mercoledì 18 agosto 2010
La crisi economica e l’inesistenza di un’alternativa riformista
di Michele Nobile
[Quello che segue è un paragrafo di un lavoro più ampio di prossima pubblicazione sulla crisi del parlamentarismo nei paesi a capitalismo avanzato, di cui la mutazione genetica della sinistra riformista è parte integrante]
La crisi in corso è la prova sia dello svuotamento politico di quel che era la sinistra riformista sia dell’ancoramento della sua involuzione alla realtà dei rapporti contemporanei tra lo Stato e l’economia.
Ricordo anche che all’inizio di questa crisi economica a destra e a sinistra molti paventavano, o speravano, la fine del cosiddetto «neoliberismo» in una sorta di apocalissi rigeneratrice. Eppure, nonostante per i paesi a capitalismo avanzato questa sia la crisi più grave dagli anni Trenta, non si sono verificati né un «crollo economico» prolungato né il collasso istituzionale. Questo per la stessa ragione per cui una nuova grande depressione non è iniziata nel 1980-82, nel 1987, nel 1990, nel 1997-98, nel 2001-2002, così che, nonostante la forte instabilità finanziaria, l’epoca cosiddetta «neoliberista» risulta più lunga di quella detta «keynesiana».
Perché? Perché l’articolazione contemporanea dei rapporti tra Stato ed economia non è affatto del tipo degli anni Venti del secolo scorso o dello «Stato minimo» soggiogato ai «mercati globali» (e trova espressione politico-economica nell’ultimo imbastardimento neoclassico di Keynes, il new keynesianism, che calza come un guanto alla «terza via»). La capacità di tenuta delle istituzioni statali dei paesi a capitalismo avanzato è ora di gran lunga superiore a quella degli anni Venti, al contrario di quanto sostenuto da un paio di decenni dai sostenitori della tendenziale o compiuta obsolescenza delle capacità di intervento economico degli Stati imperialisti, a causa della de-territorializzazione del capitale e della formazione di un unico mercato «globale».
Ne consegue, innanzitutto, che invece di una depressione (con caduta verticale e prolungata della produzione, dell’investimento e dell’occupazione) si abbia una fase di stagnazione. E’ il risultato degli «stabilizzatori» che fanno accrescere automaticamente la spesa pubblica durante una recessione, a cui si aggiungono gli interventi discrezionali: nei paesi a capitalismo avanzato il sistema non può evitare le crisi, ma l’innescarsi di una depressione è ora più difficile.
Ovviamente sulla carta si possono ipotizzare alternative basate sul rilancio della domanda attraverso la correzione della distribuzione del reddito, la crescita dell’occupazione nei servizi sociali e in produzioni e servizi ambientali, il coordinamento delle politiche macroeconomiche e la correzione degli squilibri tra il polo importatore e i poli esportatori dell’economia mondiale (rispettivamente gli Stati Uniti, la Germania e la Cina), la sostituzione del dollaro come moneta chiave del sistema monetario internazionale con una unità di conto sovranazionale e una Unione di compensazione multilaterale, come propose Keynes alla conferenza di Bretton Woods.
Ma queste ragionevoli soluzioni urtano contro ostacoli potenti: la struttura e il funzionamento dell’economia mondiale odierna, la realtà dei rapporti di forza tra gli Stati e tra le classi, la soggettività delle élites politiche dei partiti di governo, non solo di centrodestra ma di centrosinistra, per quello che è la loro integrazione nello Stato.
Una possibilità, sempre sulla carta ma più realistica delle ipotesi di riforma organica, è che si attui qualcosa di simile all’accordo del Plaza Hotel del 1985 tra Usa, Germania e Giappone: una svalutazione pilotata del dollaro che consenta di aumentare le esportazioni statunitensi, riducendo nello stesso tempo il deficit pubblico in percentuale del Pil (che non è la stessa cosa di una riduzione del valore assoluto del debito o del pareggio di bilancio). A una ripresa dell’investimento statunitense potrebbe far seguito, come negli anni Novanta, una crescita dei consumi supportati dal credito e, quindi, di nuovo, delle importazioni dal resto del mondo.
