Diari di Cineclub

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martedì 23 novembre 2010





OSSERVAZIONI
SULLE CRITICHE DI
DANIEL GUERIN A ROSA LUXEMBURG 


di Michele Nobile






In Rosa Luxemburg e la spontaneità rivoluzionaria Daniel Guérin riconosce che Rosa

«non fa che tornare alle fonti autentiche del marxismo e, ancora più, benché abbia ritenuto opportuno doversene difendere, dell’anarchismo, quando prende in contropiede  Kautsky e Lenin e recupera la nozione di autoattività, termine usato talvolta da Rosa, e di spontaneità, vocabolo di cui si servì più spesso»
(Daniel Guérin, Rosa Luxemburg e la spontaneità rivoluzionaria, Mursia, Milano 1974, p. 26; nelle citazioni che seguono il grassetto è mio, i corsivi sono nel testo originario);

«La lucida comprensione dimostrata da Rosa per quello che, attraverso la rivoluzione del 1905, ella preferisce chiamare sciopero di massa, anziché sciopero generale, rimane un contributo prezioso all’arsenale ideologico del comunismo libertario e, allo stesso tempo, un faro sul quale si può orientare l’artigiano stesso di questa forma di lotta, ai nostri giorni sempre più coerente e più efficace: la classe operaia» (p. 84).

Il giudizio lusinghiero si sfuma però molto nel corso dell’analisi dell’opera di Luxemburg e in sede di giudizio conclusivo.
Per Guérin

«Questi strani cambiamenti, questi sorprendenti zig-zag tradiscono l’imbarazzo in cui si trovava Rosa Luxemburg, prigioniera del suo partito, nei confronti dello sciopero generale, che a volte condannava come anarchico e a cui a volte aderiva» (p. 82)
«L’opera teorica di Rosa Luxemburg, nel corso della sua vita, rimase per lungo tempo incerta e incoerente, perché ella faticò a liberarsi completamente dall’influenza dell’ambiente socialdemocratico tedesco in cui aveva scelto di militare e in cui intendeva rimanere ad ogni costo (...)» (p. 82)
«non riuscì mai ad affrancarsi completamente da una certa concezione della centralizzazione e dell’organizzazione dall’alto che le erano state inculcate» (p. 82).

Questi sarebbero anche i limiti dello Spartacusbund, rilevanti nel congresso di fondazione:

«l’equivoco che sovrastava quel congresso, vale a dire la trasformazione di Spartacus in partito comunista e, di conseguenza, la sua subordinazione a una rivoluzione russa che aveva già cominciato a gettare via, e Rosa ne era a conoscenza, il programma della democrazia operaia sovietica» (p. 85).

Malgrado l’indubbia simpatia per Rosa il giudizio conclusivo di Guérin è indubbiamente severo. Esso si basa su questi argomenti, da me sintetizzati e riportati nell’ordine con cui si presentano:

