Diari di Cineclub

Diari di Cineclub
Rivista Cinematografica online e gratuita

mercoledì 8 settembre 2010

La contro-riforma postmoderna del sistema scolastico italiano


 di Michele Nobile








Pubblichiamo questo interessante studio di Michele Nobile scritto nel 2005 sulla situazione scolastica italiana e non possiamo che concordare con l'autore che  
"il testo è ovviamente datato, ma le linee fondamentali della politica della  (d)istruzione pubblica non sono cambiate".

E' un testo quello di Nobile purtroppo più che mai attuale.
Infatti anche quest’anno, sui lavoratori della scuola ed in particolare sui precari, si abbattono con violenza i tagli della “riforma” Gelmini/Tremonti. 
E ovviamente questi tagli colpiscono anche gli studenti e le loro famiglie.
Sono stati cancellati altri 25.600 posti di docenti e 15.000 di personale Ata, che sono da aggiungere ai 42.100 docenti e 15.000 Ata già eliminati lo scorso anno.Quest’anno i tagli avranno una maggiore incidenza nella scuola secondaria di secondo grado, dove spariranno 13.700 posti di lavoro, mentre 8.700 ne perderà la scuola primaria.
Ci troviamo di fronte al  più grande licenziamento di massa nella storia della Repubblica.



1. Poco più di trent’anni fa Marzio Barbagli impostò l’analisi del rapporto tra sistema scolastico e disoccupazione intellettuale assumendo le caratteristiche della struttura interna del primo come il meccanismo più importante ai fini della selezione, orientamento e contenimento della domanda di istruzione  (1).
La riforma Gentile del 1923 comportò, relativamente al sistema Casati, sia una chiusura del sistema scolastico italiano, prevedendo scuole vicolo-cieco, sia una sua maggior professionalizzazione mediante il restringimento degli accessi universitari agli studenti degli istituti tecnici. Nello stesso tempo le università vennero divise in tre categorie, di cui una sola interamente finanziata dallo Stato, essendo il finanziamento delle altre in tutto o in parte a carico degli enti locali e dei privati.
In epoca repubblicana i cambiamenti più importanti a livello secondario furono, come noto, l’istituzione della scuola media unica nel 1962 e la liberalizzazione degli accessi universitari nel 1969, che diedero vita al sistema scolastico più aperto e meno professionalizzato della storia italiana. Dietro quei cambiamenti istituzionali erano lo spostamento dei rapporti di forza tra le classi sociali, evidente nelle mobilitazioni operaie ed antifasciste tra la fine degli anni cinquanta ed i primissimi sessanta, e l’esplosione studentesca ed operaia del 1968-1969. Con il “biennio rosso”, in particolare, sia le funzioni di selezione (rispetto al sistema economico) che di socializzazione (rispetto all’integrazione politica ed ideologica) entrarono in crisi.
Applicando lo schema interpretativo di Barbagli alle riforme della scuola proposte tanto dal centro-destra che dal centro-sinistra non si può non concludere che esse stanno al sistema scolastico emerso dagli anni sessanta come l’operazione di Gentile rispetto a quella di Casati: si muovono cioè nel senso di una maggiore professionalizzazione del sistema. E non può neanche sfuggire il fatto che la riforma del sistema dell’istruzione e della formazione cada in Italia in un contesto di persistenti ed alti livelli di disoccupazione e di lotte sociali puramente difensive quando non disperate. A grandi linee, l’impressione di déjà vu è forte. Se questo è vero si tratta in effetti di una contro-riforma che, come quella di Gentile, ha avuto una lunga gestazione e un consenso “trasversale”.
Si consideri quanto scrive Giovanni Genovesi, ordinario di Pedagogia generale nell’Università di Ferrara, appassionato difensore della scuola pubblica: “la riforma di Berlinguer non solo era lacunosa, ma tale che alcune di queste lacune hanno preparato la strada alle giustificazioni dell’operato del governo di centro-destra”. si tratta in particolare del “doppio canale circa la formazione professionale” e della equiparazione tra scuole pubbliche e scuole private. Genovesi poi aggiunge:

“il centro-sinistra può benissimo sbagliare e ha sbagliato. Ma lo ha fatto nello sforzo di realizzare un’idea di scuola. Il governo di centro-destra, invece, non ha nessuna idea di scuola. Proprio per questo non potrà mai realizzare una riforma di ciò che non sa e di cui non si preoccupa di sapere cosa sia”  (2).

Implicita l’analogia con il fascismo che “non ha una sua scuola, perché non ha un’idea di scuola. La prende in prestito da Gentile, ma non sa sfruttarla al meglio per i suoi fini perché, sostanzialmente, non la capisce” (3).

