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domenica 10 febbraio 2013

TROTSKY: CHE COSA CONTINUA AD ESSERE VALIDO? di Guillermo Almeyra




TROTSKY: CHE COSA CONTINUA AD ESSERE VALIDO?
di Guillermo Almeyra


La storia è come il mare e le maree e le ondate avanzano e retrocedono per tornare ad avanzare sospinte dai venti e, ogni tanto, conosce violenti momenti catastrofici – i suoi tsunami – o sembra cadere in una esasperante calma piatta.
I grandi uomini, da parte loro, hanno l’altezza dell’ondata storica su cui si ergono e quindi, nella fase di ascesa della stessa molti sono coloro che hanno, ad esempio, la stoffa di marescialli di Napoleone o dei grandi rivoluzionari russi, con statura di potenziali dirigenti, che confluirono nel bolscevismo.
Marx ed Engels sono cresciuti salendo sulle imponenti rovine della Rivoluzione francese e Trotsky, come Lenin, sull’assalto al cielo dei comunardi parigini, e cioè sulla grande ondata precedente quella su cui essi stessi cominciavano a salire. Per questo sono prima di tutto figli della loro epoca e, per giudicarne il pensiero, occorre vedere cosa rimanga di questa e collocarlo storicamente.

Il XX secolo è stato “un secolo di guerre e rivoluzioni”, iniziato con la guerra russo-giapponese che diede origine alla Rivoluzione russa del 1905, una rivoluzione contadina e democratica, antizarista, che diede origine a una direzione operaia – i consigli operai (soviet) di San Pietroburgo - e che costituì la prova generale della rivoluzione del 1917, ma comprese anche l’ondata di rivoluzioni democratiche con base contadina, come quelle della Persia e della Cina del 1910, o quella messicana del 1910-1920.
Fu anche un secolo sorretto dalle diffuse speranze e dalle forti organizzazioni socialiste in tutti i paesi metropolitani (tranne gli Stati Uniti) e in molti di quelli dipendenti, coloniali o semicoloniali, di un mondo che si contraddistingueva all’epoca per una maggioranza schiacciante di contadini e per l’oppressione coloniale dell’immensa maggioranza dell’Umanità.
I grandi paesi imperialisti erano allora la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, seguite dagli Imperi russo e austroungarico e i tre primi si erano distribuiti l’Africa, il Pacifico e l’Asia (dove erano presenti anche imperialismi minori), e la parte del leone era in mano ai britannici. In effetti, prima del 1914, gli Stati Uniti erano appena una potenza regionale che si affacciava al campo delle potenze imperialiste con il suo intervento nelle Filippine, a Cuba, nei Caraibi, in America centrale e con le sue incursioni di rapina in Messico.
Le guerre imperialiste tra potenze di capacità analoghe erano pertanto all’ordine del giorno, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, e lo furono per tutta la metà del secolo successivo.
La burocratizzazione dei partiti operai e dei sindacati aveva proceduto insieme alle trasformazioni dei paesi europei occidentali in paesi imperialisti. Lo Stato aveva inghiottito i riformisti e gli statalisti dell’Inghilterra e della socialdemocrazia in Belgio, Germania ed Olanda, e nei sindacati battevano in ritirata l’anarcosindacalismo e il sindacalismo rivoluzionario soreliano e si affermava in misura crescente il cosiddetto socialismo di Stato, vale a dire la subordinazione del movimento operaio allo Stato basata sulla natura borghese del sindacato in quanto negoziatore del prezzo e delle condizioni di vendita della manodopera come merce, e il suo intervento come un attore in più in un mercato sempre più regolamentato dallo Stato capitalista. Questo fomentava il nazionalismo dei contingenti operai che più approfittavano della ricchezza (e delle ribalderie) della propria borghesia e del proprio Stato, come quello tedesco, e creava negli Stati Uniti (dove i socialisti erano molto pochi) un sindacalismo di traffici, ultranazionalista e corrotto.

Ormai da quasi cinquant’anni, tutti i socialisti erano coscienti che la rivoluzione non la provocavano loro di propria volontà, ma era un moto prodotto dalla crisi del sistema (come per la Comune di Parigi) che creava per la minoranza rivoluzionaria la possibilità di raggiungere le larghe masse, ormai influenzate dalla battaglia ideologica antisistema che i socialisti conducevano quotidianamente e a tutti i livelli della società con i loro circoli di lettura, le loro biblioteche, le organizzazioni giovanili e sportive, i centri di quartiere e di reciproca assistenza, con le filarmoniche, là dove erano legali, o con il virtuale monopolio della resistenza illegale all’autocrazia, come in Russia.
Per loro, quindi, non esisteva possibilità di vittoria della rivoluzione senza preliminari situazioni rivoluzionarie, ma neanche senza partito e senza educazione rivoluzionaria delle masse, perlomeno di quelle operaie, e di un piccolo nucleo di intellettuali non di primo piano che fungeva da cerniera con i settori scarsamente acculturati. Alcuni, come Lenin e Kautsky, assegnavano a questo piccolo nucleo – e al partito – il ruolo di coloro che introducevano la teoria e la conoscenza “dal di fuori”, mentre altri, come Rosa Luxemburg o lo stesso Trotsky, che ormai fosse il capitalismo a preparare gli operai più colti ed avanzati a pensare teoricamente e che, quindi, ci si dovesse basare sulle concrete forme in cui il proletariato sviluppava un doppio potere (come i consigli) contrapposto allo Stato. La rivoluzione, secondo alcuni socialisti, cominciava allora nelle crepe più larghe del capitale (le grandi crisi, le guerre disastrose) come movimenti democratici per le libertà e per la terra, costituzionalisti e modernizzatori ma, per il loro orientamento e il loro stesso ritmo, assegnavano il ruolo principale al proletariato, organizzato, più colto, più cosciente, che costituiva l’asse della vita economica nelle città e poteva quindi dirigere l’immensa e dispersa massa contadina.
La rivoluzione democratica e nazionale assumeva così obiettivi sociali operai e anticapitalisti e un indirizzo socialista: era questa la tesi della rivoluzione permanente di Trotsky e di Parvus, nata dall’esperienza della rivoluzione russa del 1905. Inoltre, una rivoluzione che esploda in una città, o si estende al livello nazionale o muore, e se irrompe in un paese arretrato, o si generalizza propagandosi in altri paesi più avanzati, o soffoca, degenera, muore. Questa è stata la grande discussione di Trotsky con Lenin e con i bolscevichi che sostenevano in cambio la tesi della rivoluzione democratica e contadina in una prima fase, ma Lenin nel luglio 1917 adottò la tesi di Trotsky, che guidò l’insurrezione bolscevica, e la storia diede per il momento ragione alla teoria della rivoluzione permanente.

Tuttavia, sebbene la rivoluzione socialista minacciasse tutti i paesi sconfitti della Grande Guerra del 1914-1918 (Germania e componenti dell’ex Impero austroungarico, in particolare), in cui si formarono consigli operai, non potettero dirigerla né le ali di sinistra dei partiti socialisti, né i nascenti partiti comunisti, né i sindacati rivoluzionari. Nei paesi coloniali,, la rivoluzione nazionale, democratica e antimperialista, in assenza di direzioni o nuclei socialisti, seguì direzioni nazionaliste, come in Messico e in Cina.
L’Unione sovietica rimase quindi sola, mentre aveva riposto tutte e sue speranze di sopravvivenza nella rivoluzione mondiale, e inoltre, per l’errore commesso invadendo la Polonia, dove i suoi eserciti furono sconfitti, perse il contatto con la Germania in crisi. Fu questa, dice Trotsky, la base principale della burocratizzazione. Lenin, negli ultimi suoi scritti, combatté la burocratizzazione del partito bolscevico e dello Stato, sempre più in mano a Stalin, ma chi studiò e combatté quel fenomeno, soprattutto dopo la morte di Lenin, insieme all’Opposizione del 1923 prima, poi fino alla fine della sua vita, fu Trotsky. A lui e al suo libro La rivoluzione tradita l’umanità deve non solo l’analisi delle ragioni per cui nasce la burocrazia nei paesi moderni, ma anche di quali sono i principali rimedi per ridimensionarla (l’inserimento di giovani operai e di donne nel partito, la sua politicizzazione, la democrazia di partito con il diritto all’esistenza di tendenze, la lotta al nazionalismo e al verticismo). Per lui, infatti, come per il suo compagno ed amico Cristian Rakovsky, ne I pericoli professionali del potere, la burocrazia ha una base oggettiva nella miseria, la carestia, l’arretratezza culturale e materiale, la demoralizzazione e il logoramento di chi aveva fatto la rivoluzione, ma una base soggettiva nella mancanza di preparazione teorica nel partito e nel conservatorismo dei suoi quadri più nazionalisti e retrogradi, così come nella fusione tra il partito, che dovrebbe essere antistatalista, e l’apparato statale, che amministra il funzionamento di un’economia capitalista in un mondo capitalista.

Per Trotsky, come per Lenin, il socialismo aveva come base di fondo la statalizzazione dei mezzi di produzione, la pianificazione economica, il monopolio statale del commercio estero. Sopravvalutavano, dunque, i cambiamenti giuridici nella proprietà e la capacità dello Stato di controllare burocraticamente una società sempre più complessa via via che ricostruiva le basi dell’economia e cresceva e si diversificava. Al tempo stesso, sottovalutavano il permanere del sistema salariale e dei vecchi rapporti di produzione (dove il padrone era stato rimpiazzato dal dirigente nominato dal partito) e la carenza di qualsiasi controllo da parte degli operai. La formula “il socialismo è uguale a elettricità + soviet” confidava più sull’introduzione di nuove tecnologie (elettricità) che nei soviet, che avevano già smesso di essere organismi di potere operaio e contadino per trasformarsi in cinghie di trasmissione del partito, che la guerra civile aveva obbligato a vietare le tendenze, che gli davano vitalità, e a trasformarsi in partito unico.
La caratterizzazione fatta da Trotsky dell’Unione sovietica come “Stato operaio degenerato”, successiva a quelle di Lenin di “Stato borghese senza borghesia” e di “Stato operaio con forti deformazioni burocratiche”, era formale, visto che ormai gli operai erano stati espropriati dai burocrati che, in suo nome, sviluppavano valori e rapporti borghesi e non avevano bisogno della proprietà per garantirsi lo status di casta-classe privilegiata.
L’accettazione del carattere ancora “operaio” dello Stato non capitalista sorto dalla Rivoluzione d’Ottobre impegnò Trotsky, per molti anni, in una battaglia persa in anticipo per il recupero del corpo scomposto del Partito e dello Stato, impedendogli di costruire tempestivamente e nelle forme adeguate – un’azione clandestina nel partito e nelle istituzioni – una direzione rivoluzionaria, facilitando così la sempre più selvaggia repressione stalinista, che diventava sempre più turpe e crudele via via che gli errori internazionali di Stalin isolavano ulteriormente l’Urss da una rivoluzione mondiale esaurita e la mettevano in pericolo di fronte al nazismo e alla controrivoluzione mondiale, consolidando perciò quegli errori.

Poco prima di essere assassinato, Trotsky sostenne che il capitalismo – che stava in quei momenti preparando una nuova guerra mondiale interimperialista, nel bel mezzo del suo ristagno produttivo – aveva esaurito le sue possibilità di crescita. Organizzò la IV Internazionale perché un partito mondiale della rivoluzione dirigesse la prossima ondata rivoluzionaria, che era convinto avrebbe seguito alla guerra, e rigenerasse l’Unione sovietica grazie a una rivoluzione politica che estirpasse la burocrazia, conservando le conquiste della Rivoluzione russa. Sostenne inoltre che, se dopo la guerra il proletariato mondiale non fosse riuscito a fare la rivoluzione socialista, si sarebbe instaurato un regime di barbarie, l’Urss sarebbe scomparsa e in quel caso si sarebbero dovute immaginare le basi di un nuovo programma di ricostruzione della civiltà.

Il mondo in cui viviamo

L’Urss è scomparsa e il proletariato si è trasformato e differenziato in una serie di strati, rafforzando la tendenza - sempre presente, ma in precedenza debole – a sviluppare in larghe frange una mentalità da piccoli produttori analoga a quella dei ceti medi poveri e ad accettare come naturali l’ideologia e il predominio del capitale.
Stiamo attualmente vivendo la maggiore, più profonda e più estesa crisi che il capitalismo abbia conosciuto ma, diversamente dalle crisi del passato, non c’è chi proponga un’alternativa socialista, né ci sono partiti socialisti di massa e l’idea stessa del socialismo ha cessato di costituire una speranza per identificarsi, per milioni di esseri umani in tutta l’Europa orientale, l’ex Unione sovietica, Corea del Nord, Cina, Vietnam, Cambogia e a Cuba stessa, o con il ricordo di atrocità e di terribili sofferenze, o, nel caso cubano, con un’idea che non mobilita quelli che in tutta la loro vita hanno conosciuto penuria e restrizioni di ogni genere.
Condizioni rivoluzionarie possono apparire e appariranno, ma non saranno i rivoluzionari socialisti pressoché inesistenti tranne al livello di piccoli gruppi quelli che ne approfitteranno nel breve periodo prevedibile. Per questo la Primavera araba - eco ritardato della Primavera dei popoli del 1848 in Europa che poi diede impulso al socialismo e al movimento operaio – vede oggi impantanarsi la sua spinta democratica, nazionalista e antimperialista nella palude dei conflitti religiosi, regionali ed etnici e nascono regimi bonapartisti basati sugli eserciti che cercano di schiacciarla.

A partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale si è assistito all’enorme crescita della capacità produttiva del capitalismo, che oggi raggiunge l’intero pianeta, e il capitale finanziario, internazionalizzato, guida l’intero processo e sottopone gli Stati al suo servizio. Il proletariato ha subito profonde trasformazioni. Nei paesi industrializzati, l’indice di sindacalizzazione è bassissimo, i lavoratori industriali non rappresentano se non circa un 12% della popolazione economicamente attiva (meno di quelli che lavorano nei servizi e anche meno dei precari, sempre più numerosi e malpagati); circa la metà di questi, ad esempio in Francia o in Italia, votano per partiti xenofobi e sciovinisti di estrema destra mentre la maggioranza schiacciante degli operai (socialdemocratici, socialisti, nazionalisti, in paesi come l’Argentina, la Bolivia, il Venezuela o il Brasile) sperano solo in un “capitalismo umano”. Gli anticapitalisti, come nel XIX secolo, al tempo di Marx, sono assolutamente minoritari dappertutto. Alle prossime elezioni italiane i sondaggi danno percentuali del 3 al 5% ai gruppi che si dichiarano socialisti – alcuni dei quali hanno peraltro fatto parte di governi capitalisti. Il capitalismo ha inglobato nel suo arsenale centinaia di milioni di lavoratori a bassissimi salari e con condizioni di lavoro proprie dell’epoca di Dickens, che in Urss, in Cina e in tutto l’Oriente accettano il capitalismo come unico e naturale quadro sociale.
Le aggressioni neocolonialiste dell’imperialismo (quali Iraq, Afghanistan, Libia, o le azioni di Israele in Palestina) sono cose di tutti i giorni e non risvegliano la solidarietà internazionale del periodo delle guerre di Corea e del Vietnam. Queste guerre neocoloniali localizzate alimentano le industrie di guerra, rafforzano il peso del complesso militare-industriale nei rispettivi Stati, e fanno parte di una lotta sorda tra le potenze per la redistribuzione del controllo delle risorse vitali e strategiche (combustibile, acqua, mari).
I singoli imperialismi continuano ad avere propri interessi ed hanno continue differenziazioni con i loro alleati, come dimostrano le guerre neocoloniali della Francia in Africa, ma oggi è impensabile una guerra interimperialista (i paesi europei occidentali, ad esempio, fabbricano in comune il loro armamento) ed è anche assai improbabile a breve o medio termine una guerra di qualsiasi degli imperialismi contro la Cina, che sostiene tutti acquistando beni e imprese, e che è il principale socio commerciale delle multinazionali.
Non esiste, inoltre, una visione propria degli operai, differenziata a livello mondiale, dal momento che ogni contingente disimpegna un ruolo secondario a livello nazionale, non si sente parte di un’unica classe mondiale, lotta solo per riforme che ne migliorino il tenore di vita o che ne frenino un po’ l’arretramento. Il Partito mondiale della Rivoluzione socialista che sognava Trotsky non c’è neanche come progetto né ha basi materiali e neppure una rivista teorica che analizzi il mondo attuale e formuli alternative credibili. Si arriva solo allo scambio reciproco di informazioni e interventi politici appena puntuali. Non c’è, così, costruzione graduale di coscienza socialista, educazione socialista a partire dal bilancio delle lotte e delle esperienze, certamente limitate, di autorganizzazione e autogestione o di sviluppo di elementi di doppio potere, come le polizie comunitarie armate e i tribunali popolari nello Stato di Guerrero in Mssico, o nelle fabbriche occupate e in autogestione, in Grecia, Spagna, Francia, Argentina, Uruguay.

Da nessuna parte del mondo esiste una situazione rivoluzionaria. Dappertutto, infatti, siamo in presenza di lotte difensive dei lavoratori ai quali l’offensiva capitalista continua a togliere conquiste storiche, ad esempio le 8 ore, il divieto del lavoro minorile, l’assistenza sociale, le leggi di salvaguardia del lavoro. Questa offensiva capitalista è accompagnata dalla depredazione senza limiti dei beni comuni e delle risorse ambientali senza che si levi contro questo, tranne in casi eccezionali, come a Cajamarca (Perù), una protesta sociale di ampiezza tale da frenare il grande capitale.
La alleanza tra gli operai (ridotti a un’incidenza minima e comunque riformisti e sotto il predominio capitalista) e i settori non capitalisti delle zone rurali, sussunti dal capitale nel processo di emigrazione verso le città o verso altri paesi, non sembra possibile nelle attuali condizioni, perché i primi sperano di migliorare in qualche modo la propria situazione nel quadro del capitalismo, e i secondi vedono il capitalismo come il solo sistema possibile e preferiscono migrare dove possano guadagnare qualcosa in più o chiudersi nell’utopia dell’isolamento.
Laddove la crisi di egemonia dell’imperialismo statunitense ha lasciato maggiori margini allo sviluppo delle fragilissime borghesie nazionali, queste sono subordinate al capitale finanziario internazionale e i compiti democratici che sarebbero spettati loro non vengono assunti dal proletariato nazionale come leader dell’intera nazione oppressa e sfruttata, ma da apparati statali nazionalisti, con funzioni di ridistribuzione e di assistenza, che si basano sul “popolo” indifferenziato, frenando e impedendo l’avanzata degli operai, e dallo Stato intendono rianimare e alimentare queste borghesie nazionali.
Questi governi bonapartisti “progressisti” non rompono con le politiche neoliberiste che li legano al capitale finanziario internazionale e si danno come obiettivo un utopico capitalismo a loro avviso equo e produttivo, non il cambiamento rivoluzionario del sistema. Dalle frondose burocrazie statali e partitiche che fomentano, sorgono settori capitalistici speculatori, corrotti, che infettano l’apparato statale capitalista ad ogni livello. Il rifiuto di una politica mondiale che restringe continuamente i margini per la cittadinanza e i diritti democratici e sociali conquistati nel corso dell’ultimo secolo grazie alla paura dei capitalisti di fronte alla possibilità del socialismo, non va ancora al di là dei movimenti democratici di massa, delle cosiddette “rivoluzioni civili” in cui gli operai costituiscono una parte minore e indistinta. A questo si aggiunge la burocratizzazione e la cooptazione da parte dello Stato, come in Bolivia, delle direzioni dei movimenti sociali e dei sindacati e la trasformazione di queste forze sociali in base di sostegno per praticare una politica capitalistica di modernizzazione del paese, un neo-sviluppismo basato sull’estrattivismo e la devastazione ambientale che confonde crescita economica con sviluppo sociale e mina le basi stesse del sostegno popolare al governo “progressista” della piccola borghesia.
In nessuna parte del mondo - salvo forse, e molto parzialmente, in Grecia - i grandi movimenti nazionali e democratici hanno una direzione di orientamento socialista o con incidenza proletaria. Viviamo su scala mondiale - e questa sarà la situazione per alcuni lustri – nella necessità di portare a compimento la Rivoluzione francese con la Repubblica dei cittadini, non ancora di riprodurre la Rivoluzione russa dei consigli.

Trotsky aveva ragione quando sosteneva che i compiti democratico-borghesi non potevano più essere realizzati dalle borghesie nazionali, integrate in forma subordinata nel capitalismo finanziario mondiale. Tuttavia, non potendo essere dirette dai lavoratori nell’accezione più ampia del termine, sono soltanto rinviati, creandosi così una situazione di crisi sociale ed economica permanente e prolungata, che apre la possibilità di una catastrofe ecologica mondiale e di avventure militari che possono sfuggire al controllo, vale a dire di un ampio periodo sempre più imbarbarito.
Dei grandi apporti di Leone Trotsky resta in primo luogo la fiducia nei lavoratori, nella gioventù, nelle donne, e la necessità di basarsi su questa e di costruire su questa, quali che siano gli spazi. È altresì attuale la necessità di combattere su tutti i campi l’ignoranza, la miseria culturale, la brutalità, il disprezzo per le idee, vale a dire le basi soggettive della burocratizzazione dei gruppi e dei partiti che a loro volta dovrebbero combattere la burocratizzazione dei sindacati come istituzioni riformiste, e le burocrazie statali “progressiste”. La lotta per la più ampia democrazia possibile nei partiti che si propongono l’obbiettivo del socialismo continua ad essere inscindibile dall’affermazione della democrazia come terreno di maturazione del proletariato in questa dura fase del XXI secolo nel suo procedere verso la formulazione di programmi anticapitalisti.

La concezione del partito bolscevico, sorto nella lotta clandestina contro lo zarismo e sviluppatosi nel periodo dell’ascesa rivoluzionaria del 1917-1919, è viceversa invecchiato nelle nuove condizioni mondiali, così come quella di un Partito della rivoluzione mondiale, ma non lo è quella di un partito che si batta a morte contro il capitalismo e, perciò, tenuto a garantire la propria permanenza e sopravvivenza con misure di autodifesa e, se necessario, di clandestinità.
La visione mondiale, planetaria, della lotta di classe e della costruzione del socialismo che – come sosteneva Trotsky – è impossibile in un paese solo, è fondamentale, e buona parte degli errori e dei disastri subiti dall’Unione sovietica, o anche da Cuba, si debbono alla visione angusta e nazionalista dei dirigenti dei rispettivi Stati, e dimostrano una volta di più l’importanza di Trotsky come teorico marxiano del nostro tempo. Oggi Trotsky non ci basta per rispondere a tutte le sfide teoriche che ci troviamo di fronte – ad esempio, l’elaborazione di programmi di transizione puntuali per la ricostruzione dell’indipendenza di classe dei lavoratori e degli oppressi - però, senza di lui, senza le sue concezioni sullo sviluppo disuguale e combinato che dimostrano come in un unico processo operino interrelate e si influenzino reciprocamente rivoluzioni e lotte culturali distinte, o sugli intrecci tra la città e il mondo rurale, e senza il suo internazionalismo, mancheremmo di strumenti per cercare di capire la realtà per trasformarla. 


(16 gennaio 2013)

Traduzione di Titti Pierini


dal sito  Movimento Operaio




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