1) l’oscillazione di Rosa circa l’autentica forza motrice del processo rivoluzionario rappresentato dal Massenstreik: per Guérin nella presentazione del movimento del 1905 si alternano in Rosa i brani in cui sottolinea le carenze del partito e, in contraddizione, i brani in cui saluta l’efficacia dei suoi interventi (p. 39), sicché «si era creduto di capire che la spontaneità delle masse era il motore dell’azione rivoluzionaria. Ora, sembra che nulla sia possibile senza i colpi di sperone del partito» (p. 41) e «Al feticismo della spontaneità succede (o, meglio, si sovrappone, perché i due temi contraddittori sono strettamente collegati), il feticismo del partito» (p. 42).
2) Per Guérin Rosa avrebbe in mente un modello di partito del tutto ideale; si può dire che non riesca a prescindere dalla forma-partito in quanto tale:
«Questo partito rivoluzionario ideale, che pretende di dirigere il proletariato, e che allo stesso tempo coltiva la sua spontaneità e si guarda dall’imbrigliare la sua forza elementare, dove lo aveva scoperto Rosa nella realtà?» (p. 43).
3) Rosa condanna ripetutamente lo «sciopero generale» anarchico, impegolandosi in una polemica bizantina con l’anarchismo:
«Ma non significava forse cercare una polemica bizantina con l’anarchismo il fatto di cavillare sul carattere unico o meno, continuo o meno, di quella recrudescenza di scioperi generali, allo stesso tempo distinti e amalgamati in un tutto, che caratterizzava il 1905?» (p. 79).
E dopo l’apprezzamento di Rosa:
«Ma le diatribe troppo spesso esagerate e ingiuste della grande militante contro il sindacalismo rivoluzionario e l’anarchismo gettano un’ombra sulle sue intuizioni e ne riducono la portata, perché emanano un cattivo odore di socialdemocrazia» (p. 85).
4) Al congresso internazionale di Copenaghen del 1910
«Rosa credette opportuno schierarsi dalla parte dei peggiori riformisti socialdemocratici (...), per ottenere il rinvio “ad un prossimo congresso di una mozione di Vaillant e Keir Hardie che raccomandava “lo sciopero generale operaio soprattutto nelle industrie che fornivano alla guerra i suoi strumenti”» (p. 81).
5) Infine, penso possa considerarsi una implicita critica di Rosa la prospettiva indicata dallo stesso Guérin:
«1. l’élite rivoluzionaria non deve essere composta principalmente da intellettuali esterni alla classe, ma da operai avanzati (...);
2. questa minoranza non trae nessun vantaggio a chiamarsi “partito”, perché questo termine ha assunto implicazioni allo stesso tempo autoritarie, settarie ed elettoralistiche che suscitano la crescente diffidenza dei lavoratori» (p. 84).

Io credo che Guérin fosse rimasto colpito in modo molto sfavorevole dalla polemica di Rosa con l’anarchismo (il punto tre nell’elenco precedente) e che, in fondo, siano state queste a influire in modo decisivo sulla sua interpretazione complessiva della rivoluzionaria polacca. Questo però, piuttosto che un motivo di critica della sostanza politica dell’opera e della teoria di Luxemburg, tale che possa ridimensionarne la portata, è un esempio ulteriore del mancato incontro, almeno sul piano esplicito e della consapevolezza, tra quanto di meglio espressero l’anarchismo e il marxismo a cavallo dei secoli XIX e XX. Si può lamentare il fatto, si può denunciare che Rosa abbia messo tutta l’erba in un fascio, che se la sia presa con una versione caricaturale del sindacalismo rivoluzionario, ma tutto ciò di per sé non intacca nel merito la prospettiva luxemburghiana. Tanto è vero che non può affatto considerarsi alternativo o diverso dalla linea luxemburghiana, e anzi è coincidente con essa, l’idea che «l’élite rivoluzionaria non deve essere composta principalmente da intellettuali esterni alla classe, ma da operai avanzati (...)». Il secondo punto, quello sul partito, è anacronistico se riferito ai primi del ‘900; e il giudizio sullo Spartacusbund tralascia sia quanto poco fosse un partito sia, e più grave, le critiche fraterne di Rosa ai bolscevichi al potere.

La citazione al punto 4 merita particolare attenzione perché si tratta dell’unica azione politica indicata a sostegno della valutazione complessiva e perché si presta a chiarire l’essenza del Massenstreik, le presunte incoerenze di Rosa e il senso della sua critica dell’anarchismo.