Nelle questioni della formazione professionale e della parità scolastica si possono dunque riconoscere evidenti tratti di continuità tra centro-sinistra e centro-destra: e si tratta di questioni fondamentali. Ma c’è di più. Le differenze negli ordinamenti, che pure sono importanti, i pasticci nell’implementazione e nel raccordo delle competenze tra Stato e Regioni, le sparate rozzamente ideologiche, non significano che la politica scolastica del centro-destra si caratterizzi per l’assenza una idea dell’istruzione e della formazione. Il punto è che centro-destra e centro-sinistra hanno la stessa idea fondamentale dell’istruzione e che il ministro Moratti non ha fatto altro che spingere alle estreme conseguenze una logica già operante nelle iniziative del ministro Berlinguer negli anni 1996-2000. Che la riforma della scuola possa essere in definitiva varata dal magnate dei mass media e da un ministro che viene da quel mondo è, per così dire, la giusta nemesi. Poste le premesse da Berlinguer “la scuola è pronta su un piatto d’argento perché il successore, Letizia Moratti, se la divori in un solo boccone in base a una cultura pseudo aziendalistica e pseudo cattolica - ma decisa, univoca ed efficacissima” (4).

La continuità nell’involuzione risulta tanto più forte quanto più se si considera la politica scolastica nel suo insieme, comprese le innovazioni introdotte nei contratti nazionali del comparto, ed in raccordo con la politica del lavoro (il “pacchetto Treu e la legge 30, ad esempio).
Nell’istruzione come in altri campi emergono due linee che, più che alternative sono caratterizzabili come complementari. Schematicamente, quella del centro-destra, che si potrebbe definire “tatcheriana-reaganiana”, idealmente postula come unica realtà gli individui (e le famiglie), assumendo che un mercato perfettamente concorrenziale conduca all’equilibrio. Ovviamente, a partire dalla posizione monopolistica dell’imprenditore Berlusconi, la realtà è tutt’altra; ed anche per questo l’ideologia del mercato deve essere combinata con la la “tradizione” cattolica.
Nell’altra linea, che si potrebbe dire “clintoniana”, l’azione statale non si identifica necessariamente con l’inefficienza e l’irrilevanza, a condizione che essa non solo si ridimensioni e si modelli, nelle procedure e negli strumenti, sul “mercato”, ma sia finalizzata a valorizzare quelli che, nell’economia globale, sono i fattori meno mobili. Tra questi, innanzitutto, il “capitale umano”. L’intera società “nazionale” è dunque concepita come una enorme azienda in concorrenza con altre nel “mercato globale”. Anche grazie al rapporto privilegiato con le maggiori organizzazioni sindacali il rapporto tra politiche pubbliche e “mercato” è più mediato, ma anche profondamente interiorizzato.
Entrambe le linee concepiscono la politica sociale, e quindi anche la riforma della scuola, come una funzione della competizione globale. Per fare un solo esempio, il prof. Bertagna ci insegna che “l’Italia è in crisi economica perché ha carenza qualitativa di ‘capitale umano’ ”, che il lavoro postfordista “deve essere sempre più ricco di conoscenze scientifiche, di cultura e di intelligenza del soggetto”, che si può “cercare di concepire e praticare il lavoro non come utilità, ma come compito; non come mezzo, ma come fine, che è poi dire realizzazione di sé” (5).

Se si mettono la parte la lirica idealizzazione del lavoro “postfordista” e la retorica personalistica, sia i riformatori di centro-sinistra che di centro-destra presuppongono che con l’avvento della “società della conoscenza” e della globalizzazione economica cada la distinzione tra istruzione (liceale) e formazione professionale in quanto “il sapere e il fare diventano due facce inscindibili della stessa medaglia”. Essi non solo hanno una concezione strettamente funzionalistica del rapporto tra sistema scolastico e mercato del lavoro; non solo trascurano le ragioni profonde del peggioramento delle tendenze economiche mondiali a partire dal 1973; non solo caricano l’istruzione e la formazione di un eccesso di responsabilità, coprendo così la deliberata rinuncia politica ad affrontare direttamente i problemi della disoccupazione, dell’ineguaglianza, dell’emarginazione sociale e della politica industriale. L’autentica novità del modo in cui è concepita la riforma della scuola oggi, a destra ed a “sinistra”, risiede nella volontà di modellare il funzionamento interno del sistema scolastico e lo stesso processo di insegnamento e apprendimento sulla base di criteri “economicistici” e di una mentalità aziendale. Come si vedrà, è in questo che risiede il carattere postmoderno della riforma.
Concretamente, e al di là delle polemiche da salotto televisivo, una convergenza di sostanza tra gli opposti schieramenti elettorali si può individuare nelle leggi di alcune Regioni dove il centro-sinistra è maggioranza e nell’idea che la riforma Moratti sia da emendare e “migliorare”, non da cancellare.

