Diari di Cineclub

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lunedì 1 aprile 2019

LA DEMOCRAZIA SECONDO MADURO di Antonio Moscato






LA DEMOCRAZIA SECONDO MADURO
di Antonio Moscato



Le dimensioni delle manifestazioni dell’opposizione, e la moltiplicazione delle rivolte notturne di diversi quartieri popolari un tempo schierati con Chávez, che da gennaio hanno visto moltiplicarsi assalti a forni e supermercati, avevano spiegato l’insolito comportamento di Nicolás Maduro, che aveva rinunciato ad usare la forza nei confronti della autoproclamazione di Juan Guaidó. Autoproclamazione effettivamente discutibile perché l’assunzione del ruolo di presidente interinale da parte del presidente del parlamento secondo la costituzione era prevista solo nel caso di un’improvvisa assenza del presidente eletto e non poteva essere usata per una tardiva contestazione della legittimità della sua rielezione, sia pure in una data arbitrariamente fissata per impedire la concertazione di un candidato credibile da parte di un’opposizione variegata e falcidiata dagli arresti di un gran numero di suoi esponenti come “mandanti delle violenze”.

Che le opposizioni siano eterogenee d'altra parte è un dato costante fin dai primi anni di Chávez, e viene spesso usato per delegittimarle, mentre è la prova indiretta che non possono essere ridotte a un “blocco fascista”. Già Fidel aveva ammonito Chávez che un’opposizione che si aggirava comunque già intorno al 40%, poneva problemi politici e imponeva un’attenzione alle sue contraddizioni per dividerla, invece di compattarla insultandola e demonizzandola. Sembrava che lo stallo seguito alla autoproclamazione di Guaidó e la rinuncia per mesi a misure repressive paragonabili a quelle del recente passato fossero dovuti a un lavoro sotterraneo per arrivare davvero a un dialogo tra le due parti, tenendo conto di un certo equilibrio delle forze.

La propaganda delle due parti nega la consistenza dello schieramento opposto, ma non vale la pena di entrare nel merito delle affermazioni dato che comunque si tratta di un confronto tra forze equivalenti (55 a 45, o 45 a 55 che siano), che non possono prevalere facilmente sulla controparte e quindi devono trovare la strada della ricerca di un accordo sotto la protezione di paesi non schierati come Uruguay e Messico.

Ma possibile che gli apologeti di Maduro non si domandino come mai l’opposizione, nonostante la modestia del suo gruppo dirigente e le sue storiche divisioni, sia riuscita a superare il 56% nelle elezioni dell’Assemblea Nazionale del 2015, quelle sì regolarissime e certificate da veri osservatori internazionali prestigiosi? E assurdo che non si rifletta sulle vere ragioni dello stallo di questi mesi, con la rinuncia ad applicare la legge nei confronti del comportamento irresponsabile di Guaidó. Invece si giustifica ancora una volta l’utilizzazione dei molti organismi nominati illegalmente dalla vecchia Assemblea Nazionale (cioè da Maduro) ricorrendo a un escamotage giuridico furbesco come la privazione dei diritti elettorali per 15 anni dopo una cosiddetta indagine condotta in assenza dell’imputato e senza neppure contestargli niente. E con che credibilità l’accusa, pubblicata dopo la sentenza, parla di “spese eccessive per viaggi internazionali”, equivalenti a 100.000 dollari, in un paese in cui depositi di molte decine di milioni di dollari fatti da ministri “bolivariani” nella Banca Privata di Andorra sono stati scoperti quando ha cessato di essere un paradiso fiscale!

Di fatto questa interdizione è un nuovo anello di una lunga serie di arbitrii che hanno colpito qualsiasi opposizione, compresa quella chavista di Marea Socialista, a cui è stata negata l’iscrizione nelle liste elettorali non formalmente, ma rinviando la risposta di mese in mese con pretesti incredibili, fino a renderla impossibile. Altrettanto era stato tentato con lo stesso PCV, a cui si chiedeva di dimostrare la sua esistenza (che ovviamente precedeva di molto l’apparizione del chavismo) e di presentare una nuova documentazione: tuttavia era stata concessa in extremis probabilmente dopo l’impegno a presentare candidati solo in poche regioni, e l’impegno a rispettare certe condizioni.

Più grave il rifiuto di accettare il referendum confermativo previsto nella costituzione e a cui lo stesso Chávez si era sottoposto, utilizzando l’espediente di far slittare di mese in mese l’esame dei milioni di firme che lo chiedevano, fino a renderlo impossibile. Un gesto che spiega il rafforzamento delle componenti effettivamente estremiste all’interno del variegato ventaglio delle opposizioni, costrette a scendere continuamente in piazza per rivendicare un diritto costituzionale negato, scontrandosi con la polizia politica SEBIN, i corpi speciali FAES istituiti di recente per “combattere contro criminalità comune e terrorismo”, i colectivos motorizzati e armati. Nella versione dei “giustificazionisti” si continua ad attribuire le violenze solo all’opposizione, mentre questa ricambia avviando una guerra di cifre a cui non intendo partecipare. Mi basta domandare a questi maduristi incondizionati, se appare loro accettabile per un paese che considerano “socialista” che per anni sono state vietate le manifestazioni, reprimendole poi per aver “disobbedito a un ordine delle autorità”. E come sappiamo bene da molti casi di casa nostra, (divieti di cortei seguiti da cariche e denunce per resistenza a pubblico ufficiale), o francesi, con le cariche di polizia ai gilet gialli, è un meccanismo che genera inevitabilmente violenza.

Lo stesso utilizzo cinico e spregiudicato del potere attraverso compiacenti organi nominati dall’alto come la CNE (commissione nazionale elettorale), la Corte suprema di giustizia, ecc., è stato usato nei confronti dell’Assemblea Nazionale quando nel dicembre 2015 è passata del tutto in mano alle opposizioni grazie a un premio di maggioranza che era stato concepito a suo tempo da Chávez proprio per ridimensionarle: passato il primo momento di sconcerto, e non potendo denunciare veri brogli, la CNE ha destituito tre deputati della lontana e marginale zona amazzonica per un presunto voto di scambio e in realtà per togliere all’AN quella maggioranza qualificata che avrebbe potuto impedire un veto presidenziale. Invece di proporre una rielezione dei tre sotto controllo delle due parti, si è dichiarata l’Assemblea Nazionale “decaduta per disubbidienza”, e si è tentato di sostituirla con una commissione designata dal famigerato CNE. Tentativo non riuscito per l’opposizione aperta della Fiscal general [procuratore generale della repubblica] Luisa Ortega Díaz, chavista da sempre, che disorientò per qualche giorno l’artefice della trovata. Ma cominciava presto la controffensiva dell’ala più faziosa del PSUV, capeggiata da Diosdado Cabello, che delegittimava la Ortega accusandola di tradimento e chiedendo che fosse sottoposta a una perizia psichiatrica, col risultato di costringerla all’esilio.

Questa non è una dittatura alla Pinochet, come a volte dicono gli oppositori più esagitati, ma è comunque una democrazia truccata, con un miscuglio di tradizioni caudilliste e di espedienti suggeriti dai consiglieri formatisi nel “socialismo reale”, e che si regge soprattutto per l’appoggio dell’esercito, che non è estraneo alla corruzione generalizzata ed è quindi ostile a qualsiasi cambiamento; come ogni esercito è per sua natura organizzato in modo non democratico, ma viene utilizzato anche assegnando a esponenti del vertice militare molti incarichi ministeriali e molti governatorati preferendoli ai civili.

Ma non è solo la disinvoltura nel forzare la costituzione bolivariana ampliando il ruolo degli organi designati dal presidente a giustificare il giudizio decisamente negativo su Maduro da parte di molti ex collaboratori di Chávez. È ben più grave la catastrofe economica che ci si illude di negare smettendo di pubblicare le statistiche ufficiali, ma che ha dimensioni apocalittiche, da una inflazione che batte i record della Germania del 1923, alla riduzione del PIL del 44% nel 2018 rispetto al 2013, accertata dalla CEPAL, passando per la riduzione della produzione di petrolio da parte della PDVSA a un terzo di quella del lontano 1998, per il deterioramento degli impianti, la difficoltà a procurarsi parti di ricambio e la mancanza di manutenzione (analoga a quella della grande centrale idroelettrica di Guri attribuita dalla propaganda ufficiale al sabotaggio degli Stati Uniti, mentre da anni nelle regioni più periferiche si ripetevano frequentemente interruzioni dell’energia elettrica, e si discuteva pubblicamente sulle cause endogene). Ne abbiamo parlato a lungo su questo sito, utilizzando analisi di economisti venezuelani ineccepibili, che continuano a vivere in Venezuela.

Ma in tutto il settore industriale, a partire dalla PDVSA, oltre alle cause di crisi già ricordate va aggiunta la fuga all’estero di parte del personale, per cercare condizioni migliori di esistenza in paesi adiacenti, invertendo di 180° la direzione delle correnti migratorie. Un fenomeno che contribuisce alla disgregazione sociale e rende sempre meno probabile la discesa in campo di una classe operaia un tempo molto politicizzata che nella prima fase della presidenza Chávez lo aveva sostenuto con forza, ma richiedendogli l’impegno per una lotta alla “boliborghesia” e alla corruzione, lotta di fatto sempre promessa e sempre rinviata alle calende greche. Questa classe operaia oggi è frantumata e delusa, e non può essere surrogata dalle rivolte sottoproletarie che esplodono periodicamente nei barrios più poveri un tempo compattamente chavisti.

Errore più grave sarebbe ricavare dal successo momentaneo di Maduro su un Guaidó risultato poco abile, e appeso a un eventuale intervento esterno che sembra non arrivare ma la cui minaccia rafforza Maduro, la tentazione di bloccare il dialogo di cui si è cominciato a discutere nel paese, e che dovrebbe portare a norme condivise per un’elezione concertata di CNE, TSJ e altri organismi analoghi oggi rigorosamente di parte, definendo criteri che garantiscano la rappresentanza di chi risultasse in minoranza. La battaglia per l’egemonia potrebbe evitare di innescare ancora una volta le premesse della guerra civile.

Se si vuole salvare la sostanza del “processo bolivariamo” il PSUV deve smettere di insultare gli avversari chiamandoli in blocco escuálidos [squallidi] e cominciare a discutere insieme le misure per arginare la catastrofe economica, senza trincerarsi dietro false spiegazioni, come quella che attribuisce i disastri degli ultimi cinque anni solo a una presunta “guerra economica” dall'esterno, anziché alla combinazione tra un paese in cui un capitalismo parassitario ha continuato a prosperare alle spalle dello Stato senza controlli e uno staff di economisti arrampicatori e impreparati che hanno preso il posto dei più esperti (ma critici) collaboratori di Chávez, come Jorge Giordani o l’ex ministro dell’energia Héctor Navarro, che proprio ieri ha smentito la fantasiosa versione del governo sugli attentati a centrali elettriche: vedi

Qualche critica a Maduro la fanno un po’ tutti ma se sono drastiche e contro l'autorappresentazione di un’inesistente rivoluzione bolivariana danno fastidio: ad esempio alcuni che apprezzano abitualmente il mio sito hanno criticato su Facebook l’intervista a Marc SaintUpery (In Venezuela oggi l’appoggio a Maduro è minoritario) che in alcuni punti era senza peli sulla lingua nello smentire le fake news di Maduro, e che è stata criticata a torto da alcuni che non hanno capito il senso di una frase chiave:

... non serve nessun baccano semplicista contro la “privatizzazione” dato che la privatizzazione mafiosa e neopatrimoniale dell’apparato produttivo (e la sua successiva distruzione) e delle risorse del sottosuolo è già avvenuta, nel modo più selvaggio possibile, sotto la gigantesca appropriazione indebita chavista-madurista. Nello stesso tempo, perfino la destra più recalcitrante sa che sarà impossibile imporre unilateralmente a una popolazione così radicalmente impoverita aumenti di tariffe dei servizi pubblici e delle necessità basilari. La gente semplicemente non ce la fa. E parlare di una privatizzazione del sistema sanitario sarebbe una follia in un paese nel quale si sta richiedendo l’aiuto umanitario.

Questo non significa volere le privatizzazioni, vuol semplicemente smontare la propaganda demonizzante nei confronti di un’opposizione ricordando da quale pulpito viene la denuncia.

Devo ammettere che se devo pentirmi di qualcosa non è per le critiche al regime, ma per l’eccessiva prudenza nel criticarlo, sia nel mio libro Il risveglio dell’America Latina (Alegre, Roma, 2008), sia in numerosi articoli e saggi successivi in gran parte presenti sul sito. Non certo per opportunismo o illusione in un’autoriforma, ma per non ferire troppo la sensibilità di chi seguiva con ingenua fiducia l’apparire di una novità importante (anche se minata ben presto da errori dello stesso Chávez). Evitando sempre di mescolare le mie critiche con quelle degli avversari di classe.

Era il metodo che avevo seguito con Cuba, e prima ancora nei lunghi anni dedicati allo studio dell’URSS e di alcuni paesi del sedicente “socialismo reale”, e alla solidarietà con i marxisti critici che ancora negli anni Ottanta resistevano a persecuzioni e calunnie e che venivano ignorati in Occidente anche da gran parte della sinistra che si diceva rivoluzionaria. Molti di loro, col tempo, e di fronte alla dimensioni del crollo, hanno rinunciato alle posizioni originarie e si sono adattati alla sinistra moderata, finendo travolti dal suo declino. Ma dove sono finiti dopo il crollo i tanti che non sopportavano le critiche al sistema tardo-staliniano e mi dicevano che “stavo con Bush” perché criticavo non solo Breznev ma anche Gorbaciov? Me lo domando perché lo sgretolamento del sistema di governi progressisti dell’America Latina, in forme diverse da paese a paese, ma sempre perché “più incisivi nelle parole che nei fatti”, suscita grandi preoccupazioni per il futuro.

In particolare l’esperienza brasiliana mi sembra gravida di lezioni: il cosiddetto “golpe” parlamentare che ha estromesso Dilma Rousseff e incarcerato Lula è stato possibile per la scarsa mobilitazione delle masse che avevano costituito in passato la loro base sociale, e che erano state deluse non solo dalla corruzione dilagante, ma dall'intervento duramente repressivo nelle favelas e nei confronti delle mobilitazioni contro l’aumento dei trasporti per finanziare le insensate infrastrutture per i mondiali di calcio e le olimpiadi (che avevano la stessa funzione di quelle che da noi si chiamano le “grandi opere”). E pesava anche che molti dei protagonisti del capovolgimento politico erano stati per anni alleati di Lula, comprati a tariffe variabili (erano stati i principali beneficiari dei finanziamenti di Petrobras, Odebrecht, ecc. ben più di quanto lo sia stato il PT, che ne ha pagato il prezzo maggiore). Non era prevedibile che il processo brasiliano avesse come sbocco finale l’inquietante vittoria di un mostro come Bolsonaro, ma si poteva prevedere comunque l’esplosione di contraddizioni laceranti, senza aver preparato allo scontro chi aveva avuto fiducia in Lula per il suo passato di sindacalista combattivo, a prescindere dal suo adattamento a un capitalismo che si è rafforzato durante la sua presidenza. Ma dirlo sembrava inaccettabile a quella sinistra che per interessarsi a qualche paese lontano deve illudersi, accogliendo acriticamente le apologetiche autorappresentazioni ufficiali. Con il rischio di rimanere spiazzata quando si arriva alla verifica finale.


1 Aprile 2019


dal sito Movimento Operaio



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