Diari di Cineclub

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giovedì 7 aprile 2011


                    ARRIVEDERCI BANDIERA ROSSA

                                          di EVGENNIJ EVTUŠENKO


Arrivederci, bandiera rossa –
dal Cremlino scivolata giù
non come ti innalzasti,
agile,
lacera,
fiera,
sotto il nostro esecrare
sul fumante reichstag,
sebbene pure allora,
intorno all’asta, truffa si attuasse.

Arrivederci, bandiera rossa…
eri metà sorella, metà nemica.
Eri in trincea speranza
unanime d’Europa,
ma tu di rosso schermo
recingevi il GULAG
E sciagurati tanti
in tuta da carcerati.

Arrivederci, bandiera rossa.
Riposa tu,
distenditi.
E noi ricorderemo quelli
che dalle tombe
più non si leveranno.
Gl’ingannati hai condotto
al massacro,
alla strage.
Ricorderanno anche te –
ingannata tu stessa.

Arrivederci, bandiera rossa.
Non ci portasti bene.
Grondavi sangue
e te
noi col sangue togliamo
Ecco perché adesso
lacrime non ci sono da detergere,
così brutalmente sferzasti,
con le nappe scarlatte, le pupille.

Arrivederci, bandiera rossa…
il primo passo verso la libertà
lo compimmo d’impulso
sulla nostra bandiera
e su noi stessi,
nella lotta inaspriti.
Che non si calpesti di nuovo
«l’occhialuto» Živago.

Arrivederci, bandiera rossa…
Da te disserra il pugno,
che ti serra di nuovo,
ancora minacciando fratricidio,
quando all’asta
si afferra la marmaglia
o la gente affamata,
confusa dalla retorica.

Arrivederci, bandiera rossa…
Tu fluttui nei sogni,
rimasta una striscia
nel russo tricolore.
Nelle mani dell’azzurrità
e del biancore
forse il colore rosso
del sangue sarà liberato.

Arrivederci, bandiera rossa…
Guarda, nostro tricolore,
che i bari di bandiere
non barino con te!
Possibile anche per te
Sia lo stesso giudizio:
pallottole proprie e altrui
ne hanno la seta divorato?

Arrivederci, bandiera rossa…
Sin dalla nostra infanzia
noi giocavamo ai «rossi»
e i «bianchi» battevamo forte.
Noi, nati nel paese
che più non c’è,
ma in quella Atlantide
noi eravamo,
e noi amavamo.

Arrivederci, bandiera rossa…
Ora, nel gran bazar d’Ismajlovo,
ti smerciano per pochi dollari,
alla meglio.
Io non ho preso il Palazzo d’inverno.
Non ho assaltato il reichstag.
Non sono un «kommunjak».
Ma guardo la mia bandiera e piango.
 

     A PROPOSITO DI EVTUSENKO - RICORDI PERSONALI
                            di Alfredo Mazzucchelli

Un pomeriggio di una estate umida ed afosa dei primi anni novanta sono con mia moglie in cerca di un po’ di aria fresca in località Campocecina a 1300 metri sul mar Tirreno. Il giardino a terrazza è del ristorante. Mano nella mano, semidistesi su sedie a sdraio, con gli occhi socchiusi sotto... un ombrellone parasole, ci godiamo il riposo e la gioia della nostra convivenza. Carrara è prostrata in basso, “dove ronca lo carrarase che di sotto alberga, ed ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca per sua dimora; onde a guardar le stelle e 'l mar non li era la veduta tronca”. (Dante)
Carrara è cinta da contrafforti collinari ed alpestri con un unico sbocco verso il mare, ed è umiliata dal devastante spettacolo consumato sulle sue cave di marmo, tributo pagato ad un cieco, irrispettoso e devastante profitto.
Due esseri ancora giovanili dovevano suggerire tenerezza e richiamare attenzione, tanto è che ad un certo momento un altra mano si posa sulla mia,apro gli occhi ed una signora che allora mi dovette apparire assai vecchia ( crudeltà del relativismo! ) mi disse che il suo compagno di viaggio avrebbe avuto piacere di fare la nostra conoscenza attratto come era dal nostro suggestivo quadretto. Lei era la traduttrice italiana delle sue opere Lui era EVGENNIJ EVTUŠENKO.
Dopo qualche preliminare d’obbligo, la conversazione presto si incanalò sul tema che evidentemente stava a cuore ad entrambi: la condizione della Russia del momento, alla luce della caduta del muro di Berlino e del prevedibile smembramento della URSS. Il poeta era ancora membro del parlamento sovietico (o di quel che ne rimaneva) e nutriva aspettative riformatrici, io gli esternai la mia convinzione circa la irreversibilità di quel processo che avrebbe significato la definitiva sconfitta della illusione autoritaria e stalinista.
L’uomo assunse un atteggiamento distaccato e mi disse che comunque lui si sarebbe interessato, da ora in poi, alla storia dei movimenti rivoluzionari russi, quasi a voler prendere le distanze dalle problematiche del momento. Gli parlai allora della machnovicina e che sarebbe stato interessante da parte sua rivalutarne le storia e metterne in giusto rilievo l’importanza dell’azione e del progetto. Si dichiarò entusiasta a tal punto che l’indomani gli dovetti portare dei libri riguardanti l’esperienza di Machno all’albergo di Viareggio dove pernottava. Il compito adesso passò alla traduttrice, anche se, osservai, che anche in russo dovevano esistere delle traduzioni dal francese degli scritti di Machno. Ci lasciammo con scambi di indirizzi e di reciproche considerazioni, ma soprattutto con la sua promessa che sulla machnovicina ne avrebbe scritta l’”epopea”. Ancora sto aspettando.
 
5 aprile 2011
 
 

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