Diari di Cineclub

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mercoledì 15 ottobre 2014

DIRITTI E DOVERI di Antonio Moscato






DIRITTI E DOVERI 
di Antonio Moscato


Avevo già denunciato l’approdo squisitamente reazionario del prof. Biagio De Giovanni, del PD, che trova eccessivi i diritti dei lavoratori, che secondo lui trascurano i loro doveri. Lo diceva a proposito del caso del Teatro dell’Opera, e indubbiamente il suo suggerimento è stato accolto: tutti licenziati, tranne gli amministratori responsabili degli enormi sprechi pluridecennali. (Il Teatro dell’Opera di Roma ha fatto scuola). Quello che mi sorprende, in questo caso, o in quello della Thissen Krupp, o in decine di altre proteste di fronte a licenziamenti massicci, è che la maggior parte dei sindacalisti di tutte e tre le confederazioni e anche la quasi totalità dei lavoratori pensano di farsi scudo dei diritti sanciti dalla costituzione.

Succede d’altra parte anche per le sempre più rare proteste contro gli interventi imperialisti, le basi e le spese militari senza limiti: si fa appello a un art. 11 della costituzione che sancisce in astratto il “ripudio della guerra” ma non ha mai avuto la benché minima applicazione. Ogni richiamo ad esso ha sempre dato luogo a giustificazioni capziose a partire dalla seconda parte dell’articolo: quello che fa riferimento alle “limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” che dovrebbe essere assicurato da inesistenti “organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. E non si tratta di una prevaricazione degli “indegni eredi” dei mitici padri costituenti: tutti gli articoli più significativi della costituzione sono stati scritti in forma ambigua, tale da renderne impossibile la concretizzazione. La costituzione era una compensazione verbale per la rinuncia alla rivoluzione…

Anche l’articolo 4 viene invocato spesso senza domandarsi mai se e quando è stato applicato. L’articolo dice che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, ma ci si dimentica che si è cominciato ad applicarlo oltre vent'anni dopo la sua promulgazione (avvenuta nel dicembre 1947, con entrata in vigore dal 1° gennaio 1948). Soprattutto nel primo decennio, corrispondente al cosiddetto “miracolo italiano”, centinaia di migliaia di lavoratori furono licenziati per “ragioni economiche” che coprivano vere e proprie rappresaglie, filtrate nei casi delle più grandi fabbriche dai “reparti confino” in cui venivano segregati, lontano dalla loro base, gli operai più combattivi. A volte erano quegli stessi operai che avevano salvato le fabbriche dalle distruzioni e dai saccheggi nazisti ad essere licenziati da padroni e manager che avevano collaborato fino all'ultimo con gli occupanti. Erano operai che non avevano avuto paura di imbracciare le armi contro i nazifascisti, ma che avevano accettato per fiducia cieca nei dirigenti del PCI e della CGIL la rinuncia alla lotta rivoluzionaria.

Per anni e anni il licenziamento di quelle avanguardie aveva reso più facile il licenziamento di massa degli operai ogni volta che un padrone doveva cancellare qualcuna delle conquiste precedenti. E in mezzo a questi licenziamenti apparentemente “economici” passavano quelli selettivi degli operai che ricominciavano ad alzare la testa. Si veda tra gli altri testi che ricostruiscono quel periodo, questo. La costituzione c’era, ma non serviva a niente: mancavano i rapporti di forza, che si erano deteriorati facendo passare “il momento buono”.

D’altra parte anche prima, mentre il PCI era ancora al governo, era stato già concordato con la Confindustria lo sblocco dei licenziamenti (che erano stati bloccati nel clima della liberazione), con la contropartita di un po’ di lavori pubblici, e la compensazione della scala mobile. La CGIL aveva abbellito la misura parlando del ritorno al paese d’origine, dei lavori necessari per la ricostruzione, ecc., ma la sostanza era stato un colpo sferrato all’organizzazione operaia. L’ennesima concessione al padronato che si riorganizzava. E che avveniva nel quadro di quella sciagurata divisione delle sfere di influenza, che portò a sacrificare il proletariato italiano, greco, francese, mentre l’URSS era libera di imporre governi “amici” a Ungheria, Polonia ed altri paesi, che non ne volevano sapere (e che infatti si ribellarono nel 1953, 1956, 1968, 1981… ecc.). Bell’affare!

Sarà una nuova generazione operaia, senza le cicatrici della sconfitta provocata da quella collaborazione di classe del PCI che aveva portato alla restaurazione del potere borghese, a rendere finalmente applicabile parte della Costituzione: l’ondata operaia nel 1968-1970 preoccupò di nuovo seriamente la borghesia, e obbligò il parlamento a sbloccare lo Statuto dei Diritti dei lavoratori di cui si discuteva invano da decenni. Non si trattava solo di un pezzo di carta, era il riflesso di un mutamento profondo dei rapporti di forza nella fabbriche e nel paese. E la contemporanea radicalizzazione di magistratura, giornalisti, perfino poliziotti, oltre che della scuola, facilitò un uso estensivo di una legge che era stata concepita inizialmente anche per arginare e per porre dei limiti alla straordinaria nuova mobilitazione operaia. Sulla rinascita di un nuovo sindacalismo di lotta e sulle sue fasi rinvio a un testo più ampio.

