Diari di Cineclub

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giovedì 23 febbraio 2017

RIFECERO IL SACCO DI ROMA E LO CHIAMARONO STADIO di Fabio Cerulli







RIFECERO IL SACCO DI ROMA E LO CHIAMARONO STADIO
di Fabio Cerulli


 Un progetto abnorme. La spirale che ingoia il M5S. Il ruolo del PD e delle forze politiche. La campagna mediatica e la prefigurazione di un nuovo blocco sociale




La vicenda della grande speculazione edilizia che impropriamente viene chiamata dello “stadio della Roma” è emblematica di una molteplicità di aspetti che coinvolgono la pervasività del capitale finanziario e della rendita fondiaria, l’assetto delle relazioni di potere e di dominio nelle grandi città, la natura sociale del M5S e dei suoi gruppi dirigenti, le grandi questioni dell’urbanistica e della storia delle relazioni di subalternità al capitale immobiliare che tutte le amministrazioni hanno avuto in decenni. Se dovessimo partire dalla fine, dalle conclusioni, potremmo sintetizzare in questo modo:

Roma in particolare, ma molte altre grandi città, sono ormai – e non certo da oggi – in balia totale delle necessità di riproduzione della rendita fondiaria nel suo intreccio con banche e finanza. L’esigenza di vivibilità della città, di utilizzo degli spazi e del suolo, di disegnare uno spazio urbano secondo criteri di utilizzo sociale del territorio, di pensare allo stesso sviluppo di servizi essenziali (trasporti, verde, mobilità, attività ludiche) secondo una logica di servizio sociale e non di servizio funzionale alla valorizzazione del capitale, sono schiacciate ed annientate a tutto ed esclusivo vantaggio degli interessi delle classi dominanti della città che altri, in termini più neutri, si limitano a chiamare “poteri forti”: palazzinari, banchieri, speculatori vari, con il loro apparato di burocrati, politici asserviti, pennivendoli e poliziotti.
La cosiddetta “urbanistica contrattata” (concessione di cubature in cambio di infrastrutture e servizi), è ormai diventata sistema da un quarto di secolo, a partire da Rutelli e toccando il massimo vertice con il piano regolatore di Veltroni nel 2008. Con questa il “pubblico”, o quel che ne resta, abdica definitivamente a qualsiasi funzione di programmazione del territorio e di progettazione dell’assetto della città. Le logiche di austerità e le politiche di bilancio neoliberiste costituiscono il sostrato ed al tempo stesso la pezza di appoggio giustificativa di queste politiche.
Il M5S è ingabbiato nelle maglie della sua natura sociale e del suo programma socialmente piccolo-borghese e non soltanto non riesce (non vuole, non può) essere una alternativa, ma è costretto anche a rimangiarsi gran parte di quanto a parole proclamato e a deludere tutte le aspettative “progressiste” che pure aveva suscitato, adattandosi alla logica dei patteggiamenti e delle collusioni, neppure tanto nascoste, con i padroni autentici della città
La campagna mediatica di violenza inaudita alla quale è stato, ed è ancora, sottoposto chi si oppone alla speculazione di Tor di Valle (da Berdini ai comitati territoriali, dagli ambientalisti agli urbanisti, alle poche e fioche voci politiche contrarie) sono il combinato disposto di una abile orchestrazione che fa leva su tutti i diffusi stereotipi dell’ideologia dominante neoliberista e sulla strumentalizzazione di una tradizionale passione popolare sportiva, ha lo scopo di creare un consenso di massa non solo su questa specifica speculazione, ma su tutte le cementificazioni future fatte passare per “riqualificazione” e toccasana per l’occupazione. Dobbiamo purtroppo dire che questa campagna sta producendo gli effetti sperati da chi l’ha messa in campo.
La possibilità di opporsi, però, è tuttavia ampia. Rimane una sensibilità sociale ancora diffusa sul fatto che il peggioramento delle condizioni di vita nella città in questi decenni è stata anche determinata dalle dissennate non-politiche urbanistiche e di gestione del territorio e dallo strapotere dei costruttori. Ma queste sensibilità diffuse non trovano terreni per esprimersi nella lotta e nell’iniziativa per il combinarsi dell’assenza di soggettività politiche che la rappresentino e della debolezza dei movimenti dal basso che dovrebbero contrastare i progetti di cementificazione. Il passaggio decisivo dovrà perciò essere la costruzione di una piattaforma di proposte e rivendicazioni sulla città di Roma che sia il terreno che unifichi le lotte per la difesa dei territori con quelle per la ripubblicizzazione dei servizi e contro le politiche di austerità di bilancio e per il non riconoscimento del debito.