2. Si è detto prima che sia per il centro-sinistra che per il centro-destra la netta distinzione tra istruzione liceale e formazione professionale non sia più accettabile. A mio parere questo è il postulato da cui derivano come corollari tutti gli altri aspetti della trasformazione della struttura e delle finalità del sistema scolastico. Si tratta anche della questione politicamente fondamentale.
Secondo il marchese di Condorcet primo scopo dell’istruzione repubblicana, doveva essere "stabilire tra i
cittadini un’uguaglianza di fatto e rendere reale l’uguaglianza politica riconosciuta dalla legge”. Con quelle parole si affermava il diritto universalistico allo studio tra le condizioni del libero sviluppo dell’individualità, della democrazia, e del benessere sociale. Questo diritto ha dato luogo alle lotte per la sua istituzionalizzazione come obbligo scolastico e poi a quelle per la sua estensione ed effettiva realizzazione. Tra queste figura anche la lotta contro una struttura del sistema scolastico che riproduce distinzione e privilegi sociali e predetermina la futura posizione della posizione del singolo in una società divisa in classi sociali, quindi per la sua apertura e deprofessionalizzazione. Lotta, in altri termini, per un obiettivo di democrazia sociale.
Ma oggi, ci informa il Rapporto che prende il nome dal prof. Bertagna, esperto al servizio del Ministro Moratti, il concetto di obbligo scolastico “sembra essere giunto al termine della sua luminosa parabola”, addirittura “rischia di risultare più un handicap che una risorsa al pieno sviluppo dei diritti di cittadinanza” (6). Per fortuna è pronta l’alternativa: alla rigidità del diritto allo studio nella forma dell’obbligo scolastico si sostituisce l’innovativa flessibilità dell’obbligo formativo. In questo centro-destra e centro-sinistra sono, nella sostanza, perfettamente concordi: l’obbligo formativo può infatti essere assolto a) nel sistema di istruzione scolastica; b) nel sistema della formazione professionale di competenza regionale; c) nell’esercizio dell’apprendistato (7).

Su quale base si nega l’obbligo scolastico fino al diciottesimo anno d’età, sostituendolo con l’obbligo formativo? La tesi, hanno congiuntamente argomentato, i professori Bertagna e Maragliano, è che nella contemporanea “società della conoscenza” non si dia più “un assetto sociale dei saperi e delle tecniche sostanzialmente stabile” (8). Conseguentemente, sono ormai “inservibili le artificiose separazioni del passato tra sapere e lavoro, tra istruzione da una parte e istruzione-formazione professionale dall’altra” (9).

Sembra che i Professori non abbiano mai sentito parlare di una prima, seconda, e terza rivoluzione industriale e della crescente integrazione tra ricerca di base ed applicata (che non significa identità) già negli ultimi decenni del XIX secolo. D’altra parte, centro-destra e centro-sinistra mantengono il doppio canale istruzione-formazione professionale, che pure si vogliono improbabilmente integrati e di “pari dignità”. Si pensa forse che i crediti acquisiti giocando a soccer o nella pulizia degli uffici dove sono dislocati i computer possano risultare utili nell’apprendimento dell’inglese e dell’informatica.

