Diari di Cineclub

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domenica 19 febbraio 2012

LA LUNA DI MIELE DI MONTI di Nicola Casale




LA LUNA DI MIELE DI MONTI
di Nicola Casale



La cura “salva Italia” del medico Monti ha somministrato il suo primo ciclo di farmaci. Come era preannunciato l’impatto è stato pesante, e pesantemente a senso unico: tutti coloro che, per vivere, possono contare solo sul proprio lavoro hanno subìto decurtazioni ai redditi, con l’aumento generalizzato delle imposizioni indirette e i tagli al welfare, ed esproprio ulteriore di una vecchiaia di riposo, con il peggioramento delle condizioni per la pensione e dei relativi assegni.
Il secondo ciclo è già delineato nei suoi tratti essenziali: liberalizzazioni, privatizzazioni, e, soprattutto, demolizione dei residui diritti e garanzie dei lavoratori.
Gli obiettivi sono: risanare le finanze pubbliche e rilanciare l’economia. Il quadro complessivo al cui interno si collocano è complicato. Bisogna fare i conti con una crisi generale che non accenna a concludersi e con il fatto che, nel suo ambito, cresce lo scontro su chi debba farsi carico dei costi maggiori. Il conflitto dollaro-euro fa parte di questa partita, nella quale entrano una serie di varianti con altri soggetti, a loro volta, costretti a ri-posizionarsi a causa degli sconvolgimenti che la crisi ha portato con sé.

Il “primo tempo” di Monti ha tolto da salari, stipendi e redditi da lavoro autonomo soldi veri e li ha dirottati al pagamento degli interessi sul debito pubblico. Nella speranza di placare la speculazione e dare certezze a chi presta soldi allo stato e dovrà continuare a prestarne. La speculazione ha apprezzato, e … ha elevato la posta, con i quanto mai tempestivi giudizi delle agenzie di rating. La certezza che la finanza anglo-americana continuerà a sparare bordate per evitare la stabilizzazione della zona-euro rende il compito del “primo tempo” ulteriormente gravoso. Per conservare l’euro come moneta in grado di competere alla pari con il dollaro nell’attrarre capitali, ovvero per razzolare profitti ovunque prodotti, e per cercare di contenere i danni della crisi in Europa, bisognerà, dunque, mettere mano a una seria riduzione del debito pubblico, in modo da limitare l’esposizione alla speculazione. Le dimensioni delle manovre necessarie sono troppo grandi per pensare di porvi rimedio con i tagli ai soliti noti (che pure continueranno). Un accordo con la Svizzera per un prelievo sui capitali ivi espatriati potrebbe fornire qualche decina di miliardi e qualche fondo aggiuntivo potrebbe venire da una stretta sull’evasione fiscale, ma non saranno sufficienti. C’è il rischio, insomma, che si debba, prima o poi, metter mano anche alle ricchezze accumulate con una qualche forma di prelievo sui patrimoni medio-grandi. Monti la aborre. Sarebbe, per lui, come “demonizzare” la ricchezza con l’effetto di deprimere gli istinti accumulativi, che sono l’anima del capitalismo e senza i quali non ci sarebbe più investimento e crescita, e anche la povera gente, destinataria della sua compassione (pelosa), sarebbe penalizzata dall’assenza di lavoro.
Se, però, si riuscisse a invertire il trend decrescente del Pil, anche i problemi di debito pubblico potrebbero essere affrontati con meno affanno.

Il completamento del “primo tempo” si intreccia, dunque, con l’avvio del “secondo”.

Sul “risanamento dei conti” le opinioni tra polo-dollaro e polo-euro sono platealmente divergenti. Il polo-dollaro preme affinché l’Europa accresca il suo apporto di capitale fittizio, spiani praterie alle incursioni della speculazione finanziaria e indebolisca l’euro (l’euro che piace ad Obama è un euro che non pregiudichi la supremazia di un dollaro, a sua volta, in serie difficoltà). Il polo-euro cerca di limitare la crescita di capitale puramente monetario, ridurre i debiti pubblici, conservare e rinforzare l’euro. Monti non può fare a meno di tenere conto delle esigenze del polo-euro, ma, contemporaneamente, lascia intendere che dinanzi a “eccessive” penalizzazioni, l’Italia potrebbe far più di un semplice occhiolino al polo-dollaro (e alla sua dépendance inglese in Europa). Come da costume atavico, la borghesia italiana cerca di tenere il piede in due staffe, pronta a gettarsi, al momento opportuno, sul carro del vincente.

Lo scontro tra Europa ed Usa, tuttavia, continua a svolgersi sotto traccia, non si esplicita con chiarezza, e non è detto che precipiti all’immediato. In effetti, l’Europa capitalista inizia a trovarsi dinanzi ad un acuto dilemma. Da un lato avverte il peso (e il costo) crescente del sostegno agli Usa, la cui economia abbisogna di un flusso crescente di risorse rapinate ovunque, con le “buone” o le cattive, preferibilmente attraverso il sofisticato armamentario finanziario costruito attorno al dollaro e a Wall Street, adeguatamente sostenuto dallo strapotere militare. Dall’altro lato ha bisogno della funzione di controllo politico e militare degli Usa sul mondo, di cui lo stesso capitalismo europeo ha approfittato, negli ultimi 60 anni, per partecipare alla spoliazione dei paesi “in via di sviluppo”. La capacità di Obama di stemperare l’impatto delle rivolte in Yemen, Tunisia ed Egitto, e di rinsaldare il dominio sul Nord-Africa prendendo possesso della Libia, ha salvato dal panico le cancellerie europee, che, da sole, non sarebbero riuscite in una simile manovra.

Il dilemma è destinato ad acuirsi ulteriormente. Dopo la Libia, gli Usa bramano sottomettere altri due paesi non omologati ai propri interessi economici e strategici: la Siria e, subito dopo o con un sol boccone, l’Iran. Da trattare allo stesso modo di Afghanistan, Iraq e Libia, ossia distruggerne il sistema economico e politico per impedirgli qualunque politica autonoma da Washington. In tal caso, però, è già venuto fuori con evidenza che Russia e Cina non sono disposte a chiudere un occhio (o entrambi) come fatto nei casi precedenti. Il motivo è ben comprensibile: l’obiettivo successivo sarebbero proprio loro, l’unico paese in possesso di armamenti in grado di contrastare quelli americani (Russia) e l’unico paese in grado di inserirsi nei mercati del Terzo Mondo con modalità che intaccano il predominio americano e occidentale (Cina) e che, per di più, possiede una straordinaria forza-lavoro che potrebbe produrre per Wall Street quantità di profitti ben maggiori di quelli attuali, ove fosse rimossa quella fastidiosa politica “nazionalista” che pretende di trattenere in patria quote di profitto per incrementare il proprio sviluppo capitalistico.

Il riscaldarsi delle tensioni tra Usa, Russia e Cina produrrà inevitabili problemi all’Europa che con questi ultimi due paesi va stringendo rapporti economici, finanziari e politici, suscettibili, potenzialmente, di creare un asse geo-politico in grado di minare il predominio nord-americano.

Il governo Monti (con l’appoggio di Napolitano e Pd) si è già sdraiato sulle posizioni Usa a proposito di Siria ed Iran, facendo, con ciò, direttamente pressione anche sul resto dell’Europa. Per la Germania, invece, dire no (Iraq, 2003) o astenersi (Libia, 2011) potrebbe produrre conseguenze più difficili da gestire.

Sul “rilancio dell’economia”, invece, le opinioni di polo-dollaro e polo-euro sono platealmente convergenti. Il cuore dei progetti a tal fine è di creare le condizioni per un rilancio generale dei profitti reali, quelli che non sono il semplice frutto della moltiplicazione speculativa prodotta dalle alchimie finanziarie, ma della produzione dei beni materiali e dei servizi collegati. L’esigenza è resa drammaticamente urgente dalla crisi: più profitti dal lavoro vivo servono per cercare di evitare nuove esplosioni di “bolle finanziarie”, per alimentare con nuova sostanza le fameliche aspettative di guadagno dell’immane capitale accumulato (lavoro morto) circolante per il mondo nelle più varie, e variamente mostruose, forme di capitale finanziario. Inoltre, creare un ambiente più favorevole al profitto è l’unica speranza per cercare di favorire il ritorno nell’economia “reale” di una parte almeno dei capitali investiti nella finanza. Monti rappresenta la modalità italiana, con le sue peculiarità, di questa esigenza del sistema, generale e generalmente condivisa da governi, istituzioni finanziarie, multinazionali, confindustrie varie, economisti, imbonitori dei media, ecc. Se si vuole cercare il suo padrino, più che nel Bilderberg, Trilateral, o nei “complotti giudaico-massonici” è qui che bisogna cercarlo, in questa impersonale esigenza del sistema capitalista di uscire dalla crisi con un rilancio poderoso dei profitti, e, dunque, del plusvalore da cui traggono alimento.

Il piano delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni si inquadra esattamente in questa politica.

La liberalizzazione delle licenze dei taxi è progettata per favorire l’intervento nel settore di grandi compagnie, con massiccio ricorso al lavoro salariato (che non vuol dire necessariamente lavoro dipendente, c’è semplice rapporto salariale anche nei milioni di partite Iva!). Il reddito dei tassisti si scinderà, dunque, in due parti: da un lato il salario dell’autista e dall’altro il profitto della compagnia. Processo analogo per le altre liberalizzazioni (benzinai, edicolanti) e per gli orari dei negozi, che dà un ulteriore micidiale colpo al piccolo dettaglio a favore della grande distribuzione. Diffusione del lavoro salariato (sia pure a scala differente) avverrebbe anche con la liberalizzazione delle professioni, con la formazione di grandi studi, con tanto lavoro salariato. Le liberalizzazioni avranno il loro coronamento con la riforma del mercato del lavoro.

Quest’ultima è la “madre” di tutte le riforme preconizzate. Lo scopo dichiarato è d’aumentare la flessibilità in uscita (grazie alla quale potrebbe anche essere ridotta quella in entrata). La libertà di licenziamento individuale sancirebbe la fine definitiva della possibilità di resistenza, individuale e collettiva, al comando dell’impresa (anch’esso ormai sempre più impersonale, dovendo rispondere ai parametri di crescente produttività dettati dal capitale finanziario). Ad una manodopera costretta alla docilità si potrebbero imporre con facilità le riduzioni salariali, gli aumenti di orario e le peggiori condizioni lavorative agognate da Marchionne/Marcegaglia. In questo quadro si collocano anche le privatizzazioni, che non sono solo un modo di trasferire al profitto i servizi pubblici, ma anche un modo per precipitare masse di lavoratori del pubblico impiego, ancora relativamente protetti, in una condizione simile a quella dei lavoratori del settore privato ripuliti, nel frattempo, di ogni protezione e possibilità di resistenza collettiva.

Nell’ottica di Monti ciò renderebbe l’economia italiana più competitiva. I non-demonizzabili italiani che possiedono ricchezze potrebbero trovare interessante investirle nella produzione, si potrebbe persino invertire la tendenza dal “piccolo è bello” a “meglio grandi” con il superamento delle dimensioni lillipuziane delle aziende, il correlato taglio di reddito alla pletora di padroncini e la razionalizzazione (ossia concentrazione verso imprese medio-grandi e centralizzazione verso il capitale finanziario) dei profitti.
L’insieme delle misure ha, quindi, una solida logica intrinseca che nei calcoli dei promotori dovrebbe creare le condizioni per il rilancio della “crescita”, che, a sua volta, dovrebbe rendere meno gravoso il rientro del debito pubblico in parametri meno esposti agli umori dei mercati.
Le resistenza politiche e soprattutto quelle sociali emerse nelle ultime settimane hanno fatto scoprire al governo dei professori di non essere sciolto dalle necessità di mediazione politica. Esso ha rallentato, di conseguenza, il ritmo delle “riforme”, ma s’è professato determinato a realizzarle. Determinato lo è senz’altro, e anche abile nel contrapporre l’un con l’altro vari ceti sociali, chiedendo agli uni l’appoggio contro i “privilegi” degli altri (ieri l’appoggio dei precari contro le pensioni dei “garantiti”, poi l’appoggio di precari e lavoratori dipendenti contro gli “autonomi” evasori, oggi l’appoggio di precari e dipendenti contro i privilegi degli autonomi “corporativi”, domani ancora l’appoggio di precari e autonomi contro le rigidità dei dipendenti che frenano anche le possibilità degli autonomi di ingrandire le proprie attività).
Se tali manovre fossero portate completamente in porto, potrebbero dare all’Italia qualche punto in più di competitività, un vantaggio che i concorrenti compenserebbero, tuttavia, in poco tempo con misure di analogo tenore. Il sistema capitalista nell’insieme trarrebbe da una generale diffusione di maggiore sfruttamento un beneficio certo, ma, quanto duraturo? Per un nuovo e solido ciclo di accumulazione, come quello degli anni ‘50-’70, ci vorrebbe ben altro che semplici misure di aumento dello sfruttamento! Non di meno, questa politica è, dal punto di vista del sistema capitalistico, obbligata. Qualunque altra proposta che voglia rilanciare l’attività economica, senza svalorizzare ulteriormente il lavoro, ma preservandogli diritti e redditi, non avrebbe alcuna capacità di lenire le contraddizioni del sistema, che abbisogna non tanto (e non solo) di aumentare la produzione, quanto soprattutto di accrescere la produttività, i profitti.

La contro-misura fondamentale alla crisi è, dunque, per l’insieme del sistema, una sola: svalorizzare ulteriormente il lavoro ed aumentarne lo sfruttamento.
Il governo Monti si muove su linee di perfetta continuità con i governi degli ultimi trent’anni, che avevano già provveduto a sconvolgere in larga misura il “compromesso sociale”, instaurato con le lotte degli anni ‘60-’70, e si pone come quello incaricato della “soluzione finale”. Il vantaggio rispetto a loro è di aver trovato il terreno dissodato soprattutto su un aspetto: il soggetto collettivo protagonista di quella stagione non esiste più. Non come soggetto sociale, ma politico e sindacale. La strumentazione organizzativa e politica che aveva consentito allo schieramento di forze sociali, raccolte attorno alla classe operaia industriale, di agire la forza sufficiente a imporre i termini del compromesso, è stata fortemente destrutturata dalla combinazione di azione dall’esterno e dinamiche affermatesi dall’interno.

Le reazioni alle prime misure del governo ne hanno dato una prova evidente. Uno sciopero generale di tre ore, organizzato senza troppa convinzione dagli stessi sindacati che lo hanno indetto. Il sindacato che possiede ancora alcuni coefficienti di credibilità, la Cgil, ha accuratamente evitato di dare alla lotta continuità e profondità. Perché condivide in pieno il punto centrale di Monti: “salvare il paese dal rischio del disastro”. Non ne condivide necessariamente tutte le misure, ma ne condivide senz’altro l’obiettivo e, di conseguenza, giudica pericoloso per il paese insistere sulla conflittualità in un momento in cui è messo sotto stretta osservazione dai mercati e dai partner. Trentin accettò nel ’92 d’abolire la scala mobile per salvare il paese da un’ondata di speculazione, Camusso ha accettato (con più ipocrisia, si potrebbe aggiungere) la quasi-abolizione delle pensioni per lo stesso motivo, e potrebbe accettare anche una revisione dell’art. 18, che secondo qualcuno avrebbe il potere di ridurre lo spread di 200 punti!
Sarebbe, tuttavia, da ingenui credere che la debole risposta alle misure di Monti sia dovuta solo all’effetto di spiazzamento provocato dalla riluttanza a organizzare l’opposizione da parte di un qualche soggetto forte. Questo aspetto possiede la sua rilevanza (è normale che la disponibilità alla lotta si accresca quando è gestita da un soggetto che offre credibili possibilità di successo), ma non può da solo rendere conto del basso livello di mobilitazione contro le misure di Monti. Il fatto è che anche i lavoratori avvertono la necessità di tenere in considerazione le sorti generali del paese, e, dunque, acconsentono ad accettare una dose di propri sacrifici per risollevarle.
Questo dato di coscienza oggi appare del tutto “naturale”, ma, in realtà, è il frutto di due elementi sviluppatisi nel corso di lunghe vicende storiche.

Il primo è la lunga educazione alla scuola di una sinistra, politica e sindacale, che, mentre ne organizzava le lotte e ne sosteneva le rivendicazioni, operava per contenere entro un ambito rigidamente nazionale e nazionalista l’azione del movimento operaio (anche quando si guardava al “faro internazionale del socialismo” era il faro del “socialismo in un paese solo”, ossia ciascun paese per sé, e, perciò, in concorrenza con tutti gli altri). Entro questo orizzonte si muovono tutti gli avanzi della sinistra tradizionale che fu (Cgil, Pd, SeL, Prc-Pdci) ma anche parti maggioritarie della sinistra più radicale (il repentino passaggio, negli ultimi mesi, di alcuni dalla difesa dell’Italia dall’egemonismo Usa alla difesa dell’Italia dall’egemonismo tedesco è stato, in molti casi, stupefacente, talvolta ai limiti del grottesco).

Il secondo elemento è che la congiunzione ha, nei decenni trascorsi, funzionato in senso positivo. Alle fasi di crescita dell’economia nazionale coincidevano miglioramenti concreti per la classe operaia e ceti medio-bassi. Ciò ha contribuito a rinforzare l’idea che le condizioni dei lavoratori siano inestricabilmente connesse alle sorti generali del paese, e, in ultima istanza, alle fortune sui mercati del capitale nazionale.

L’elemento politico/ideologico conserva ancora la sua forza (non le stesse modalità) ed è, persino, ripreso da un partito “anti-nazionale” come la Lega Nord, che dipinge la Padania a venire come il paese in cui il “compromesso sociale”, in via di esaurimento in Italia, risorgerà, determinando un’armonia tra capitale e lavoro su cui costruire il suo successo sui mercati. Era la Padania disegnata agli albori della Lega, ed è tornata ora in auge da quando la Lega è all’opposizione, divenuta, non a caso, paladina delle pensioni e dell’art. 18 (immemore dell’appoggio al tentativo di Berlusconi di eliminarlo nel 2003).

L’elemento materiale ha subito, una maggiore mutazione. Da molti anni ormai all’incremento dei profitti non corrisponde più alcun miglioramento per i lavoratori. Inoltre, buona parte del capitale nazionale non si sente più vincolato, nei suoi investimenti produttivi, ai confini nazionali, e, anzi, al modo di Marchionne, li conferma solo se ha certezza di totale libertà nell’uso e consumo dei lavoratori.

Il fattore materiale di legame con il capitale nazionale si è, dunque, indebolito, ma, per converso, si è rafforzato quello con il capitale in generale. La crisi del capitalismo viene vissuta dall’insieme del proletariato (che va, naturalmente, molto oltre la sola classe operaia industriale) come un’acuta minaccia alla conservazione del “di più” (rispetto alla sola sopravvivenza) che aveva conquistato e, con il passare del tempo, anche come diretta minaccia alla stessa, semplice, sopravvivenza. Di qui, una disponibilità a fare la “propria parte” di sacrifici per evitare che la crisi si approfondisca ancora di più.

D’altra parte, l’alternativa al capitalismo è ufficialmente fallita con il crollo dell’URSS, e già prima, in verità, non è che fosse tanto appetibile…. Dunque, per la massa del proletariato, al momento, non è nemmeno concepibile un’alternativa al capitalismo. Anche l’idea di un “altro capitalismo possibile” (su cui si impegnano molti a sinistra) non raccoglie, nella massa, molti consensi. In effetti, anche il tipo di capitalismo odierno (sbilanciato sul versante finanziario) ha dipanato un reticolo di fili che lega alle sue sorti l’esistenza di ognuno. L’accesso al credito è divenuto ordinario anche per acquistare beni e servizi indispensabili, mentre dipendenti dalle performances finanziarie sono divenuti pezzi di pensione e di salario (per esempio, con i “premi di risultato” legati ai dividendi azionari). In paesi come Usa e GB il fenomeno è molto più profondo, ma si è andato significativamente diffondendo anche negli altri paesi occidentali, Italia compresa.
Il peso di questi legami non annulla completamente la resistenza e il conflitto, ma, indubbiamente, le condiziona. I lavoratori, per esempio, hanno compreso perfettamente che al risanamento dei conti pubblici sono chiamati solo loro con costi altissimi, che potrebbero, invece, ridursi se fossero coinvolti altri strati sociali, e, tuttavia, per ottenere anche questo minimo obiettivo ci sarebbe bisogno di mobilitarsi, ma, mobilitandosi non rischierebbe d’essere incrinata la già debole fiducia dell’Italia e non si creerebbero ulteriori problemi alla stabilizzazione necessaria per uscire dalla crisi?

Gran parte del lavoro dipendente (e falsamente indipendente) ha reagito, quindi, con comprensione alla prima fase del governo Monti, senza con ciò condividerne tutte le misure. Ma la luna di miele per Monti è stata, ugualmente, interrotta dopo poco. Tassisti, autotrasportatori, benzinai, agricoltori, pescatori hanno dato vita a mobilitazioni, chi contro le liberalizzazioni, chi contro i costi crescenti del gasolio, chi anche contro la rigidità di alcune regolamentazioni (i pescatori).

Ognuno di questi settori ha propri specifici motivi di malcontento e rivendicazioni, non di meno la loro mobilitazione è percorsa da una trama unitaria. Si tratta, per lo più, di settori che godono di condizioni reddituali mediamente più elevate di quelle operaie, in quanto associate a un piccolo capitale, costituito dalla proprietà del mezzo produttivo. Negli ultimi due decenni il livello dei redditi è stato conservato con fatica e solo grazie a un accrescimento continuo dello sforzo lavorativo. Con la crisi, le difficoltà sono aumentate ulteriormente: riduzione generale delle attività, pressione sui prezzi di vendita dei loro prodotti e/o servizi, difficoltà di accesso al credito e suo costo crescente. Le imposizioni fiscali del governo per risanare i conti, la minaccia di strette sull’evasione fiscale (cui fanno diffusamente ricorso, nella più parte dei casi come strumento per mantenere quel differenziale di reddito dal lavoro salariato, non per accumulare chissà quali cospicue ricchezze), le minacce di maggiori liberalizzazioni, hanno prodotto su grande parti di essi l’effetto-panico. A rischio, spesso, non è più solo il differenziale di reddito, ma anche quel piccolo capitale che sembrava costituire la riserva per sé e per i figli.
Anche in questi settori alberga la convinzione del “bene comune-paese” e del “bene comune-capitalismo”, ma questo non ha fatto da freno alla mobilitazione. Perché? Perché l’attacco alle proprie condizioni è stato avvertito come un attacco alle possibilità stesse di sopravvivenza. Sopravvivenza di status (rischio di precipitazione da padroncini a proletari), ma soprattutto sopravvivenza sic et simpliciter.
Pochi giorni di mobilitazioni hanno rivelato che il consenso al governo non è dato in modo illimitato e senza condizioni. Monti, accreditato di essere un tecnico digiuno di politica, ha repentinamente rivelato doti di politico navigato. Rinvio di alcune misure (taxi), promesse di alcune compensazioni (gasolio e autostrade per i trasportatori), apertura di tavoli istituzionali per imbrigliare le proteste (Sicilia). Più complicata la situazione in Sardegna, con la mobilitazione di operai e “popolo” per la conservazione di siti produttivi. Ma, nel complesso, i toni del governo si sono fatti più moderati. Merito delle mobilitazioni, e del rischio di estensione ad altri, che, traendone esempio, avrebbero potuto riconsiderare l’acquiescenza verso il governo. Non a caso ai passettini indietro si è unito quello di mettere la sordina alle trombe sull’art. 18.
La soluzione finale che sembrava, per Monti, a portata di mano nel giro di poco tempo, sull’onda del panico per il rischio bancarotta, dev’essere rimandata, e sottoposta al rito della contrattazione. Il governo non molla la presa, e cerca, tuttalpiù, qualche risorsa da mettere sul tavolo in cambio di cedimenti corposi sulla libertà di licenziare, bussando all’Europa per rendere disponibili risorse per rilanciare la “crescita”.

Questa volta non ha trovato porte chiuse, ma dichiarazioni di disponibilità. In Italia la disponibilità delle Merkel è stata variamente interpretata. Per alcuni è di pura facciata, per altri è merito della ritrovata credibilità nazionale, grazie a un primo ministro finalmente affidabile e al serio avvio del risanamento dei conti. In realtà il piano delle Merkel prevedeva già “stimoli” alla crescita e anche un rafforzamento del ruolo della Bce come prestatore di ultima istanza anche agli stati, ma solo dopo che fosse stato messo in sicurezza il percorso di riduzione dei deficit e dei debiti statali (fiscal compact). La differenza di fondo tra Merkel e Obama è che la prima vuole evitare l’ulteriore crescita di capitale monetario (per lo meno, le conseguenze per l’Europa di una sua crescita incontrollata) e, dunque, punta a ridurre almeno una parte di quello esistente, caricandone il peso sugli stati (ossia sui lavoratori) e, in parte, anche sulle banche (haircut dei prestiti alla Grecia), il secondo vorrebbe un’Europa creatrice illimitata di capitali monetari, su cui far sbizzarrire il capitale finanziario anglo/americano, bisognoso di investire in assets meno tossici di quelli in portafoglio (terribilmente più tossici dei titoli pubblici europei, greci compresi) e per indebolire la possibilità che l’euro approfitti delle difficoltà del dollaro per sostituirlo come moneta di riferimento internazionale.

Dopo alcuni mesi di attacco concentrico contro i debiti statali europei da parte di banche e fondi anglo/americani, Fed, agenzie di rating, Fmi, Obama, Cameron, ecc., l’euro ha resistito (se pur leggermente indebolito), la spirale di crescita dei debiti pubblici si è (almeno provvisoriamente) fermata, ma la Bce ha dovuto dare vita a una sorta di quantitave easing con l’apertura di prestiti vantaggiosi alle banche europee in cambio del deposito nelle sue casse di titoli variamente tossici. La massa monetaria messa in circolazione non è pari ai desideri anglo/americani, ma, tuttavia, corrisponde a una sorta di compromesso, con il quale l‘Europa conta di ottenere almeno un periodo di tregua. Se la tregua reggerà e il fiscal compact si consoliderà, allora l’UE potrà anche dedicarsi a cercare “stimoli alla crescita”.

Al di là dei fondi messi a disposizione, tuttavia, il vero stimolo alla crescita su cui l’Europa si sta vivacemente impegnando (qui in piena sintonia con Obama e Wall Street) è la ripulitura del mercato del lavoro da ogni ostacolo “artificioso”, come l’art. 18 o i contratti collettivi nazionali, ecc.
Queste misure, unite a quelle già varate, e le conseguenze di entrambe sulla vita e il lavoro di milioni di persone, che, in alcuni casi, iniziano a divenire minacce vere e proprie alla stessa sopravvivenza fisica, alla riproduzione della vita propria e dei propri familiari, potranno definitivamente interrompere la luna di miele tra Monti e il proletariato (e il proletariando). Napolitano, che ne è consapevole, ha già avviato l’opera di persuasione a proteste “rispettose della democrazia”, ossia a semplici manifestazioni di opinioni che non intralcino le decisioni assunte. Nei vertici sindacali troverà disciplinato ascolto, forse un po’ meno nella massa dei lavoratori.




Se Monti è il conclamato eroe mondiale dell’avvento della piena libertà per il capitale, la Grecia ne è il primo laboratorio nel continente in cui i “condizionamenti” del lavoro al capitale avevano raggiunto le punte più elevate. L’oggetto di queste politiche è la grande massa di coloro che, per sopravvivere, possiedono solo la propria forza-lavoro, associata o no a un bagaglio professionale o a un piccolo capitale.
Da quando è iniziata la crisi e hanno preso forma le politiche capitalistiche per uscirne (in perfetta continuità con quelle che l’hanno preceduta), questa massa ha dato prove alternate di resistenza. Su di esse un approfondimento deve essere fatto, per comprenderne la dinamica e fondare una seria prospettiva di resistenza. In questa sede ci si limiterà, però, solo a due osservazioni su questioni, tuttavia, decisive.
Nel cuore d’Europa la reazione è stata di sostanziale acquiescenza, in periferia la resistenza c’è stata (Martinica, p.e.), in Nord-Africa ha preso la forma di vere rivolte (Tunisia ed Egitto). L’unico paese europeo (non a caso, “periferico”) in cui la reazione di massa è stata significativa è stata la Grecia, la cui vicenda induce a una prima, fondamentale, riflessione per chi voglia contribuire a invertire il corso delle cose.
La mobilitazione dei lavoratori, giovani, settori di piccola-borghesia, contro le politiche di austerità non ha quasi conosciuto interruzione, in Grecia, negli ultimi due anni, ed è continuata massiccia anche contro le ultime misure, tra cui svettano quelle di abolizione della contrattazione sindacale. Essa ha ottenuto, però, un unico risultato: il taglio parziale dei crediti delle banche. Non è molto, ma neanche poco. Senza tutti gli scioperi e le lotte non ci sarebbe stato neanche questo. Ciò vuol dire che la resistenza collettiva può portare almeno a una riduzione dei danni. Se la riduzione del danno è stata limitata, non è per causa di errori o debolezze del movimento di resistenza (che pure ci sono stati, di Bonanni e Camusso ce ne sono anche in Grecia, e anche lì s’è a lungo alimentata la convinzione del “paese-bene comune”), ma, soprattutto, perché il movimento di resistenza è stato lasciato solo. Da un lato una grande coalizione di stati europei e istituzioni finanziarie pubbliche e private, dall’altro un movimento di lotta generosissimo, ma, purtroppo, completamente isolato. Se le resistenze greche avessero trovato solidarietà attiva in Spagna, Italia, Francia, Germania, ecc., sicuramente i greci avrebbero ottenuto di più, e, altrettanto sicuramente, sarebbe divenuto più facile per spagnoli, italiani, ecc., difendersi allo scoccare della loro ora.

Non è avvenuto perché ovunque ci si muove ancora nel proprio involucro nazionale.

Seconda riflessione. Non è avvenuto anche perché, in generale, è divenuto più difficile riconoscere l’avversario. Un tempo esso era a portata di mano. Era il padrone, l’imprenditore, e, in alcuni ambiti (politiche fiscali e sociali), lo stato. Oggi, l’uno e l’altro appaiono come soggetti deboli a confronto di forze ben più determinanti, ma inafferrabili e non precisamente localizzabili (i mercati, la finanza). A questa difficoltà si è cominciato a rispondere, per ora, solo negli Usa, dove Occupy Wall Street ha avuto il merito (oltre all’altro di invocare una World Revolution) di lanciare il messaggio “siamo il 99% contro l’1%”. Per quanto simbolico il messaggio rivela che non c’è nulla di “oggettivo”, ma dietro i “mercati” vi è un insieme di persone e istituzioni, una vera e propria classe transnazionale, che difende un sistema di produzione e scambio perché difende la sua propria collocazione sociale di privilegio e di potere, che si regge sullo sfruttamento del lavoro e della vita del restante 99%.

Questi due terreni (orizzonte internazionale e di classe) sono di difficile costruzione. Non di meno sono elementi indispensabili per fondare una resistenza di massa (senza la quale è persino inutile parlare di alternativa di sistema) alle politiche di uscita dalla crisi basate sul rilancio dello sfruttamento di lavoro e vita di quel proletariato che esse stesse vanno smisuratamente accrescendo a scala mondiale. Ed è anche la base minima per cercare di intrecciare alleanze tra i vari settori coinvolti, per avviare una lotta comune, all’interno della quale soltanto può emergere anche una visione alternativa di una società non più basata sul rapporto capitale/lavoro, ma sulla cooperazione sociale, messa a servizio della riproduzione della vita e non del capitale.


16 febbraio 2012

dal sito http://www.infoaut.org/


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