Il congresso di Copenaghen si tenne dal 28 agosto al 3 settembre 1910, cioè nello stesso anno durante il quale:
a) dal 6 febbraio e fino a maggio in tutta la Germania si sviluppò una massiccia ondata di grandi manifestazioni in risposta alla proposta di una pseudo riforma del sistema elettorale prussiano; nello stesso tempo aumentava e si inaspriva la conflittualità nei luoghi di lavoro, al punto che quell’anno venne raggiunto il numero più alto di scioperanti e di serrate dal 1905 (che, a sua volta, rappresenta il livello massimo di conflittualità per l’intero periodo 1848-1917).
In quella situazione Rosa dispiegò tutte le sue energie per la radicalizzazione del movimento e l’uso dello sciopero politico di massa. Si può anzi dire che per Rosa quello fu l’anno migliore, prima del 1918, per mettere in pratica in Germania quanto delineato sulla base dell’esperienza del 1905 in Polonia e in Russia.
b) Per questa ragione quello fu anche l’anno della rottura aperta e irreversibile tra Kautsky e Rosa. In «Teoria e prassi», l’articolo di Luxemburg che segnò quella rottura, si legge tra l’altro:

«gli scioperi di massa devono procedere dalla massa e dalla sua azione progressiva. Ma condurre così avanti quest’azione nel senso di una tattica energica, di una violenta offensiva, che la massa diventi sempre più cosciente dei propri compiti, questo il partito lo può ed anche lo deve. La socialdemocrazia non può creare artificialmente un movimento di massa rivoluzionario, ma in certe circostanze essa può ben paralizzare la più bella azione delle masse con la sua tattica oscillante e debole», come nel 1902 in Belgio;
«il complicato apparato organizzativo e la severa disciplina di partito (...) eccellente espediente limitatamente al tran-tran quotidiano parlamentare e sindacale, ma per le date caratteristiche dei nostri circoli dirigenti rappresentano un ostacolo in caso d’azioni di massa in grande stile (...)»
(Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Einaudi, Torino, 1976, p. 372 e 376).

Non si tratta certo di parole che si confanno ad una feticista del partito.

Al congresso di Magdeburgo della Spd, tenutosi meno di un mese dopo quello dell’Internazionale (dal 18 al 24 settembre), Luxemburg cercò disperatamente di far passare in una mozione l’apertura di una (nuova) discussione sullo sciopero di massa nella quale, in origine, si leggeva: «che la lotta per il diritto di voto in Prussia può essere condotta alla vittoria solo attraverso una grande e decisa azione di massa del popolo lavoratore, facendo ricorso a tutti i mezzi, se necessario anche allo sciopero politico di massa». Ma la possibilità di una nuova discussione sulla stampa di partito e della propaganda dello sciopero di massa venne respinta. Si tenga presente che la centrale sindacale non voleva neanche sentirne parlare. La burocrazia sindacale era il solidissimo bastione su cui potevano contare i teorici «revisionisti» e i «pratici» apertamente di destra, puntualmente bistrattati, a parole, nei congressi; nonostante la sua pretesa di indipendenza e parità rispetto al partito, l’influenza politica della burocrazia sindacale sulla direzione del partito, andò crescendo dal 1906 su questioni come lo sciopero di massa, l’anti-militarismo, il movimento giovanile, il colonialismo, il primo maggio, la stessa composizione dell’esecutivo, al cui interno il potere reale fu nelle mani di Ebert fin dal 1911. Il lavoro di Rosa venne sempre più attivamente contrastato anche dall’esecutivo del Spd e da Bebel, che tentò di «processarla» per indisciplina al congresso della del 1911, per aver svelato e documentato l’inerzia della direzione centrale a proposito della crisi marocchina, luglio 1911.