3. Se il concetto di obbligo scolastico è obsoleto, ne consegue logicamente che obsoleto sia anche quello della natura pubblica e nazionale del sistema scolastico.
Nell’articolo da cui sono tratte alcune delle precedenti citazioni i professori Bertagna e Maragliano oppongono allo statalismo gerarchico e centralista di matrice napoleonica la nuova realtà della non coincidenza tra Repubblica e Stato: in base all’art. 1 della Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 la prima è infatti ora “costituita dai Comuni, dalle Province, da "le Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. La stessa legge attribuisce allo stato legislazione esclusiva per quanto riguarda “le norme generali sull’istruzione”, e alle Regioni legislazione esclusiva sulla formazione e istruzione professionale e capacità di legislazione concorrente in materia di istruzione. Abbastanza da creare confusione e conflitti di competenze, come dimostrato dalla richiesta da parte della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome (ad eccezione di Lombardia, Veneto e Molise) di ritirare lo schema di decreto legislativo sul secondo ciclo scolastico nel luglio 2005. Stante le pretese di “pari dignità” tra istruzione e formazione e l’integrazione tra “sapere” e “saper fare”, le “passerelle” ed il sistema dei crediti, si può prevedere una crescente invasività delle Regioni nel campo dell’istruzione mentre, nello stesso tempo, saranno gelose delle loro competenze esclusive sulla formazione professionale. La “privatizzazione” del sistema scolastico si può dire consegua, prima che dal paventato ingresso di sponsor privati e imprenditori nella gestione delle scuole, dall’introduzione di norme che non possono che spingere verso la sua frammentazione lungo assi confessionali e geografici. Ci si può chiedere che senso abbia il valore legale del titolo di studio.
Parificazione e regionalizzazione non sono solo meschine concessioni alle “forze” cattoliche o alla rude “razza padana”. Il disegno ha una sua laica e razionale coerenza bipartisan, consegue dalla introduzione dell’obbligo formativo e dal modellamento del funzionamento e delle finalità delle scuole sulle categorie del mercato e dell’utilità (economica). La fine del “centralismo napoleonico” è in effetti la fine della centralità della scuola come spazio che, nel suo interno operare, si sottrae all’influenza diretta delle forze squilibranti e polarizzanti del mercato (non del capitalismo come totalità sociale) anche perché unitario e nazionale.

Nella prospettiva della riforma le scuole diventeranno fornitrici di un servizio che nella sua peculiarità si definisce in termini di competenze utilizzabili nel lavoro e di orientamento individuale, fin dalla scuola dell’obbligo, al mercato del lavoro. In questa logica si intende anche il “portfolio delle competenze” che si profila essenzialmente come una combinazione “kafkiana” tra l’ennesima assurdità burocratica e la promozione pubblicitaria del figlio da parte dei genitori, con un’aspetto “foucaultiano” di individualizzazione disciplinante dell’allievo. La formazione propriamente culturale, non “spendibile” nel mercato del lavoro perché “astratta”, passa in secondo piano. Per cui, ad esempio, nel Liceo economico l’indirizzo economico-aziendale si baserà su competenze “orientate sui settori dei servizi, del credito, del turismo, delle produzioni agro-alimentari e della moda, rimessi alla libera scelta dello studente e in relazione al tessuto economico, sociale e produttivo del territorio” (Decreto legislativo 17 ottobre 2005, art. 6).