Ma anche questa possibilità del tutto «ortodossa» si scontra, al momento, con l’asimmetria esistente tra gli Stati Uniti e i paesi di «eurolandia», Germania compresa, quanto alla possibilità di praticare politiche espansive. Gli Stati Uniti sono un singolo Stato che può perseguire una politica monetaria (e di bilancio) pienamente sovrana. In effetti, poiché oltre ad essere monetariamente sovrani gli Usa detengono anche la moneta-chiave del sistema monetario internazionale, essi possono espandere debito pubblico e deficit di bilancio in modo da compensare la caduta della spesa privata. I paesi di «eurolandia», al contrario, non sono più monetariamente sovrani, ma non costituiscono né un’area socialmente omogenea né un unico Stato con un unico bilancio pubblico. Il risultato lo si vede bene: la vulnerabilità dei paesi mediterranei dell’area dell’euro, l’imposizione di un generale orientamento restrittivo, in prospettiva la possibilità di una crisi dell’unione monetaria. Lo spettro è quello di uno stallo prolungato alla giapponese, che dura dai primi anni Novanta. In ogni caso, tempi e modi di una eventuale e lenta ripresa dipendono non dai «mercati globali» e dai «capitali nomadi» ma, essenzialmente, dalla politica statunitense.
Da qui un paradosso: la capacità di intervento degli Stati capitalisti più avanzati permette ad essi di evitare, a caro prezzo, la depressione, ma, nello stesso tempo, e specialmente in Europa, anche di rilanciare politiche di aggressione contro i salariati, che possono prolungare la stagnazione. Si deve fare attenzione a distinguere le misure d’emergenza e a breve termine, che considerate in sé stesse invalidano l’ideologia corrente dell’efficienza dei «mercati», dalla prospettiva a medio e a lungo termine. Quest’ultima è rimasta invariata: proprio in forza della capacità di intervento statale, le caste politiche, anche di «terza via», possono riprodurre l’orientamento politico-economico prevalente da tre decenni. Tanto è vero che, non solo in questa crisi i sistemi politici non hanno espresso nessuna alternativa di sinistra riformista o interventista orientata a correggere gli squilibri internazionali e interni, ma si stanno già attuando e preparando misure per scaricare il costo fiscale della crisi sulle spalle dei salariati.
Questa la soluzione della crisi per il capitalismo realmente esistente. In assenza di un crollo catastrofico, di una rottura dell’unità monetaria europea, o della mobilitazione e radicalizzazione delle classi dominate, non esistono indicazioni che possa esserci una uscita dal «neoliberismo» per evoluzione interna ai partiti di governo.
A integrazione di quanto precede, qualche considerazione veloce sulla crisi. Ritengo che per comprendere la crisi si debbano considerare tre livelli causali, corrispondenti a tre diverse interpretazioni e a tre orientamenti politici.
Il primo livello è quello finanziario. L’instabilità finanziaria endogena al capitalismo è stata egregiamente teorizzata da alcuni decenni dallo scomparso Hyman Minsky, di formazione keynesiana. Il Wall Street Journal gli dedicò parte della prima pagina il 18 agosto 2007 («In time of tumult, obscure economist gains currency»), Martin Wolf un editoriale del Financial Times il 16 settembre 2008, e continuando così. Oggi tutti sembrano essere diventati minskyani, oltre ad aver riscoperto Keynes. Come mai, visto che le tesi di Minsky cozzano con tutta la vulgata «liberista»? Per il semplice motivo che Minsky, se dice che «It», cioè un 1929, potrebbe ripetersi, spiega anche come e perché potrebbe non accadere. Dice pure cose meno gradite alle orecchie di «liberisti» e benpensanti, come già Keynes (eutanasia del rentier, socializzazione dell’investimento, l’amore per il denaro come «una di quelle propensioni a metà criminali a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali»). Ma quello che interessa è la legittimazione delle misure di ristabilizzazione del sistema finanziario.