Ma andiamo per parti.

Un progetto abnorme

Quando si parla del progetti dello “Stadio della Roma” si compie una mistificazione, prima ancora che un errore concettuale. Nella speculazione di Tor di Valle la cubatura destinata all’impianto è soltanto il 14% di quella complessivamente prevista. Il resto è un diluvio di altri 800.000 metri cubi di cemento che forma un “business-park” di uffici, centri commerciali, alberghi e tre enormi torri (la più alta è di 200 metri) totalmente fuori contesto dal buonsenso architettonico. La più grande colata di cemento che sia in progettazione in Europa, l’ha definita l’urbanista Portoghesi (non certo un estremista). Il progetto è stato localizzato in un’area poco servita, verde ma in stato di abbandono dopo la chiusura dell’ippodromo, con evidenti problemi di viabilità, raggiungibilità e rischi di esondazione. Allora perché proprio lì? La storia è davvero emblematica: il palazzinaro Parnasi (vicino al PD ed erede di quella curiosa genìa tutta romana di quella che viene comunemente definita – con scarso senso del ridicolo – dei palazzinari “rossi”, tipo Marchini), reduce da una serie di imprese fallimentari come le torri di Euroma (un altro obbrobrio a pochi chilometri di distanza rimaste sostanzialmente vuote) è indebitato fino al midollo con Unicredit: una esposizione di 450 milioni di euro tramite la sua società Parsitalia. Parnasi acquista i terreni da una società fallita a prezzi da saldo e si offre come location e “sviluppatore” (così adesso si fanno chiamare) per lo stadio e soprattutto per tutto quello che ci sarà intorno. Incorpora i terreni nella società Eurnova che di fatto ora costituisce l’unico asset di una certa importanza di un Parnasi oramai quasi con l’acqua alla gola. Unicredit vede in questa operazione la possibilità di rientrare dei debiti di Parnasi e tramite i suoi strettissimi rapporti con la proprietà di AS Roma – di cui aveva finanziato il salvataggio – pilota e instrada la proposta a Pallotta, presidente della Roma ma soprattutto gestore negli USA di fondi di investimento e grande speculatore finanziario. La compagine dei proponenti avvia una trattativa con la giunta Marino che avvia la “contrattazione” urbanistica. Il Comune – ovviamente – non ha un centesimo per le urbanizzazioni e le infrastrutture e così i proponenti si offrono “generosamente” di realizzarle in cambio di ulteriori cubature che lieviteranno fino al mostro finale. Il sindaco Marino e l’allora assessore Caudo non fanno una piega: concedono la delibera di interesse pubblico e diventano i paladini, anzi gli ultrà del progetto, spacciandolo per “sviluppo” e “occasione per Roma”. Occasione di cosa? In realtà si tratta della distruzione di un area verde potenzialmente rinaturalizzabile come gran parte dell’ansa del Tevere, della realizzazione di cubature enormi in una città che vede oltre 185.000 appartamenti sfitti ed una quantità enorme di uffici vuoti, di un ulteriore grande centro commerciale che sarebbe ben il quarto in un asse di 10 chilometri. Del resto, è ben noto che per rendere un area più aggredibile da progetti speculativi, basta mantenerla abbandonata al degrado come è attualmente Tor di Valle. Le infrastrutture da realizzare sono esclusivamente a servizio dell’opera, visto che lì non ci abita nessuno e che, senza l’opera, nessuno dotato di buonsenso spenderebbe un centesimo per arrivarci. Senza contare i costi di manutenzione che resterebbero comunque a carico del pubblico, compreso il funzionamento delle grandi idrovore che dovrebbero scongiurare il rischio di esondazione. Vengono millantati migliaia di posti di lavoro che ovviamente – come sempre nell’edilizia – evaporeranno ben presto. Insomma, l’unica cosa che quadra è l’interesse di costruttori e banca, nonché il rafforzamento delle relazioni storiche fra i palazzinari e il PD e i suoi antecedenti politici che si sono sostituiti in questo a quello che ha rappresentato la DC negli anni del sacco di Roma. In realtà l’impianto sportivo in sé – come è facile capire – non interessa a nessuno, nemmeno a Pallotta, grande elettore di Trump, che ha senz’altro più confidenza con Wall Street che con il pallone. L’urbanistica “contrattata” e il sistema delle “compensazioni” hanno provocato disastri clamorosi a Roma negli ultimi 25 anni e fallimenti sia di obiettivi, sia in termini di danni materiali per la finanze del Comune, persino quando le “compensazioni” avrebbero dovuto servire per realizzare impianti sportivi e verde (si pensi alla vera e propria truffa dei “Punti verdi Qualità). E’ servita praticamente soltanto a stabilire un nuovo e bizzarro istituto giuridico: la perpetuazione sine die ed assoluta dei cosiddetti “diritti edificatori”, che diventano eterni e senza più alcun legame con la “pubblica utilità”. La questione centrale del consumo del suolo, la vera piaga urbanistica di Roma, che ha raggiunto livelli parossistici viene relegata a un astratto calcolo nel rapporto “metri cubi per metro quadro”, che non tiene in alcun conto dell’effetto cumulativo che qualsiasi ulteriore consumo del suolo ha sulla città. In ultima analisi ci sarebbe la santificazione della cosiddetta “legge sugli stadi di proprietà” (la 147/2013) che nei fatti rovescia il rapporto di sostenibilità finanziaria della loro realizzazione proprio sulle compensazioni edilizie necessarie a raggiungere la profittabilità del complesso delle opere. C’è un particolare che non dovrebbe tenere tranquillo neppure il più acritico dei tifosi (della Roma, perché i tifosi dell’opera in sé non li smonta nessuno): lo stadio (inteso nel senso dell’impianto sportivo) non sarà dell’AS Roma ma della società di Parnasi-Pallotta che l’affitterà all’AS Roma. Sul futuro di questo a ciascun tifoso (della Roma) sono consentiti tutti i gesti apotropaici più appropriati al caso….