Il senso dell’ossessivo riferimento alla famiglia a mio parere si comprende non tanto considerandone l’ideologia e le funzioni tradizionali, ma la specifica posizione di cliente potenziale nel mercato delle “offerte formative” elaborate da ciascuna scuola.
Apparentemente, con la fine del “monopolio” pubblico e statale e con l’introduzione della concorrenza tra le scuole nel mercato dell’offerta formativa, istituito per volontà politica e con atto statale, quel che si celebra è la sovranità del consumatore-utente, da allettare con gadget di vario genere (“progetti” ed attività non culturali) e con l’individualizzazione, o frammentazione, dei percorsi formativi.
Ma se l’efficienza dell’impresa si misura con gli utili della stessa, è ovvio che l’impresa-scuola debba essere sottoposta a rigorosi vincoli di bilancio, idealmente ad un totale auto-finanziamento: e qui la virtù macroeconomica liberale della riduzione della spesa per l’istruzione pubblica (non dei sussidi alla scuola privata) e della privatizzazione dei servizi sociali si sposa con la virtuosità microeconomica delle imprese-scuola in concorrenza per la clientela-utenza.
In realtà a trionfare è la logica impersonale della mercificazione e la sostanza della stessa, ovvero l’ineguaglianza socio-economica e socio-culturale dei potenziali clienti-utenti, la gerarchia delle imprese-scuola e l’ineguale sviluppo dei rapporti sociali nel territorio.
Quanto più le scuole si conformeranno alla logica del mercato, tanto più nel sistema scolastico aumenterà il peso diretto delle ineguaglianze socio-economiche e socio-culturali e tanto meno esso riuscirà a neutralizzarle, sia per le diversità di risorse delle scuole, in considerazione anche dei diversi livelli di sviluppo del territorio, sia per lo scadimento della qualità dell’insegnamento.
Ma, come ha scritto l’ex ministro Berlinguer: “La società ha sempre più bisogno di capacità di iniziativa. Diventa quindi essenziale l’educazione all’autoimprenditività e alla capacità di autopromuoversi”  (10).
Che le scuole debbano farsi impresa non è quindi un segreto da svelare ma è una realtà attivamente promossa e l’orizzonte culturale di quel che è stata definita “autonomia scolastica”. Questa si concretizza nel cosiddetto Piano dell’offerta formativa, nella ridefinizione della figura del Preside, ora dirigente-managers, nella creazione di figure-obiettivo o strumentali al suddetto POF, nel proliferare di termini e procedure aziendalistiche ma del tutto estranee alla logica di una comunità pedagogica ed alla formazione di soggetti in possesso degli strumenti concettuali che consentano di porre una distanza critica tra se stessi e il mondo e di interrogarsi sul proprio vissuto costituendosi in individualità autonome e attive nella società.
4. Le imprese, così insegna la teoria, si differenziano dal mercato per essere organizzazioni gerarchiche in cui il comando sostituisce la contrattazione. Per le scuole-imprese ciò comporta diverse conseguenze.
Innanzitutto, che quella situazione di quasi democraticità nel funzionamento delle scuole, istituzionalizzata negli organi collegiali (consigli di classe, collegio docenti, consiglio d’istituto), eccezionale nella Pubblica Amministrazione e non a caso istituiti nel 1974 sull’onda lunga del “1968”, risulta non funzionale (11).
Con tutti i loro difetti, in gran parte conseguenza e non causa dei livelli reali di partecipazione attiva e di proposta politica, specialmente i consigli di classe e il collegio docenti sono stati e possono essere sedi di discussione reale, di conflitto e di cooperazione, spazi entro cui costruire un dialogo pedagogico ed una comunità di lavoro effettivamente autonoma.
Non è dunque un caso che nel 2004 sia scaturito dalla VII Commissione permanente della Camera dei deputati un testo che ridisegna il “governo delle istituzioni scolastiche” in modo così spudoratamente aziendalistico ed autoritario da guadagnarsi una valutazione sostanzialmente negativa anche da parte del Consiglio nazionale della pubblica istruzione (Nella pronuncia del 21 dicembre 2004). Il punto cruciale è la concentrazione dei poteri di indirizzo oltre che di gestione, di convocazione degli organi e di definizione dell’ordine del giorno, nelle mani del preside-manager, a danno della sovranità del collegio docenti in materia di scelte didattiche.
Nella logica della scuola-azienda l’ideale sarebbe un autentico consiglio d’amministrazione con maggioranza predeterminata dai finanziatori e dai cosiddetti esperti (quegli “operatori estemporanei”, così li definisce opportunamente il Cnpi, che, nel testo prima citato, figurano quali membri del collegio docenti, mentre è esclusa la rappresentanza del personale ATA).
Ma non è però necessario giungere a tanto. Innanzitutto perché i contratti nazionali della scuola hanno incentivato la formazione di figure burocratiche premiando le attività non di insegnamento e delineando una “carriera” distinta dallo stesso e legata ad attività gestionali ed “educative” di vario genere. Parallelamente, le disposizioni ministeriali hanno portato a sostituire il confronto reale sui bisogni degli allievi e sull’insegnamento delle discipline con l’adattamento alle normative della nuova didattica. Il risultato è la perdita di senso del lavoro, il proliferare del burocratismo e del carrierismo, la limitazione della libertà d’insegnamento. Quindi, come è normale, il modello aziendale produce una “catena di comando” burocratica e modalità di organizzazione del lavoro che possono più agevolmente controllare il personale. Il “comico” della faccenda è che questo va a danno del servizio che dovrebbe costituire la “ragione sociale” della scuola: sicché i clienti-utenti saranno sempre più esposti alla truffa.