L’involuzione politica e culturale non solo del principale erede del PCI, ma anche di gran parte delle formazioni sorte alla sua sinistra e confluite in vari periodi nel PRC ha fatto dimenticare sempre più questo dato essenziale, e ha trasformato il riferimento alla costituzione in un mantra privo di significato. Un’intera generazione operaia ha sperimentato sulla sua pelle che la costituzione in quanto tale non ha impedito i licenziamenti alla FIAT o lo smantellamento di centinaia di grandi fabbriche, a cui i sindacati (anche la FIOM) non hanno risposto adeguatamente o lo hanno fatto in ordine sparso, senza puntare a dare una risposta generale a un attacco che era generale. Per questo è difficile puntare a mobilitare i lavoratori usando solo il tema della difesa dell’art. 18, già abbondantemente svuotato dalla Fornero, e della cui scarsa efficacia molti lavoratori hanno fatto esperienza diretta in questi anni, anche per la progressiva involuzione di gran parte della magistratura.

Migliaia di fabbriche hanno comunque resistito eroicamente ma isolatamente, gli operai hanno presidiato spesso fabbriche svuotate preventivamente dai macchinari, portati impunemente all’estero anche se erano stati acquistati con sostanziosi contributi dello Stato o degli Enti Locali. A volte su certe strade si vedevano a distanza di poche centinaia o anche decine di metri fabbriche imbandierate con un picchetto simbolico, ciascuna per conto suo ed anzi a volte perfino in concorrenza tra loro per avere da Regione o Provincia un contributo, una garanzia per gli ammortizzatori sociali (con la funzione di un anestetico, non di una terapia), o perfino l’appoggio per ottenere un nuovo padrone. E questo per la sciagurata unità di vertice tra i due sindacati padronali e la CGIL che pur non essendo del tutto tale, ha comunque rinunciato da decenni alla pur minima funzione educativa e alla lotta di classe. È soprattutto anch’essa come gli altri sindacati quasi solo una dispensatrice di servizi. Capisco il peso della minaccia di Renzi sulla riduzione dei contributi ai CAF per le pratiche assistenziali, fiscali e pensionistiche (anche se la CGIL, come gli altri due, ha anche altre fonti di finanziamento corruttore, con la presenza in un gran numero di consigli di amministrazione di enti vari). E capisco la logica ricattatoria di Renzi quando dice loro (alla Camusso ma anche al Landini con cui aveva flirtato) “ma che avete fatto per anni? Dove eravate?”.

Molto tardivamente ora, messi alle strette, la FIOM e l’intera CGIL stanno ricominciando – con lentezza – a tornare in piazza. Per ora si parla di sciopero generale, ma si sceglie un giorno non lavorativo. È un vecchio vizio: quando fu lanciata la parola d’ordine della giornata internazionale per le 8 ore, nel 1889, si scelse il primo maggio, ma molti sindacati, a partire dalle Trade Unions britanniche… concordarono di “scioperare” la domenica successiva.

Comunque parteciperemo a questa tappa modesta del 25 ottobre, ma che almeno nelle dichiarazioni dovrebbe essere preparatoria dello sciopero generale. Tanto più perché centinaia di fabbriche hanno scioperato in questi giorni (Una mobilitazione che cresce). C'è una disponibilità alla lotta che oggi è ancora sopratutto di quadri,delegati e iscritti, ma non di massa. Una disponibilità che tuttavia non può essere tradita da mobilitazioni rituali o da bluff, come la promessa (in un comizio per la SEL) di “occupare tutte le fabbriche”. Non si sa con che forze, dopo anni di delusioni. Cominciamo intanto a sostenere chi il problema dell’occupazione se lo sta ponendo, come i lavoratori della Thissen Krupp, e casomai puntiamo su quell’esempio per allargare la lotta.

Dobbiamo conquistare le nuove generazioni all'idea che la lotta paga, che il conflitto sociale è la via per migliorare la propria vita. Abbiamo bisogno di una rottura vera, profonda di cui lo sciopero generale è solo il primo atto, se è un vero sciopero generale.

Ma bisogna rimettere al centro obiettivi concreti, a partire dalla riduzione di orario, per ridistribuire il lavoro esistente tra tutti. E di fronte alle catastrofi “naturali” come quella di Genova, va rilanciata la storica proposta di abolire le Grandi Opere inutili e costose (quando non direttamente dannose), e avviare un piano articolato di lavori di recupero del territorio che impegnino milioni di disoccupati e cassintegrati. Al tempo stesso non si può rinunciare a un recupero salariale, senza il quale aumenterà la disponibilità a effettuare straordinari in nero, togliendo lavoro ad altri.

Non sarà facilmente realizzabile, certo, ma bisogna ricominciare a parlarne, altrimenti si continuerà a inseguire chimere, e non si riuscirà a mobilitare la risposta necessaria. Dopo anni di richieste fumose e inconsistenti, si deve recuperare una verità elementare che ci ha insegnato l’Autunno Caldo: per ripartire dopo una sconfitta occorrono obiettivi paganti, che rendano accettabile il costo della lotta.



12 ottobre 2014



dal sito Movimento Operaio


La vignetta è del Maestro Mauro Biani




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