Il punto è che qui c’è una contraddizione, proprio mynskianamente parlando: la ristabilizzazione finanziaria comporta, fermo rimanendo tutto il resto, che si creino le condizioni per una nuovo ciclo di espansione del credito e di speculazione che alimenti la domanda negli Stati Uniti ecc. Ma non importa, purché il gioco continui. Il secondo livello è quello proprio dei critici più radicali, più o meno post-keynesiani, più o meno marxisti. In questo caso si insiste, oltre che sulla finanziarizzazione, sul fatto strutturale della insufficienza della domanda aggregata a causa dell’iniqua crescita della disuguaglianza sociale e della rendita finanziaria a danno del profitto, sulla politica neoliberista e sulla necessità di correggere gli squilibri mondiali. Questa è una posizione di sinistra autenticamente riformatrice: e gli accademici che sono in questa prospettiva sono molto duri, molto più duri degli economisti italiani di sinistra, non solo con la destra ma anche con la «sinistra» al governo. A rigore e freddezza dell’analisi non corrispondono però rigore e mancanza di illusioni dal punto di vista propriamente politico. E’ ovvio, perché se la risposta è in termini di politica economica occorre un governo che la attui, e qualche speranza nella sinistra esistente bisogna pur continuare ad averla.
Se si lasciano da parte i sostenitori della caduta tendenziale del saggio di profitto a causa della crescita della composizione organica del capitale, che ora, a differenza degli anni “70, hanno meno credito (a ragione, a mio parere), ci sono due «scuole» che pongono coerentemente la questione di un terzo livello, o dell’andare oltre la critica della finanziarizzazione (primo livello) o della distribuzione del reddito (secondo livello). Una è quella di Robert Brenner, l’altra è quella della Monthly review, di Baran e Sweezy. Le spiegazioni sono però opposte. Per la Monthly review il capitalismo tende alla stagnazione da prima della Seconda guerra mondiale: l’argomento di base risale al 1942.
Brenner è invece più specifico: quello che io chiamo terzo livello di spiegazione è dato dalla struttura dell’economia mondiale, caratterizzata dal successo dello sviluppo capitalistico prima nei paesi europei e in Giappone, poi da un pugno di Nic asiatici (Corea del sud, in primis, Taiwan), infine dalla Cina, e a distanza, dalle potenzialità dell’India e del Brasile. Il problema in questo caso è l’inasprirsi della concorrenza internazionale, che deprime il profitto nei paesi a capitalismo avanzato, l’investimento e l’occupazione. E’ questa struttura che richiede le «bolle» speculative negli Usa per alimentare la domanda globale (e la politica monetaria della fed, o l’espansione del deficit statale Usa, oltre che del deficit commerciale) e i movimenti di capitale, che a loro volta confermano il sistema finanziario Usa e il dollaro come chiavi di tutto il processo: quella cosa detta «globalizzazione». E si capisce pure che gli Stati, specialmente in Europa, perseguono un «neomercantilismo» esportatore e la compressione del costo del lavoro ecc.; mentre gli Usa a modo loro, che il Presidente sia democratico o repubblicano, sono congenitamente “keynesiani”, almeno a favore dei ricchi.
Dunque, per come la vedo io, essendo i politici europei, di destra e di sinistra, spaventosamente conservatori, non possono che sperare che in qualche modo torni a innescarsi la domanda Usa. Nel frattempo, sono dolori, per noi. Dal punto di vista politico la terza interpretazione non consente di riporre fiducia nelle forze di governo e in compromessi col capitale.
dal blog "Utopia Rossa"
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