5. Del funzionalismo dei riformatori si è già detto. Tra chi si oppone alla riforma è diffusa l'idea che essa sia economicamente funzionale sia perché la “rivoluzione informatica” consente di modellizzare anche il lavoro mentale scomponendolo in moduli ed in prestazioni quantitativamente misurabili, permettendo così la divisione e precarizzazione (anche) del lavoro intellettuale; sia perché, essendo la conoscenza incorporata nel macchinario, più che lavoratori la scuola deve formare consumatori e mediatori tra produzione e consumo che sappiano come usare, e vendere, i nuovi prodotti. Le due linee non sono alternative, e contengono, a mio parere, un nocciolo di verità. Il loro rischio è che l’enfasi unilaterale su determinate forme e tipologie di lavoro o sul “tempo di consumo” portino a svalutare la complessità e la contraddittorietà della riproduzione del capitalismo come totalità sociale e della dinamica dell’accumulazione e della competizione, e che l’enfasi sulla “conoscenza” e la “comunicazione” portino alla “smaterializzazione” del rapporto di produzione. Inoltre, come il lavoro manuale anche il lavoro intellettuale è sottoposto a processi di dequalificazione ma anche di riqualificazione. Il problema fondamentale è la riproduzione del comando sul lavoro salariato, manuale ed intellettuale, più o meno qualificato.
Anche in presenza di politiche che vogliono essere economicamente funzionali, il funzionalismo non è convincente. Come è noto l’Italia è entrata nell’epoca della televisione saltando quella della vera e propria scolarità di massa. Quando si parla di “scuola di massa” è ben non dimenticare che la soglia del 50% del tasso di scolarità nella fascia d’età fra i 15 ed i 19 anni venne superata in Italia solo alla fine degli anni settanta. Eppure, fin dai primi decenni post-unitari, i tassi di disoccupazione intellettuale sono stati relativamente alti.
Il paradosso della simultanea presenza di un alto livello di disoccupazione intellettuale e di un forte ritardo nel livello e nella qualità della scolarizzazione rimanda a caratteristiche strutturali del capitalismo italiano: il suo essere un late comer, il dualismo territoriale tra triangolo industriale e Mezzogiorno, il dualismo nelle dimensioni dell’impresa, la specializzazione produttiva e la posizione nella divisione internazionale del lavoro. Relativamente a quella di altri paesi industrializzati e a capitalismo avanzato l’economia italiana nel suo complesso non si è mai caratterizzata per essere all’avanguardia dell’innovazione tecnologica. Dal punto di vista merceologico il tanto vantato made in Italy ci colloca, in effetti, in una posizione intermedia tra le grandi potenze industriali e i paesi di più recente industrializzazione come la Corea del Sud. Le recenti reazioni alle importazioni dalla Repubblica Popolare cinese ne sono la conferma; così come la crisi della grande industria, FIAT in testa, e la snazionalizzazione della stessa.
Si può dire che la riforma della scuola tratti, in primo luogo, un problema secolare del capitalismo italiano, declinandolo nei termini nuovi della cosiddetta “società della conoscenza” e professionalizzando il sistema scolastico abbassandone, contemporaneamente, la qualità. Se si tiene conto di questo si eviterà di scivolare verso interpretazioni tendenti a enfatizzare l’emergere di una nuova qualità dei rapporti di produzione, ad esempio del tipo detto post-fordistico, magari valutati negativamente, ma assunti come quadro stabile di un nuovo regime di accumulazione del capitale e di una nuova qualità postmoderna, immateriale, cognitiva del lavoro nel quadro dell’economia globale deterritorializzata, ridotta a meri flussi sul modello della mobilità dei capitali speculativi e del “nomadismo” economico e sociale generalizzato. Troppo spesso si enfatizza la discontinuità e si estrapola costruendo un tipo che, più che ideale, appare come immaginario. Occorre invece sottolineare che nella (relativa) novità della ristrutturazione persistono e si aggravano questioni sociali ed economiche che hanno una lunga storia, espressione di caratteristiche strutturali di “lunga durata” della società italiana. E di un particolare capitalismo che nel quadro della competizione mondiale appare destinato al declino ed a una posizione del tutto subordinata.
Dal punto di vista dell’economia italiana la politica scolastica, come quella del lavoro (e altre), risulta funzionale solo nel senso che aderisce alle caratteristiche di lungo periodo del capitalismo nazionale, caratterizzato dai noti dualismi appena ricordati e dal primato del contenimento del costo del lavoro piuttosto che da una autonoma capacità nell’innovazione di processo. Col risultato che se ne riproducono le tare, piuttosto che superarle, con effetti sull’occupazione e la formazione di “capitale umano” potenzialmente catastrofici in quanto l’economia italiana si trova esposta alla concorrenza dei paesi a bassi salari nei prodotti ad alta intensità di lavoro, e dei paesi a capitalismo avanzato nell’innovazione di processo e di prodotto.