La spirale che ingoia il M5S

Le vicende in parte grottesche, in parte emblematiche della giunta Raggi indicano innanzitutto la impossibilità che il M5S possa costituire una alternativa alle politiche che hanno caratterizzato questa città negli ultimi decenni e ci dà una misura di quale abbaglio abbiano preso anche alcuni pezzi di sinistra romana che si sono illusi di poter orientare e condizionare in modo decisivo le scelte di fondo della giunta. La Raggi, eletta con proporzioni plebiscitarie, ha rappresentato – indubbiamente – la speranza che molti coltivavano sulla possibilità di una rottura con le politiche precedenti anche, e soprattutto, sull’urbanistica, il territorio e i servizi, una discontinuità con l’apparato burocratico incrostato nelle precedenti amministrazioni ed una rottura con le consorterie ed i “poteri forti” (leggasi la borghesia romana) che hanno fatto scempio di questa città. Questa illusione (ampiamente coltivata anche da varie sensibilità di sinistra, anche in quella di classe) è stata possibile anche perché si sbatte contro il muro della natura sociale del M5S e soprattutto del suo gruppo dirigente romano (per tacere, ovviamente, di Grillo-Casaleggio…..). Dal punto di vista programmatico su Roma il M5S ha completamente accettato i vincoli del debito e delle politiche di austerità, promettendo in cambio un repulisti dell’amministrazione e delle partecipate, tutto giocato in termini di “legalità” e “onestà”, con una sostanziale ambiguità sulle privatizzazioni e sull’uso del patrimonio pubblico comunale e concessioni al commercio. Tuttavia, non si può negare che le aspettative erano comunque molto forti anche in ampi settori di lavoratori e lavoratrici e anche negli ambiti di movimento romani.

L’esperienza di opposizione del M5S a Marino aveva illuso anche sull’esito finale della vicenda della speculazione di Tor di Valle, specie per un fatto: la scelta di Paolo Berdini come assessore all’Urbanistica. Nel quadro delle assurde vicende della composizione della Giunta, la figura di Berdini è apparsa subito come una scelta davvero di rottura e di discontinuità che ha favorevolmente sorpreso molti. Berdini, oltre alla figura altissima dal punto di vista della professione di urbanista, è sempre stato protagonista delle battaglie contro le speculazioni ed il cemento, molto vicino ai movimenti sociali e territoriali ed ha collaborato per molti anni con Rifondazione. Visto come il fumo agli occhi da parte della borghesia romana e dai palazzinari, osteggiato da subito dai loro media di servizio, ha fatto subito pensare che – pur nell’ambito delle ambiguità della giunta Raggi – potesse esserci uno spazio per battaglie ambientaliste e di difesa dei territori e per una idea diversa ed alternativa di concezione della città. Il M5S si era opposto al progetto Tor di Valle ed aveva votato contro la concessione della pubblica utilità in Consiglio. Lo stesso Berdini, accettando la proposta dell’assessorato sottoscriveva questa apertura di credito.

La realtà si sta rivelando del tutto diversa. Virginia Raggi – come dimostrano le vicende di Marra, Romeo, Muraro, eccetera – ha imbarcato il peggio della burocrazia ereditata dalle precedenti amministrazioni, compresa quella di Alemanno, indubbiamente la peggiore. E non si è trattato soltanto di una generica incapacità o di dilettantismo (componente senz’altro presente, ma che non è di per sé il tratto caratterizzante delle scelte). Ha nominato, su suggerimento diretto di Grillo, un assessore alle partecipate ultraliberista e privatizzatore come Colomban, ha cominciato a perseguire una politica di “messa a valore” del patrimonio pubblico e avviato (o almeno assistito senza batter ciglio) sgomberi di spazi sociali (ultimo quello del Rialto-Sant’Ambrogio di giovedì 16 febbraio), associazioni, eccetera. Le vicende di Marra e Romeo hanno avvolto la giunta in una nebbia mefitica in cui si intravedono non soltanto lotte di potere ed egemonia fra i cosiddetti “ortodossi” (Taverna, Lombardi) e i “pragmatici” della Raggi, ma soprattutto la permeabilità del M5S all’influenza dell’egemonia della borghesia romana e dei suoi accoliti. Se dovessimo trarre da questo una conferma di qualche nostra acquisizione storica di marxisti rivoluzionari, potremmo dire che una compagine di natura sociale piccolo-borghese non può avere (almeno non per un lungo tempo) una politica indipendente senza ricadere inevitabilmente nella egemonia delle classi dominanti ed esserne alla fine fagocitati. Ed è questa – ci sembra – la spirale che sta ingoiando il M5S.

In questo quadro, Berdini ha provato, con molto coraggio e con qualche ingenuità, di mantenere dritta la barra della difesa del territorio e per impedire che il disegno della città fosse ancora una volta appannaggio dei costruttori e del capitale finanziario ma secondo percorsi di partecipazione popolare dal basso. Ma come poteva sopravvivere questo intento nella cornice che abbiamo descritto sopra? Berdini, prima delle dimissioni, stava gestendo – oltre alla questione di Tor di Valle – decine di dossier su altrettante questioni che riguardavano l’assetto urbano e i lavori pubblici: come sarebbe stato possibile ultimarli senza subire l’assalto di chi veramente comanda in questa città? I “proponenti” di Tor di Valle, peraltro, hanno utilizzato le grandi difficoltà della sindaca per offrirle un terreno di creazione di consenso e di difesa della sua immagine: offrire un terreno di mediazione che la facesse risultare formalmente artefice di un buon compromesso e la facesse passare come la salvatrice del territorio dalla speculazione. Berdini, nella sostanza, si è opposto attestandosi sulla difesa delle cubature previste dal piano regolatore di Veltroni (350.000 metri cubi), che è quella schifezza che conosciamo ma che almeno avrebbe consentito di costruire il solo impianto sportivo ed alcune pertinenze. E’ facile pensare che se Paolo Berdini non fosse incappato nella famosa intervista-trappola “estorta” che ne ha provocato formalmente le dimissioni, sarebbe comunque stato estromesso (o messo nelle condizioni di andarsene) qualche settimana più tardi.

Il ruolo del PD e delle forze politiche

In questo quadro, altrettanto emblematico è il ruolo del PD romano. Nonostante l’operazione fosse stata condotta da a suo tempo Marino, ha subito impugnato la bandiera dello “stadio” in nome della “grande occasione per Roma”. Ha fatto immediatamente propri tutti i contenuti della campagna dei proponenti sulla opportunità della creazioni di occupazione, della creazione di servizi. Ha impugnato questi argomenti per creare polemiche rancide e demagogiche contro “il partito del NO a tutto”, che paralizza Roma, personificato dal M5S. Non ha utilizzato soltanto i suoi consiglieri di minoranza, ma soprattutto la Regione Lazio del presidente Zingaretti che sta usando Tor di Valle come una clava contro la Raggi. Vi è da dire che nell’assumere queste posizioni il PD non ha dovuto fare alcuno sforzo, non ha dovuto effettuare alcuna torsione: l’alleanza con i palazzinari è nel suo DNA, l’urbanistica contrattata è stata una sua invenzione di decenni fa, dell’allora PDS, poi cristallizzata da Veltroni del PRG del 2008. Il PD è stato in prima fila nel tentativo – al quale fortunatamente il M5S ha resistito – di portare le Olimpiadi del 2024 a Roma, e, pur essendo stato sconfitto, su quella battaglia ha cementato le basi per una rinnovata alleanza con i settori più retrivi (se mai ce ne fossero di meno beceri) della borghesia romana, dei grand comis degli apparati statali parasportivi e non (CONI in primis) e delle associazioni imprenditoriali ai vari livelli, ai commercianti, eccetera. Su questo è nei fatti apparso in prima fila, offuscando il ruolo della destra: Forza Italia si è limitata a fare la seconda voce del coro e ancora più defilata la destra fascista che oscilla fra il forte sostegno all’operazione speculativa ed il timore che una sua sovraesposizione nel sostegno possa in qualche modo favorire il PD. Registrata la opposizione di Sinistra per Roma e di Fassina, è – anche questa – emblematica la posizione di SEL romana: senza esporsi troppo, nella sostanza la maggioranza di SEL non solo nei fatti non si oppone, ma opera concretamente, senza dare nell’occhio, alla mediazione sulla sforbiciatina alle cubature. Smeriglio, vice presidente della regione Lazio, è anche la punta di diamante delle componente di destra di SEL che sta per accasarsi con Pisapia senza passare per Sinistra Italiana, in perfetta coerenza con il ruolo di sostegno supino al PD che ha ricoperto in regione. E d’altra parte Pisapia è l’uomo del “modello Expò” che di colate di cemento se ne intende: che altro aspettarsi se non qualche piccola furbizia, tipo non esporsi troppo, vedere come si mettono le cose, tenere i piedi in molte staffe, aspettare l’epilogo ed eventualmente, a cose fatte, assumere la posizione più popolare al momento? In questo quadro, la preoccupazione di tutti è quella di far cuocere a fuoco lento la Raggi e il M5S. Questo spiega anche gli apparenti anguilleggiamenti del PD stesso che mentre sostiene il progetto, al tempo stesso accusa di incoerenza il M5S per il patteggiamento con i proponenti (su questo si è distinto l’house organ la Repubblica). Il M5S, dal canto suo, si trova in un autentico marasma e rischia una implosione: la base romana è maggioritariamente contraria, Grillo è favorevole, il “Raggio magico” pure. E’ partita una battaglia interna che si gioca tutta nelle retrovie e al coperto, senza alcun coinvolgimento della città, senza neppure una vaga ipotesi di partecipazione popolare, o anche soltanto di generica “trasparenza”. Ogni trattativa resta totalmente rinchiusa nelle segrete stanze. Anche su questo il M5S si rimangia tutti gli slogan pseudo-democraticistici con cui ama presentarsi all’esterno, con buona pace dell’immagine della forza politica in cui “uno vale uno”, in cui “si mette tutto online”, i cui “decidono i militanti”.

La campagna mediatica e la prefigurazione di un nuovo blocco sociale

La cosa estremamente interessante che si è sviluppata intorno alla vicenda stadio-Tor di Valle è proprio la campagna mediatica che è stata avviata di creazione di consenso alla speculazione. E’ un fenomeno così pervasivo e di grande dimensione che meriterebbe una indagine a parte perché a suo modo costituisce un modello. Il suo obiettivo di fondo, infatti, non si limita a creare un consenso popolare alla specifica operazione stadio, bensì a convincere la città che l’unico elemento di sviluppo, il volano della ricchezza e del benessere, l’unico elemento di intervento sulla città, di creazione di lavoro e persino di infrastrutture e servizi è l’iniziativa privata e l’edificazione. Ripetiamo: è molto di più che il consenso all’opera; è la santificazione del capitale che con il suo intervento taumaturgico dispensa i cicrcenses ma anche il panem. E non lo fa soltanto in funzione di sussidiarietà nei confronti del pubblico, ma, praticamente, in via esclusiva e che pertanto deve avere il via libera di fare tutto quello che vuole, quando vuole e soprattutto dove vuole. E’ una campagna ultraliberista e iperideologica che vuole sancire il diritto del capitale di utilizzare la città come meglio crede. Alla campagna stanno partecipando in modo sospettamente coordinato la stampa locale con il testa l’ultrareazionario Il Tempo), la stampa nazionale (con la Repubblica che si è riscoperta Marinista), il sistema delle tv locali e le numerose radio sportive che sono seguite da centinaia di migliaia di persone ogni giorno. La campagna non si limita ad un coinvolgimento passivo, ma ha attivato una grande quantità di commentatori da tastiera che intervengono nei blog, rispondono agli articoli dei giornali online e telefonano alle radio saturando ogni spazio possibile. E’ soprattutto lì che avviene la semplificazione massima del senso comune: Tor di Valle è una discarica e c’è la prostituzione, quindi benvenga lo stadio e il cemento; l’opera crea migliaia di posti di lavoro; chi investe tanto ha diritto ad un ritorno; i privati fanno tutto con soldi loro e costruiscono infrastrutture che non riesce a fare il pubblico; è il privato che decide dove e cosa costruire (proprio così!); il business park attirerà imprese e altri investimenti. Questo è il tenore degli argomenti utilizzati. Chi si oppone, invece, è il partito del no a tutto, dell’immobilismo, dei soliti comunisti radical chic, di quelli ideologicamente prevenuti; Berdini, gli intellettuali e gli urbanisti sono i “parrucconi”, quelli a servizio di Caltagirone (il potente palazzinaro rimasto, per una volta, fuori dalla mangiatoia); infine tutti gli altri – quando si rimane a corto di argomenti – sono “laziali” o “juventini”, e con questo si chiude il cerchio. La rozzezza ideologica e culturale di questa campagna si appropria di una tradizionale passione popolare per utilizzarla senza mediazioni individuando un target preciso che è costituito da individui atomizzati temporaneamente aggregati nella categoria astratta del “tifoso”. Questa categoria, nella campagna così orchestrata, non ha nessuna qualificazione sociale: il “tifoso” è un individuo, appunto, astratto, generico, non ha legittimità di critica, in quanto “tifoso” tantomeno appartiene a una classe sociale, non è neppure un “cittadino”, bensì una categoria. “tifoso”, in questo caso, è l’analogo di “automobilista” oppure di “consumatore”, categorie ai quali sono destinati comportamenti univoci. Allo stesso modo in cui si vuole che l’automobilista pensi solo a portare l’auto e reclamare più parcheggi, allo stesso modo in cui il consumatore acquista e consuma, al tifoso è destinato – fra i pochi comportamenti ammissibili ed auspicati – oltre al tifo, il sostenere il progetto dello stadio. Punto. Se questo non è il trionfo dell’ideologia neoliberista, qualcuno trovi una migliore e più appropriata locuzione ermeneutica.

