popolare, l’omogeneità è un’indebita prefigurazione rispetto alla lotta concreta o acquisita tramite il monopolio dello Stato, vale a dire: il “nazionale” tende a ricucire tutte le contraddizioni di classe contenute nel “popolare”. Naturalmente, quando il processo nazional-popolare si mette in moto ed entra in conflitto con gli apparati di dominio dello Stato emergono le prime crepe, repertori di lotta che vanno ben oltre quelli dei gruppi dirigenti del processo nazional-popolare stesso. Questo ci porta al problema di cercare di definire la basi sociali del processo. Facciamo l’ipotesi che non ci sia nessuno che sostenga che ci sono più di due milioni di borghesi o di politici in Catalogna. Sicuramente la matrice dominante sono i cosiddetti “ceti medi” (un concetto che sottolinea per sua stessa definizione l’eterogeneità delle componenti e il loro rapporto con determinate aspettative di classe, prima di una definizione rigorosamente marxista, e cioè i rapporti con la proprietà dei mezzi di produzione) e la “classe operaia” nella sua accezione classica è assente. Siamo cioè di fronte a un movimento policlassista, in cui ci sono operai, piccoli proprietari, funzionari, politici, professionisti, imprenditori piccoli e medi, ecc., il cui rapporto con il movimento indipendentista non è però condizionato da quello economico in cui si collocano, ma piuttosto dall’adesione nazional-popolare al progetto di una Catalogna indipendente.
Questo implica un programma pieno di contraddizioni: un settore sembra avere per modello di Catalogna indipendente una sorta di Svizzera meridionale. Per la maggioranza delle basi (sogno certamente condiviso dalla maggioranza della base sociale del progressismo spagnolo) l’esempio è una Svezia mediterranea, in cui il mercato sia controllato da uno Stato efficiente e sensato. Un settore minoritario ma significativo (più significativo perlomeno che non nel resto dello Stato spagnolo o in qualsiasi altro luogo d’Europa) punta a uno sbocco anticapitalista del processo. L’insieme quindi dell’orizzonte di una Catalogna indipendente nasconde progetti differenti.
È forse una cosa così strana? I movimenti politici e sociali di masse emerse dalla sconfitta del movimento operaio ad opera del neoliberismo non hanno forse avuto analoghe debolezze? Non è l’assenza di una classe operaia “formata” e con un progetto egemone di trasformazione la principale carenza che segna i limite della nostra epoca? Certamente questi limiti evidenti impediscono di parlare del movimento indipendentista come di un movimento socialmente rivoluzionario in quanto non mette in discussione le basi materiali del capitalismo: la subordinazione dell’interesse collettivo alla proprietà privata e ai rapporti di produzione e di riproduzione basati sullo sfruttamento e l’oppressione.
Tuttavia, lo faceva per caso il movimento del 15 Maggio (il movimento cosiddetto degli indignados)? Era forse la classe lavoratrice con i propri interessi a rivestirvi il ruolo di protagonista centrale, occupando i luoghi di lavoro e irradiando dal cuore del capitale un progetto di società alternativa? Certamente quel movimento portava avanti un programma socialmente più avanzato, ma questo è apparso come un fatto reale solo tempo dopo a quel settore della sinistra che oggi guarda con diffidenza la Catalogna e che con sospetto ha anche guardato in quel momento il movimento del 15 maggio, per il fatto di non definirsi di sinistra e per l’assenza della “classe operaia”. Forse che tutti i movimenti che si basano sulla sinistra che vuole la trasformazione rispettano per forza a priori queste caratteristiche così delimitatamente rivoluzionarie? Questa concezione del ruolo della classe operaia ricorda la giusta critica che faceva Laclau a Kautsky e alla Seconda Internazionale (in Hegemony and socialist strategy. Towards a radical democratic politics, Verso, Londra, 1985; tr. it.: Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, Il Melangolo, Genova, 2011).
«Il presunto radicalismo della sua posizione era indubbiamente il tratto essenziale di una strategia fondamentalmente conservatrice; basandosi sul rifiuto di qualsiasi compromesso o alleanza e sullo sviluppo di un processo la cui conclusione non dipendeva da iniziative politiche, quel radicalismo portava al quietismo e all’attesa. Propaganda e organizzazione erano i compiti principali – in realtà esclusivi – del partito. La propaganda non tendeva a formare una “volontà popolare” più ampia in base alla conquista di nuovi settori alla causa socialista ma, soprattutto, puntava al rafforzamento dell’identità operaia; quanto all’organizzazione, la sua espansione non significava una crescente partecipazione politica su vari fronti, ma la costruzione di un ghetto entro cui la classe operaia avrebbe avuto un’esistenza segregata e incentrata su se stessa. La progressiva istituzionalizzazione del movimento ben corrispondeva a una concezione secondo la quale la crisi finale del sistema capitalistico sarebbe venuta proprio dal lavoro portato avanti dalla borghesia verso la sua stessa rovina, mentre alla classe operaia spettava solo prepararsi per intervenire al momento giusto. Fin dal 1881 Kautsky aveva affermato: “Il nostro compito non è organizzare la rivoluzione, ma organizzarci per la rivoluzione; non fare la rivoluzione, ma approfittare di questa”».
