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martedì 31 agosto 2010

RECENSIONE DEI FILM SUL "CHE" di Pino Bertelli




Recensione dei film sul CHE (L’argentino/Che. Guerriglia) di Steven Soderbergh

di Pino Bertelli








Il dittico su Ernesto Guevara, Che. L’argentino/Che. Guerriglia, diretto da Steven Soderbergh - uno dei registi più sopravvalutati della macchina/cinema hollywoodiana - salutato dalla maggior parte della critica italiana (e straniera) come una sorta di «capolavoro», è un’operazione di basso profilo commerciale. Soderbergh, del resto, è un abile confezionatore di cinema e, a partire da Sesso, bugie e videotape (Palma d’oro a Cannes) fino a Traffic (Oscar a Hollywood), passando per Erin Brockovich, fino alle banalità ordinarie di Ocean’s Eleven... Twelve... Thirteen... o The girlfriend experience, questo eclettico regista di opere accattivanti e discontinue, mostra che la vicinanza tra il cretinismo e il genio è piuttosto stretta e Soderbergh non è certamente un genio.

In Che. L’argentino/Che. Guerriglia Soderberg affresca la storia di Ernesto Guevara (un rivoluzionario e un poeta dell’utopia tra i più importanti del Novecento), ripercorrendo le gesta del giovane medico argentino nella Rivoluzione cubana che culmineranno nella battaglia di Santa Clara e nel vittorioso ingresso all’Avana. Girato in HD, il film alterna spezzoni (in bianco e nero) del discorso del Che all’Onu del ’64 con ricostruzioni/azioni da western di pessima fattura (non ha l’autorevolezza epica di John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh o Nicholas Ray…). L’idea del film era venuta a Benicio del Toro (che appare anche come produttore), mentre giravano Traffic. «Della vita del Che non sapevo niente», dice Soderbergh, e si vede. «Nella società che lui voleva», rincara il regista, «sarei stato disoccupato». È vero.
I 40 milioni di dollari spesi per l’intero film non si vedono; l’ambientazione è debole, banalizzata; l’attorialità delle figure comprimarie e la messa in scena sono affabulati nella più tradizionale epopea perbenista che ha fatto le fortune e le glorie di tanto cinema hol-lywoodiano. Fidel Castro (Demiar Bichir) sembra un luminare che sulla Sierra Maestra dispensa saggezze (mai avute) contro il neoliberismo in maniera macchiettistica. La rivoluzione (giusta) dei barbudos è disseminata in battaglie agiografiche e il teatrale subentra allo storico; la fotografia di Peter Andrews (pseudonimo del regista) è rarefatta e poco si accosta al sudore, alla paura, al coraggio, all’utopia in armi dei rivoluzionari del Che. Nel film c’è il peggio di Indiana Jones di Steven Spielberg, intrecciato al peggio di Via col vento di Victor Fleming: entrambi i film di Soderbergh sono pervasi dal medesimo catechismo benevolente. Un assemblamento di sentimenti truccati, dispersi nell’ordine del discorso filmico che non implicano il tragico, bensì il destino di un tempo andato in frantumi. Il grande cinema esiste solo fintantoché dura la poesia, come la rivoluzione finché dura il canto della rivolta.
Benicio Del Toro (Palma d’Oro a Cannes, 2008) è un Che formidabile: interpreta un eroe, ma non lo trascolora in mito; mostra il carattere di un uomo in rivolta attraversato da una sorta di malinconia e ci dà la sensazione di raggiungere finalmente il Vero.
Lo smarrimento che c’è nel film di Soderberg è manifesto. Resta sempre in superficie delle cose che tratta e, come sappiamo, quando le verità diventano irrespirabili si trova rifugio nell’eufemismo. Che. L’argentino è un corollario di sciocchezze figurative e chiacchere filistee che invitano alla rassegnazione e non all’arte di ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato (com’è stata la vita di Ernesto Che Guevara). Finché ci sarà un solo padrone, tiranno, generale o papa in piedi, il compito dell’uomo in rivolta non è finito. Tutto questo Soderbergh non lo sa, e nemmeno lo conosce né gli interessa. Il suo film dunque è una divagazione edulcorata su un uomo che ha rappresentato (e rappresenta ancora) il disinganno di un’epoca, un uomo che ha detto «la mia parola è no!», che ha preso le armi e ha combattuto l’imperialismo, insegnandoci a ben vivere e a ben morire.

Che. Guerriglia è il secondo atto (mancato) dell’opus «magnum» di Soderbergh che si trascina tra il racconto di un assedio e il crollo di una speranza di rivoluzione sociale. Per più di due ore assistiamo a colpi d’asma del Che, camminate nella foresta, incontri con i contadini, il tradimento del Pc boliviano (filosovietico), militari stupidi che arrivano sempre in ritardo negli assalti ai ribelli, a loro volta stanchi e impreparati di fronte a un’idea di insurrezione che doveva fare da detonatore e incendiare i popoli dell’intera America latina.
Soderbergh allunga la minestra riscaldata di Che. L’argentino. Lo mostra invecchiato, malato, ma bello sempre. Esegue una partitura benevola e cronachistica delle sue gesta, ma non riesce mai a entrare nella pelle della storia. La macchina da presa si muove palpitante su nulla e perfino i morti sono filmati con quel tanto di tocco estetizzante che andrebbe bene per pubblicità commerciali. C’è anche la bella rivoluzionaria (Tania) che tutto comprende e tutto approva della disastrosa avventura rivoluzionaria del Che. E il fantasma di Régis Debray, l’emissario di Castro che alcune fonti dicono abbia tradito Guevara. La sentita interpretazione di Benicio del Toro è tutto ciò che resta negli occhi dello spettatore; ma nemmeno la figurazione dell’uccisione del Che riesce a commuovere, tanto è circoscritta a inquadrature (insolitamente) liquide, anche per un funambolo della telecamera come Soderbergh.
La sceneggiatura del film (scritta da Peter Buchman e Benjamin A. van der Veen), tratta malamente dal Diario di Bolivia del Che è un lavoretto di trascrizione abbastanza confuso e il dittico di Soderbergh si chiude nella retorica del pianto plateale: l’eroe è stato ammazzato con le sue illusioni, ma l’icona o il mito risorge dalle sue spoglie insanguinate. L’importante è non capire che l’assassinio del Che è stato un crimine contro l’umanità.

Hasta la victoria siempre!

 
29 agosto 2010
Dal blog "Utopia Rossa"

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