Inoltre, come ricorda anche Guérin nella pagina precedente al passaggio sul congresso di Copenaghen, al congresso dell’Internazionale di Stoccarda nel 1908 Rosa presentò, in accordo con Lenin, un emendamento alla mozione di Bebel sulla questione delle iniziative da intraprendersi contro la guerra. In quel congresso Rosa prese le distanze sia da Bebel che da Vollmar, rappresentante della destra dei «pratici» revisionisti: Nettl giudica questo «una velata dichiarazione di guerra al gruppo dirigente del partito tedesco» (Peter Nettl, Rosa Luxemburg, , Milano, 1970, I, p. 437). In effetti, accostare Bebel, il patriarca che incarnava la storia e l’identità del Spd come partito «rivoluzionario» e quasi un mondo a parte rispetto alla borghesia, a uno dei più rappresentativi, se non il più rappresentativo, tra gli uomini «pratici» fautori del compromesso con il liberalismo e dell’integrazione nel sistema, significava dire che dietro la fraseologia altisonante e «ortodossa» della centrale del partito si celava l’opportunismo politico. Ma al fine del discorso sul Massenstreik è anche più importante ricordare che era stata già presentata un emendamento alla mozione di Bebel, da parte di Jaurès e Vaillant: sul tema dell’antimilitarismo e dello «sciopero militare» le delegazioni francesi ai congressi internazionali erano sempre e decisamente più a sinistra di quelle tedesche. Nel suo intervento Rosa disse, richiamando la mozione sullo sciopero generale adottata dal congresso di Jena della Spd nel 1905:

«In quella risoluzione si dichiarava che lo sciopero generale, respinto per anni come anarchico, è un mezzo al quale in determinate circostanze si può fare ricorso ... E’ vero che allora non si trattava di un’arma contro la guerra, ma di un’arma per imporre il suffragio universale ... Dopo i discorsi di Vollmar e di Bebel riteniamo necessario inasprire la mozione di Bebel... Devo aggiungere che nel nostro emendamento in parte andiamo oltre quello presentato dai compagni Jaurès e Vaillant: infatti richiediamo che in caso di guerra l’agitazione non sia indirizzata solo alla cessazione della guerra, ma tenda a utilizzare la guerra per accelerare il crollo del dominio di classe in generale» (Nettl, I, p. 435).

Sia la mozione del congresso di Jena del Spd che quella (emendata) del congresso internazionale di Stoccarda furono dei compromessi, o delle giustapposizioni ma, comunque, rappresentarono, un relativo successo tattico della sinistra.
Il punto è che tutta la questione non può essere limitata a «sciopero generale contro la guerra» si oppure no: è più complicata. Bisogna tener conto delle particolarità dell’ambiente politico, ideologico, psicologico e di stile dei partiti socialisti prima dello spartiacque della guerra mondiale e della rivoluzione russa; l’opportunismo politico si manifestava in forme diverse, in particolare nei partiti francese e tedesco, esprimendo differenze ideologiche e organizzative importanti.
Come a Jena anche una parte dei riformisti, ad es. Bernstein (ma non la direzione sindacale), aveva ammesso la possibilità di ricorrere all’arma estrema dello sciopero generale in caso di minaccia al suffragio universale, così i pacifisti come Jean Jaurès e Keir Hardie intendevano l’iniziativa contro la guerra come essenzialmente preventiva e difensiva. Dunque, anche lo «sciopero generale» era un’estrema arma preventiva, a cui ricorrere dopo il fallimento dell’arbitrato e delle conferenze internazionali per il disarmo, per i quali sia Luxemburg che Lenin provavano profondo disprezzo: per loro era come pretendere che potesse esistere capitalismo senza sfruttamento. Per quanto fosse posizione più a sinistra di quella prevalente nelle delegazioni tedesche, l’agitazione dello spauracchio dello «sciopero generale» contro la guerra costituiva il pendant della prassi parlamentaristica.
Repubblicano erede della tradizione giacobina piuttosto che marxista, patriota e pacifista, idealista ed entusiasmante oratore, in vita e in morte Jean Jaurès incarnò le contraddizioni, alla francese, le contraddizioni del riformismo secondointernazionalista: appoggiò la partecipazione di Alexandre Millerand nel gabinetto Waldeck-Rousseau (1899-1902), dopo il 1848 la prima in assoluto di un socialista a un governo borghese, affermava di essere pronto a difendere la libertà della Francia da un aggressione ma venne assassinato da un nazionalista la sera del 31 luglio 1914, giusto tornato dall’ultima inconcludente riunione del Bureau socialista internazionale e un giorno prima della mobilitazione per la guerra.
L’osservazione critica di Guérin è pertinente a una valutazione del rapporto tra la corrente pacifista riformista e la corrente rivoluzionaria relativamente all’inerzia conservatrice della delegazione tedesca, ma è poco o nulla pertinente per quel che concerne la coerenza di Rosa Luxemburg circa lo sciopero di massa e il modo di intendere il rapporto tra movimento di massa e avanguardia organizzata. Si può considerare tatticamente sbagliata la posizione di Luxemburg, ma deve essere chiaro che nel caso della mozione Jaurès-Hardie lo «sciopero generale contro la guerra» è una dimostrazione politica decisa dai partiti e dai sindacati, quindi qualcosa di molto diverso dal Massenstreik della Luxemburg, che è invece un processo rivoluzionario non predeterminabile che sorge dalle viscere della classe.
Per come era inteso dal pacifismo umanitario e riformista lo «sciopero generale» era un atto volontaristico, che presupponeva una visione ottimistica dello sviluppo storico e della capacità d’intervento delle organizzazioni e delle masse operaie in caso di guerra; per Luxemburg, invece, lo sciopero di massa non poteva essere una panacea.

Con ciò ci avviciniamo alla sostanza del problema: la critica di Luxemburg all’anarchismo e la specificità del Massenstreik.
Come rilevato da Guérin, in Sciopero generale, partito e sindacato Rosa Luxemburg attaccò duramente l’anarchismo, liquidandone la presenza nella rivoluzione russa e generalizzando, fatto sgradevole quanto l’associare, sia pure occasionalmente, Rosa a Ebert, Vandervelde e Victor Adler. Non a caso Rosa criticò l’anarchismo specialmente nei paragrafi iniziali; critiche implicite possono dedursi dagli argomenti circa il rapporto tra lotta economica e lotta politica, lotta di classe e utilizzo del parlamento. Si tratta ora di capire il senso di questa critica.

La prima questione, ma per noi la meno importante, è la ragione tattica dell’attacco luxemburghiano all’idea anarchica dello sciopero generale. Questa ragione è fornita dalla stessa Luxemburg: all’inizio dell’opuscolo, citando Engels, sostenne che la sua posizione a proposito è

«a prima vista così inattaccabile [auf den ersten Blick so unanfechtbar] che per un quarto di secolo ha reso segnalati servigi al moderno movimento operaio, come arma logica contro le chimere anarchiche e come mezzo ausiliario per portare l’idea della lotta politica in larghissimi strati della classe operaia» (Sciopero generale, partito e sindacati, in Scritti politici di Rosa Luxemburg, a cura di Lelio Basso, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 298).

Ma, aggiunse subito:

«La rivoluzione russa ha sottoposto la predetta argomentazione ad una radicale revisione. Essa ha per la prima volta nella storia delle lotte di classe fatto maturare una grandiosa realizzazione dell’idea dello sciopero di massa e – come esporremo più avanti in dettaglio – dello stesso sciopero generale e con ciò ha aperto una nuova epoca nello sviluppo del movimento operaio» (Basso, p. 298)
Il modo più semplice ed efficace per ridimensionare o liquidare la lezione degli scioperi di massa della rivoluzione russa e il significato storico della stessa come segnale di una nuova epoca del movimento operaio era spiegarli con l’arretratezza sociale e politica della Russia, mantenendo la connessione tra anarchismo, sciopero di massa e immaturità del movimento operaio. Questo metodo venne effettivamente impiegato nel 1905 e nel 1910 anche da Kautsky.
Per «sdoganare» un concetto che in prima istanza era assimilato, a torto o a ragione, con l’anarchismo, Rosa doveva enfatizzare la differenza tra l’esempio russo e la concezione anarchica, tra la nuova prospettiva strategica e l’anarchismo. Questa manovra eludeva il nodo dei rapporti storici e della possibile convergenza tra «marxisti» rivoluzionari e anarchici e, cosa a mio parere politicamente più importante, la genesi del parlamentarismo socialdemocratico.
Quel che più conta è però che l’«ortodossa» Rosa si presentava come una «revisionista» della strategia politica in campo marxista o, per meglio dire, sosteneva che era la lotta di classe ad imporre di rivedere e qualificare il giudizio engelsiano, «arma logica» [logische Waffe] che aveva esaurito la sua funzione. Nella nuova epoca gli argomenti di Engels erano superati: in questo modo il primo veniva salvato, ma condannati gli epigoni conservatori. Delimitando storicamente la validità della critica anti-anarchica Rosa anticipava gli avversari privandoli di munizioni.

Il problema non era solo tattico, né Rosa si limitò alla difesa preventiva. E’ vero che tratta l’anarchismo come un tutto indifferenziato, ma il nocciolo della questione è comprendere in cosa consista la sua critica della concezione anarchica dello sciopero generale e quale ruolo essa svolga nei confronti dei suoi reali, e molto potenti, avversari socialdemocratici.
A questo scopo è opportuna una lunga citazione:

«Finora sia gli zelanti sostenitori di un “tentativo di sciopero di massa” in Germania, del genere di Bernstein, Eisner, ecc., sia i rigidi avversari di questo tentativo, come p. es. nel campo sindacale sono rappresentati da Bömelburg, stavano in complesso sullo stesso terreno, cioè sul terreno della concezione anarchica. I poli apparentemente opposti non solo non si escludono vicendevolmente, ma, come sempre, si condizionano anche e nello stesso tempo si completano l’un l’altro. Per la concezione anarchica cioè, la speculazione diretta sul “grande patatrac”, sulla rivoluzione sociale, è soltanto una caratteristica esteriore e non essenziale. Essenziale è invece la considerazione del tutto astratta e antistorica dello sciopero di massa, come in generale di tutte le condizioni della lotta proletaria. Per l’anarchismo esistono come premesse materiali delle sue speculazioni “rivoluzionarie” soltanto due cose: innanzitutto il cielo azzurro e poi la buona volontà e il coraggio di salvare l’umanità dall’attuale valle di lacrime capitalistica. In questo cielo azzurro già sessant’anni fa si deduceva per via di ragionamento che lo sciopero di massa era la via più breve e più facile di fare il salto nell’al di là del sociale migliore. Nello stesso cielo azzurro, ancora per via speculativa, si deduce che la lotta sindacale è la sola reale “azione diretta delle masse” e quindi la sola lotta rivoluzionaria – questo è notoriamente il più recente ghiribizzo dei “sindacalisti” francesi e italiani. Il guaio per l’anarchismo è sempre stato che i metodi di lotta improvvisati nel cielo azzurro non solo eran dei conti senza l’oste, cioè delle pure utopie, ma che, proprio perché non tenevano alcun conto della disprezzata malvagia realtà, in questa malvagia realtà finivano il più delle volte con il trasformarsi inopinatamente da speculazioni rivoluzionarie in ausiliari pratici della reazione.
Ma sullo stesso terreno del ragionamento astratto e privo di senso storico si pongono oggi coloro che vorrebbero ordinare al più presto uno sciopero generale sulla base di una decisione del comitato direttivo e a un giorno stabilito dal calendario, quanto coloro che, come i partecipanti al congresso sindacale di Colonia vorrebbero escludere dal mondo il problema dello sciopero di massa, vietandone la “propaganda”. Entrambe queste tendenze partono dalla concezione comune, puramente anarchica, che lo sciopero di massa sia un mezzo di lotta meramente tecnico, che potrebbe essere a piacere, e in tutta scienza e coscienza, “ordinato” oppure “proibito”, una specie di coltello tascabile che si può tener chiuso e pronto in tasca “per ogni evenienza” ma che si può anche decidere di aprire e di usare». (Basso, p. 301-302)

