Diari di Cineclub

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giovedì 5 dicembre 2013

INTERNAZIONALISMO di Riccardo Venturi



INTERNAZIONALISMO
di Riccardo Venturi



Era piuttosto semplice essere internazionalisti.

A casa propria, naturalmente. A parte un pugno di quelli veri, che prendevano armi e bagagli e andavano a combattere realmente dove si combatteva, e ci morivano. Talmente pochi, che oggi ci scrivono dei libri sopra; quei pochi che andavano incontro alle cose.

Mi dicono, e mi ripetono, che allora tutti si sentivano coinvolti da tutto ciò che accadeva nel mondo, perché quel che accadeva nel mondo riguardava tutti. Se una data situazione era relativamente vicina, arrivavano magari gli studenti come quelli greci negli anni della dittatura dei Colonnelli; ma si mostrava solidarietà attiva anche nei confronti di avvenimenti lontanissimi, come quelli del Cile o dell'Angola. Ogni tanto si vedeva qualche esiliato.

E così, in questi giorni, mi sento fare spesso un discorso. Mi dicono che, di fronte a quel che è successo a Prato pochi giorni fa, la mobilitazione sarebbe stata immediata. Senza dubbio; il problema è che, allora, i sette lavoratori cinesi bruciati nel capannone non c'erano. Non c'erano né le Chinatown a due passi da casa, né le immigrazioni di massa. Lampedusa era una meravigliosa isoletta più vicina all'Africa che all'Italia, dove faceva sempre caldo. E c'era tanta solidarietà quotidiana, tanto coinvolgimento senza avere quei cazzo di coinvolti tra i coglioni nelle città, nelle fabbriche, nei campi di pomodori, nei mercatini, nelle case occupate.

E così, oggi, sette lavoratori cinesi morti bruciati mentre dormivano dentro una fabbrica non coinvolgono più nessuno; la cosa passa e va, col solito balletto istituzionale, i lutti cittadini, i “non ce la facciamo più” e, in realtà, la più gelida indifferenza. E chi se ne frega, so' cinesi. Niente più sventolii del Libretto Rosso, ora si sventola il libretto di lavoro. Chissenefrega se solo due anni fa un nazista armato si è presentato in piazza Dalmazia sparando addosso ai negri. I cinesi? Ce ne stanno duemila in due metri quadri, chissà come hanno fatto a bruciare solo in sette.

Quando il coinvolgimento ce lo abbiamo avuto sotto il naso, nella quotidianità; quando si trattava di manifestare solidarietà per quel che succedeva a Rosarno, e non in qualche Mozambico; quando si trattava di mobilitarsi ogni giorno perché quel che accade a chiunque, qua accanto a noi, riguarda davvero tutti e non certamente nelle fulgide idealità; quando non ci si accorge nemmeno che i lavoratori del settore della logistica stanno lottando da mesi tutti assieme, italiani e stranieri, senza differenze; quando sarebbe necessario e anche più facile mettere in pratica questa cosa elementare, dato che le situazioni sono arrivate qui da noi in tutta la loro crudezza, e non più attraverso i racconti e le testimonianze di qualche esiliato; allora la solidarietà è scomparsa.

E' scomparsa la mobilitazione. E' scomparso il coinvolgimento. Bruciano i cinesi; nemmeno un misero presidio. Eppure sono sette lavoratori, sette schiavi, sette come quelli della Thyssen. Eppure si sa benissimo perché sono morti, e anche chi li ha ammazzati. Eppure si sa bene che il Casseri ha sparato ai senegalesi come altri pari a lui sparerebbero agli italiani; si dice sempre che “potrebbe toccare a chiunque” ma, nella realtà, se tocca a dei cinesi l'indifferenza si nutre proprio di questo. Sono separati. Sono misteriosi. Rispuntano le battute idiote sul fatto che “sono tutti uguali”. L'attenzione viene immediatamente spostata sul fatto che sono “clandestini” e “irregolari”, in un frangente in cui ci hanno spinto tutti quanti nella clandestinità di fatto e nell'invisibilità. E così un fatto come quello di Prato, oltre a scomparire dopo due giorni dalle cronache (nelle coscienze, comunque, non è mai nemmeno entrato), assolve esclusivamente alla funzione di passerella per gli assassini. Loro sì che sono coinvolti, e sanno di esserlo; logico che facciano di tutto per spostare l'attenzione sui terreni che fanno più comodo. Mica si parla di capitalismo globale, si parla delle condizioni di lavoro mentre gli stessi agiscono quotidianamente per smantellare ogni conquista. Parlano addirittura di “Auschwitz” nella fabbrica dei cinesi, senza essere mai entrati in un call center. Parlano di “offesa alla dignità dei lavoratori”, loro.

Di fronte a tutto ciò non sarebbe occorsa una semplice “mobilitazione”. Sarebbe occorso prenderli tutti quanti a mazzate, stiamoci poco a girare intorno. D'accordo la “solidarietà”, ma essa ha bisogno di parlare ogni volta un linguaggio adeguato per essere veramente capita ed avere, quindi, una reale efficacia. Nulla di tutto questo, naturalmente.

Com'era bello, sì, l'internazionalismo quando era bello lontano. Così rassicurante. Quando si espletava in un mondo ancora dilatato, e dove le distanze ancora esistevano. Si scendeva in piazza a migliaia e migliaia per l'aggressione all'Angola, e succedeva anche, a volte, che la polizia caricasse e sparasse; succedeva persino, in qualche caso, di rimetterci la pelle suscitando l'agghiacciante sarcasmo della stampa di regime (“Morire a vent'anni per l'Angola”, come titolò la “Nazione” dopo l'assassinio di Piero Bruno il 22 novembre 1975). Ora, invece, i cinesi possono pure bruciare nei loculi in cartongesso, finendo triturati nel chissenefrega più sovrano. Passati dal “ci riguarda tutti” al “cazzi loro” nel giro di una generazione, e in un momento in cui il coinvolgimento generale ce lo abbiamo, tutti i giorni, davanti al naso. In cui l'internazionalismo è venuto a farci una visita di massa. E così si rimuove. Anzi, che brucino tutti, così Prato tornerà ai pratesi; magari torneranno pure “di sinistra” con le case del popolo e l'Arcicaccia; e noialtri torneremo, invece, a manifestare per la vile aggressione imperalista al valoroso popolo senegalese mentre qualche fascista di Pistoia scorrazza per i mercatini armato fino ai denti.

Nessuno che dica che in quella fabbrica di Prato siamo morti anche noi, perché quelle persone erano come noi. Come noi stritolate negli ingranaggi. Come noi costrette a vivere una vita da schiavi. Come noi ammazzate dai padroni. Come noi obbligate a sottostare ai ricatti del sistema, perché qui non si tratta mai di stupide “filosofie” e di bizantinismi verbali. Si tratta della cruda realtà quotidiana, tanto visibile quanto ignorata. Invece no; sono cinesi di cui non si sa nemmeno il nome. Sono carne da macello come lo siamo noi, però a noialtri piace forse considerarci carne di prima scelta, bistecche sulla tavola del padrone.000


4 dicembre 2013


dal sito http://ekbloggethi.blogspot.it/




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