Certamente, l’assenza di una classe operaia organizzata come vettore centrale del processo indipendentista costituisce un limite evidente. Negarlo equivarrebbe a fare l’apologia del policlassismo populista che, al momento, è l’elemento fondamentale di agglutinazione del processo. Ma se vogliamo elevare il dibattito al livello strategico, più che postulare un “socialismo al di fuori del tempo” e alcuni slogan per autoconsumo, dobbiamo spostare la discussione e cominciare a pensare che la politica è fatta non solo di fattori strutturali, ma anche di soggetti politici. L’atteggiamento di una parte consistente della sinistra nei confronti del movimento indipendentista è, per così dire, pre-egemonica, in un duplice senso. Da un lato, la maggioranza della sinistra catalana, o almeno la sua parte essenziale con funzioni dirigenti, il gruppo di Ada Colau e i Comuni, assumono il movimento come qualcosa di statico, incapace di sviluppi distinti e aperti, di mutamenti attraverso scontri interni. La sinistra che in Catalogna resta in questi momenti critici ai margini del movimento sovranista (indipendentemente dal farne parte) assume una posizione passiva che né polemizza con la direzione del suo movimento né incorpora nuovi settori sociali, creando una delimitazione classista all’interno del processo stesso. Mantiene un atteggiamento ambiguo, attendista, fiduciosa che la scommessa indipendentista perda di forza e di slancio, con una strategia che si basa sul raccoglierne le ceneri come perno di un’eventuale trattativa neo-costituzionale con i dirigenti dello Stato Spagnolo. Sicuramente, alla passività della sinistra “comune” in Catalogna vanno aggiunti i limiti delle CUP (Candidaturas de Unitad Popular, un partito politico indipendentista ed estremista, 10 seggi in Catalogna) che, indipendentemente dalla loro onesta radicalità, non hanno cercato di svolgere alcun ruolo di raccordo tra la sinistra e il movimento indipendentista preferendo, in posti chiave come il Municipio (Ayuntamiento) di Barcellona, assumere un atteggiamento settario trincerando il loro spazio rispetto a una politica di alleanza rischiosa che trascinerebbe i Comuni in una battaglia congiunta contro la direzione convergente-repubblicana del processo sovranista.
Da parte della sinistra spagnola esiste la tendenza a considerare il movimento sovranista una “farsa”, come se non fosse un qualcosa di serio ma un semplice giuoco tra gruppi dirigenti, rivelando la totale incomprensione della vecchia idea dell’arcicitato Lenin (che in realtà è presente in tutta la “politica del conflitto”) secondo cui la divisione tra le classi dominanti è la precondizione di qualsiasi trasformazione sociale. Una “precondizione” vuol dire che si tratta di qualcosa che non basta di per sé, ma è pur sempre una contingenza necessaria che apre un varco attraverso cui possono irrompere le politiche emancipatrici, le loro soggettività di partito e i loro interessi di classe. Certo che il movimento sovranista può finire anche in una farsa lampedusiana, ma come tutto. Niente nasce già come verità, lo diventa nella lotta attiva e nello scontro. È la passività che crea le menzogne, il falso e l’eterno verdetto dei fatti consumati: quelli in alto vincono sempre. Anche se di fronte a questo neanche una posizione attiva garantisce la verità: è a sua volta precondizione di qualsiasi politica emancipatrice.
Quelli che stanno in basso si muovono in conflitti sociali e politici storicamente dati, in cui le carte sono sempre segnate da chi sta in alto e in cui diversi e contraddittori sono i livelli di coscienza. Chiunque ricerchi un terreno di lotta sociale puro, sgombro da contraddizioni politiche, culturali, nazionali, ecc., cerca un terreno di lotta che non è di questo mondo, che esiste solo nell’immaginario iconografico dei peggiori incubi del realismo socialista. La rimpianta ed assente classe operaia si formerà soltanto nella lotta politica sul posto di lavoro e oltre questo, a contatto con altre classi, delimitando i suoi interessi nei processi concreti di battaglia politica e proponendo a partire da lì l’egemonia dei suoi interessi come la migliore soluzione per l’insieme di una società in crisi. Perché la classe operaia come soggetto politico non esiste in quanto tale, si forma: quel che esiste è una massa multiforme cui diamo il nome di forza lavoro e che è presente in tutti i pori della società, anche se non ha coscienza di sé come forza politica di emancipazione.
Sicuramente, l’atteggiamento di determinati settori di Izquierda Unida (IU) come Garzón e di Podemos è diverso: va riconosciuto che Podemos ha sostenuto nel suo discorso il referendum, mentre IU non è stata capace di proporre nient’altro che un astratto “Stato Federale”. Naturalmente, la soluzione proposta per il tema catalano da Podemos parte da una premessa non ancora concretizzata, che Podemos ottenga con le elezioni la maggioranza assoluta, dato che un governo di cogestione con il PSOE, ad essere realisti, sarebbe completamente costretto a negare il referendum.
Non è impossibile che questo possa avvenire a un certo punto, ma certo è difficile credere che un simile scenario possa riprodursi a breve termine. Questa è infatti la grande tragedia delle strategie “gradualiste”: concepire i tempi politici in forma lineare e monocorde, senza discordanze, come se il processo catalano e l’1 Ottobre fossero una fastidiosa parentesi all’interno di una strategia passiva di accumulazione di forze elettorali, invece di articolare la varie temporalità che strutturano il campo politico dello Stato e pensare il 1° di ottobre come il catalizzatore che potrebbe precipitare la caduta del governo del PP e innescare un’accelerazione del tempo politico che potrebbe suscitare una primavera di processi costituenti in tutto il territorio dello Stato, sotterrando finalmente il regime del 1978 sotto le rovine del Valle de los Caídos (il monumentale sepolcro collettivo voluto da Franco per sé stesso e 33.000 “eroi della crociata”).
Ogni crisi è congiunturale: la crisi di regime provocata sul versante catalano non durerà in eterno e il movimento indipendentista, se non troverà una soluzione in questo momento d’auge, è probabile che non avrà un’altra occasione entro un lasso di tempo abbastanza breve. Sembra difficile che, con l’attuale direzione del processo, l’assunto iniziale arrivi a conclusione: la disobbedienza costituente implica un livello di coesione e di determinazione che non sembra che la classe politica catalana sia in grado di assumere, né che la sinistra catalana e spagnola siano disposte ad alimentare e sfruttare in un’ottica di democrazia costituente. La tragedia potrebbe forse essere che l’ipotetico “fallimento” del processo sovranista diventi potenzialmente funzionale sia alla sinistra rappresentata da Ada Colau in Catalogna sia a quella rappresentata da Podemos in Spagna. Per dirla con Josep María Antentas, lo scenario post-processo sovranista catalano non lascia sperare in una situazione di radicalizzazione democratica, mentre invece la passività «di fronte alla scommessa indipendentista delinea il quadro di alcune organizzazioni più inserite nella governabilità convenzionale e la normalizzazione istituzionale. Si delineano alcune forze politiche più favorevoli a una conclusione della crisi istituzionale dall’alto, nella forma di una positiva ma limitata trasformazione del tradizionale sistema partitico in favore di un nuovo diverso sistema in cui la sinistra post-neoliberista abbia maggior peso della fase precedente».
Restano ancora momenti decisivi in cui potrebbero succedere delle cose. Magari la repressione del PP e degli apparati post-franchisti dello Stato potrebbero risvegliare la sinistra maggioritaria dalla sua passività. Le opportunità infatti passano, e poi la sola cosa che ci resti è la profezia autorealizzata del “non si può”.
Nelle ultime settimane si è verificato un salto di qualità nel livello di scontro con lo Stato e nella massiccia risposta della popolazione, con elementi di autorganizzazione e con un repertorio di lotta che va ben oltre la consuetudine e a cui la società civile istituzionalizzata del processo non è abituata: l’ingresso in scena del mondo del lavoro, che fa appello allo sciopero generale e sociale per il 3 ottobre se non si può votare; la decisione degli stivatori che si rifiutano di prestare assistenza alle imbarcazioni delle forze militari attraccate in porto, il movimento studentesco che blocca il traffico e occupa facoltà, varie piattaforme che promuovono atti di solidarietà in tutto lo Stato; e una Carta dei diritti sociali in Catalogna che culmina in un’assemblea catalana di movimenti sociali; dimostrazioni di solidarietà e manifestazioni in tutta la Spagna…
Se questo si concretizza, se il fronte della difesa del diritto di decisione del popolo catalano investe il mondo del lavoro e i movimenti sociali, l’agenda sociale di questi movimenti e di ampi settori popolari finora assenti comincerebbe ad avere forza “costituente”. Questo è fondamentale per cominciare a costruire e a rendere visibile un nuovo rapporto di forza, un nuovo campo politico di alleanze strategiche, che impugni l’agenda “costituente” neoliberista di Junt pel Sí, da un lato, e che costringa la sinistra statale a ricaricarsi e a puntare sulla forza destituente il regime del 78 rappresentata dal processo indipendentista, dall’altro lato. Il problema spagnolo e la questione catalana si sbloccheranno soltanto se le classi lavoratrici e popolari proporranno soluzioni e saranno protagoniste di quella che Gramsci chiama la “grande politica”, cioè dei fatti che riguardano la “configurazione degli Stati”, i temi storicamente irrisolti dalle classi dominanti.
(27 Settembre 2017. Traduzione e cura di Titti Pierini)
Marc Casanovas e Brais Fernández sono membri della Segreteria di Redazione di Viento Sur e militanti di “Anticapitalistas” di Barcellona e Madrid, rispettivamente.
dal sito Movimento Operaio
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