All’anarchismo Rosa rimprovera, in sintesi, il volontarismo combinato con il ragionamento che prescinde dalle concrete circostanze storiche, quella che può dirsi una concezione mitica dello sciopero generale, che si esprime in una teoria «sindacale» della rivoluzione. Non si tratta di critiche originali, né qui interessa entrare nel merito della validità e della universalità delle considerazioni dell’autrice. Interessa, invece, evidenziare il colpo offensivo portato alle correnti riformiste, sia a quelle che di sciopero di massa neanche volevano discutere (e che erano inclini a elaborare una specifica «teoria del sindacalismo» distinta da quella socialdemocratica) sia a quelle che lo riducevano a estrema risorsa per la difesa dei presupposti della prassi gradualista. Questi due erano i veri avversari, rispetto ai quali era funzionale la critica dell’anarchismo. L’originalità del discorso della Luxemburg è nel rovesciare su quegli avversari la tradizionale critica di metodo fatta all’anarchismo: «i poli apparentemente opposti non solo non si escludono vicendevolmente, ma, come sempre, si condizionano anche e nello stesso tempo si completano l’un l’altro».
 
Sul piano del metodo per Rosa l’anarcosindacalismo, la destra sindacale e i riformisti condividevano l’idea che lo sciopero di massa potesse essere proclamato o proibito a volontà, fissandone obiettivi, durata, forme. 
Lungi da potersi ricondurre la critica dell’anarchismo a incoerenza in tema di spontaneità, le critiche allo stesso da parte della Luxemburg sono strumentali a ribadire il fatto che lo sciopero di massa come movimento sociale con caratteristiche rivoluzionarie non può essere deciso o proibito da nessuno. Lo sciopero di massa è infatti un movimento spontaneo, che nasce dalla viscere della società, emerge attraverso processi «inconsci»:

«Non è quindi con astratte speculazioni sulla possibilità o l’impossibilità, sull’utile o sul danno della sciopero di massa, ma con la ricerca di quei momenti e di quelle condizioni sociali da cui lo sciopero di massa scaturisce nella presente fase della lotta di classe, in altre parole: non con il giudizio subiettivo dello sciopero di massa dal punto di vista di quello che è desiderabile, ma soltanto con la ricerca oggettiva delle fonti dello sciopero di massa dal punto di vista di quel che è storicamente necessario che il problema può essere afferrato e anche discusso» (Basso, p. 303).
«E’ impossibile “propagandare” lo sciopero di massa come un astratto mezzo di lotta esattamente come è impossibile propagandare la “rivoluzione”» (Basso, p. 304)
L’azione dello sciopero di massa è un processo multiforme: «Essa modifica semplicemente le sue forme, la sua estensione, la sua efficacia. Essa è il polso vivente della rivoluzione e al tempo stesso ne é la più possente ruota motrice (...) esso è il modo del movimento della massa proletaria, la forma di manifestazione della lotta proletaria nella rivoluzione» (Basso, p. 327)

Quale sia la forza motrice della rivoluzione è dunque chiaro; e ne consegue che la valutazione circa la coerenza di Rosa sul Massenstreik e il rapporto tra movimento e avanguardia politica non deve assumere come pregiudiziale il suo giudizio sull’anarchismo. Di esso va colta la sostanza e la funzione nella polemica, in quel tempo, in quel paese e in quel partito.
Altrimenti il rischio è un giudizio affrettato e accrescere il baratro tra anarchismo e marxismo, proprio nella rivoluzionaria che nei fatti ha più contribuì a ridimensionarlo.

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