Questo che abbiamo descritto non deve sembrare in contraddizione con il fatto che la campagna pro-cemento (dovremo smetterla anche noi di chiamarlo il problema dello stadio) evoca, sia pure in termini vaghi e larvati, la necessità di una certa parte della borghesia romana di proporsi come riferimento per un nuovo blocco sociale che – in linea generale – rafforzi la tendenza alla concessione di mano libera dai retorici lacci e lacciuoli che impedirebbero agli imprenditori romani di cumulare profitti e potere come e dove vogliono: oggi con il cemento, domani completando le privatizzazioni dei servizi, le municipalizzate, il patrimonio pubblico, eccetera. Ora non ci avventuriamo in questa analisi (che richiederebbe un approfondimento che eccederebbe la capienza di questo spazio), tuttavia ne andrà letta con molta attenzione la sua eventuale evoluzione perché – e non sarebbe poca cosa – la consideriamo una delle poste in gioco della prossima fase in questa città

La risposta necessaria: una piattaforma di ricomposizione sociale che parli di politica


Al momento in cui scriviamo non sappiamo quale sarà l’epilogo della vicenda di Tor di Valle. L’intervento della Soprintendenza sui vincoli posti alla conservazione degli elementi architettonici presenti nel preesistente ippodromo sembrano prefigurare un notevole allungamento dei tempi. Non solo per questo riteniamo che – come detto all’inizio – rimane ampia la possibilità di opporsi a questo progetto. Esiste una diffusa sensibilità nella città contro lo strapotere dei costruttori che è anche il portato, il sedimento di lotte storiche ma anche più recenti in difesa dei territori. Una sensibilità ambientalista ed ecologista che però si esprime flebilmente, molto al di sotto delle possibilità e pur avendo davanti delle praterie di spazio politico. Pesa senza alcun dubbio la mancanza di forze politiche e anche sindacali che possano costituire un elemento credibile o che abbiano le forza soggettiva di potersi candidare a fare da traino e da stimolo per le mobilitazioni e per una controcampagna. Ma certo non stanno meglio i movimenti dal basso: le vertenze territoriali che pure hanno animato il magro panorama delle lotte sociale negli ultimi anni sono spesso scollegate; i generosi tentativi, come quello pur interessante e positivo di Decide Roma, vivono momenti alterni di visibilità ed apnea; nelle periferie degradate e socialmente disgregate si è ancora distanti dal ricostruire un tessuto di iniziativa che sia in grado di dare un segno caratterizzante – in senso di classe – ad una potenziale ripresa di mobilitazione sociale. Quello che manca è una piattaforma unificante, sociale, ma che parli al politico e di politica. No ad un ulteriore consumo del suolo, utilizzo sociale degli spazi urbani e il loro riuso, urbanistica partecipata secondo un processo democratico, ripubblicizzazione dei servizi e reinternalizzazioni, uno stop deciso e senza compromessi alle logiche di mercato e del profitto nell’uso del territorio, il contrasto alle politiche di austerità e – intorno a tutto questo – una pressante campagna per il non riconoscimento del debito, il perenne pretesto con il quale le politiche di bilancio degli enti locali sono votate al massacro sociale. Questi dovrebbero essere gli assi di fondo di questa piattaforma. E su questo si dovrebbero costruire organismi popolari di partecipazione, dibattito ed iniziativa coordinata caratterizzati dal punto di vista sociale e di classe. Bisogna far vivere il principio che è la città che decide e non i poteri forti, i palazzinari e la finanza. E decide anche dove fare lo stadio e – eventualmente – cosa metterci intorno E’ la sfida che abbiamo di fronte e che certamente non riguarda solo lo stadio e il suo ingombrantissimo contorno. E’ la sfida che parla della possibilità di ricostruzione di una alternativa di classe a Roma.






 dal sito Sinistra Anticapitalista




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