6. Più che strettamente funzionali dal punto di vista economico (nonostante le intenzioni), le linee della riforma della scuola sono omologhe alla cultura secreta dal capitalismo contemporaneo. Si tratta di una riforma che, nella sua “filosofia” è veramente postmoderna, se per postmoderno si intende la “logica culturale del tardo capitalismo”12. E’ quindi sotto il profilo culturale che la riforma segna una discontinuità che può dirsi a ragione “epocale”.
La cultura è da tempo una merce, ma un “oggetto” culturale che non è stato concepito per essere merce conserva oggettivamente un valore d’uso che può comunicare qualcosa oltre e perfino contro il valore di scambio di cui pure è portatore. Ma la mercificazione del processo di produzione degli oggetti culturali o, come nel caso dell’insegnamento, della loro trasmissione, non può che modificare il loro stesso valore d’uso a tutto vantaggio del valore di scambio. E’ il processo come tale che può diventare un messaggio culturale: e siamo alla “società dello spettacolo” e al mercato come spettacolo  (13).
Lo svuotamento di significato del valore d’uso dell’oggetto culturale significa anche obsolescenza di quella che i filosofi francofortesi chiamavano ragione oggettiva, a cui subentra una ragione sempre più strumentale, manipolatoria, soggettivistica e formalistica. La cultura postmoderna reale (non quella dei filosofi bene intenzionati) del tardo capitalismo è essenzialmente questo, ed è da tempo percepibile nelle caratteristiche cognitive e comportamentali degli studenti che in questa cultura sono nati e cresciuti permeandone la psiche fin dall’età prescolare. Se c’è qualcosa che si avvicina al “totalitarismo” è questo; e non per niente c’è chi parla di “mutazione culturale”. Le linee fondamentali delle leggi di riforma della scuola di questi anni non fanno altro che sancire e approfondire dall’alto una “rivoluzione”, da tempo strisciante, nel modo concreto di “fare scuola”, passivamente subita dalla maggior parte degli insegnanti, contrastata o sabotata da altri, perseguita in buona fede o per smania di protagonismo o ambizioni di carriera da altri ancora.
Il formalismo didattico ha già contribuito, nell’ultimo quarto di secolo, a minare dall’interno delle istituzioni scolastiche, il confronto con il significato e le contraddizioni di quella cultura. Gli insegnanti hanno resistito, nei limiti del possibile, mentre la burocrazia ministeriale, sindacale e pedagogica faceva del suo meglio per demotivarli ed asfissiarli, per convincerli che il buon insegnante non è colui che sa rapportarsi agli studenti in quanto mediatore di un oggetto di studio ma quello che sa far valere capacità e competenze “altre”, che sa esibirsi in performances organizzative, pubblicitarie ed “educative” (14).
L’imperialismo disciplinare della pedagogia e la volontà di potenza dei pedagogisti ha spinto, nella progettazione dell’insegnamento, a privilegiare il momento della verifica, per giunta intesa, nella presunzione di una maggiore “oggettività”, alla misurazione di tipo quantitativo dell’apprendimento. La conseguenza inevitabile è la svalutazione delle capacità qualitative, più complesse e non quantificabili: interpretative, di elaborazione personale, di connessione logica, di valutazione. In sintesi si tratta della deconcettualizzazione del sapere (15).
A crollare è ora, nonostante la generalizzazione del termine, l’idea secolare di Liceo in quanto distinto dalla mera preparazione professionale, dall’addestramento al lavoro. Questo definitivo cedimento al “mercato” non può portare che ad un ulteriore scadimento qualitativo dell’insegnamento e dell’apprendimento e non può non riflettersi anche sulla formazione dei nuovi insegnanti e sull’insegnamento universitario, a sua volta “liceizzato”.
E’ per questo che chi ha un concetto moderno, relativistico ma non nichilistico, della cultura e dell’istruzione non può fare a meno di ribellarsi all’ipocrisia della student-centered education in cui “si richiede non tanto la trasmissione di saperi solidi e resistenti, quanto la soddisfazione e il dolce benessere dei giovani” (16).
D'altra parte la logica culturale del postmodernismo non implica né una mutazione radicale del capitalismo, né una vera emancipazione dal modernismo stesso e dalle sue contraddizioni. Ne è una prova il feticismo tecnologico e informatico, il magico valore attribuito ai “nuovi e nuovissimi strumenti di comunicazione” onnipresente, come al solito a destra e a “sinistra”. E’ meritevole di divenire un classico (di cosa, esattamente, si lascia alla discrezione del lettore) la tesi del prof. Maragliano secondo cui “il videogioco è la più grande rivoluzione epistemologica di questo secolo”, in opposizione alla “cultura astratta” (17)
Questa esaltazione per la velocità, la simultaneità e la superficialità, questo appiattirsi sul dato materiale (e sociale) nel momento presente, pedagogicamente e politicamente nichilista, sarebbe forse piaciuta a Marinetti. Ma i futuristi, nella loro ribellione antipassatista e anti-borghese avevano il pregio della coerenza. Potevano, senza ipocrisie buoniste sulla “persona”, non solo sostenere la morte dell’Io e del sentimentalismo intellettuale ed amoroso, ma anche che, in quanto “secrezione cerebrale esattamente misurabile”, il pensiero si potesse pesare e vendere “come una merce qualunque” (18).
Mi sembra difficile negare che, dal punto di vista del diritto allo studio in quanto diritto universalistico, l’obbligo debba non solo essere esteso fino alla maggiore età, ma anche che debba essere scolastico in senso proprio. Il che implica un sistema scolastico realmente unitario, la negazione di ogni dualismo o doppio canale o alternanza scuola-lavoro, e la sua deprofessionalizzazione. Il che, per essere realizzato, a sua volta richiede un’insieme di politiche sociali ed economiche che non rientrano nelle prospettive del ceto politico: la gratuità degli studi, ad esempio, finanziati con una tassazione fortemente progressiva, o il riorientamento della politica economica dalla lotta all’inflazione alla riduzione della disoccupazione. E si tratta di porsi non formalisticamente, non con vuote parolette e classificazioni, l’enorme problema di far condividere a tutti i giovani la migliore formazione umanistica e scientifica di base senza compromettere l’eccellenza. Utopistico? Lo era anche il suffragio universale nei sistemi liberali e maschilisti; e certamente non è più utopistico della pretesa “pari dignità” tra istruzione liceale e apprendistato in una società di classe.

________________________________________________________________

Note

(1) Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia (1859-1973), Bologna, il Mulino, 1974.

(2) Giovanni Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, nuova ed. accresciuta e aggiornata 2004, p.227.

(3) Ibidem, p. 127.

(4) Giorgio Bertone, Sulle riforme e sui riformatori, in Tre più due uguale zero. La riforma dell’Università da Berlinguer alla Moratti, a cura di Gian Luigi Beccaria, Garzanti, Milano, 2004, p. 90.

(5) Giuseppe Bertagna, Formazione e istruzione: una circolarità da riscoprire, sul sito della AND.

(6) Rapporto finale del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D.m. 18 luglio 2001, n. 672, p. 30. O Rapporto Bertagna.

(7) Cfr. la L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 68 e i Regolamenti attuativi del 9 agosto 1999 e del 7 luglio 2000).

(8) Giuseppe Bertagna e Roberto Maragliano, Dal metodo napoleonico al sistema delle autonomie, in “Corriere della Sera”, 16 dicembre 2002.

(9) Rapporto Bertagna, p. 13.

(10) Luigi Berlinguer, La scuola nuova, Laterza, Roma-Bari, 2001, con prefazione di Tullio De Mauro, p. 37.

(11) In effetti gli organi collegiali della scuola non furono “conquiste” del movimento degli studenti, nella sua fase ascendente, che era semmai orientato alla “democrazia diretta”, ma una modalità di canalizzazione e neutralizzazione in ambito istituzionale della radicalizzazione giovanile, in un quadro di normative ispirate alle ideologie del pluralismo e della partecipazione, in versione catto-comunista italiana, enfatizzante il momento della collaborazione e dell’armonizzazione rispetto a quello della conflittualità.

(12) Cfr. Frederic Jameson, Postmodernism, or the cultural logic of late capitalism, London, Verso, 1984; trad. ital. Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989.

(13) Cfr. Guy Debord, La société du spectacle, Paris, Buchet/Chastel, 1967; trad. ital. La società dello spettacolo, Bolsena, Massari, 2002.

(14) Si vedano, oltre ai saggi nel volume citato a cura di Gian Luigi Beccaria: Giulio Ferroni, La scuola sospesa. Istruzione, cultura e illusioni della riforma, Torino, Einaudi, 1997; Luigi Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Milano, Feltrinelli, 1998; Polacco Fabrizio, La cultura a picco. Il nuovo e l’antico nella scuola, Venezia, Marsilio, 1998; Luperini Romano, Il professore come intellettuale. La riforma della scuola e l’insegnamento della letteratura, Milano e Lecce, EdC-Lupetti-Piero Nanni, 1998; Cesp-COBAS, Vecchi e nuovi saperi, Bolsena, Massari, 2001. Per chi scrive libro migliore sulle tendenze della scuola e il lavoro dell’insegnamento è quello di Massimo Bontempelli, L’agonìa della Scuola italiana, Pistoia, Edizioni CRT, 2000.

(15) Cfr. Luigi Russo, op. cit.

(16) Ferroni, op. cit., p. 91.

(17) Roberto Maragliano, intervista pubblicata su “l’Unità” del 5 febbraio 1997; si vedano anche Ferroni, op. cit., p. 98, e Russo, op. cit., p. 90.

(18) Bruno Corra e Emilio Settimelli, Pesi, misure e prezzi del genio artistico (1914), in Prosa e critica futurista, a cura di Mario Verdone, Feltrinelli, Milano, 1973.


PUBBLICATO NELLA RIVISTA «INCHIESTA» N. 150, OTTOBRE-DICEMBRE 2005.

Nessun commento:

Posta un commento

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF