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giovedì 23 ottobre 2014

IL MASSACRO DI GAZA: HAMAS NE ESCE VINCENTE, MA A CHE PREZZO! di Michel Warschawski






IL MASSACRO DI GAZA: 
HAMAS NE ESCE VINCENTE, MA A CHE PREZZO!
di Michel Warschawski



Mentre scrivo, la tregua e i colloqui per il cessate il fuoco sono stati interrotti, ancora una volta in seguito a una deliberata provocazione israeliana (il tentato assassinio del comandante militare Mohammad Deif, che è fallito, ma con varie vittime civili, tra cui sua moglie e la sua bambina). È peraltro verosimile che quando l’articolo uscirà, sarà stato firmato un accordo: tutti sono infatti interessati a porre fine a questo scontro, ma non prima di aver sparato l’ultima salve al solo scopo di poter proclamare “abbiamo vinto!”. Su questo – chi ha vinto? – tornerò più avanti nella mia analisi.

Un’osservazione semantica: i mezzi di informazione di massa e le diverse opinioni pubbliche parlano di “guerra di Gaza”. Questa definizione è parte del gigantesco apparato di propaganda montato da Israele e ripreso dalla cosiddetta “comunità internazionale” e da gran parte dei media. Come parlare di guerra se da una parte c’è la quarta potenza militare del mondo e, dall’altra, una popolazione stretta da sette anni in un blocco totale e che per difendersi dispone soltanto di missili artigianali, che provocano danni umani e materiali irrilevanti?

Massacro a Gaza

Se prendiamo gli ultimi due mesi, il conteggio dei morti (odioso da fare e da dire, ma pur sempre da precisare) è: 3 civili israeliani da un lato, 1.800 civili palestinesi dall’altro. Non è una guerra ma un massacro: bombardare con l’aviazione, l’artiglieria e l’artiglieria navale 1,8 milioni di persone, ferme, su un territorio non più grande di un agglomerato urbano francese di medie dimensioni, significa per forza mirare sulla popolazione, un atto di terrorismo su vasta scala.

I mezzi dispiegati dallo Stato israeliano sono assolutamente sproporzionati rispetto a un qualsiasi obiettivo militare. Ma di quale obiettivo si tratterebbe, in realtà?

Agli inizi, Israele ha accusato Hamas, senza alcuna prova, di aver ordinato il sequestro di tre giovani coloni in Cisgiordania; Hamas non solo aveva negato, ma la logica dell’accordo palestinese di governo di unità nazionale appena siglato contrasta con un’iniziativa del genere. Ma se non sei stato tu, allora è stato tuo fratello … [allusione alla favola del lupo e dell’agnello, di Esopo, NdT].

Se si dice Hamas si dice Gaza, dove Hamas è al potere. Per Israele, Hamas = terrorismo, poco importa che vi vivano oltre un milione e mezzo di esseri umani. Per la stragrande maggioranza degli israeliani, Gaza non è un territorio o una popolazione, ma una bomba di distruzione di massa che bisogna disinnescare, non importa a che prezzo. Del resto, nel linguaggio corrente, per dire “vai al diavolo” si è detto a lungo “vai a Gaza”.

I coloni uccisi sono stati ben presto dimenticati, e si è allora cominciato a (ri)parlare di missili sulle località intorno a Gaza. Questi missili piovevano da anni senza fare danni reali, e senza disturbare la quiete degli abitanti del resto di Israele, che non si sentono minimamente coinvolti dalla cosiddetta “periferia”, l’equivalente delle banlieues francesi.

È stato allora che, con l’offensiva di terra, si sono scoperti i tunnel offensivi (da non confondere con quelli che facevano passare dall’Egitto i generi indispensabili alla sopravvivenza degli abitanti di Gaza, fino al colpo di Stato dei militari in Egitto, alleato di Israele, che li hanno immediatamente distrutti). Era noto che ci fossero tunnel, ma la sorpresa degli israeliani è stata ben reale quando ne hanno visto le dimensioni e le risorse tecnologiche che implicavano. Un ulteriore insuccesso dei “migliori servizi di spionaggio” del mondo, che non hanno mai mancato di essere colti di sorpresa, dalla resistenza palestino-libanese all’invasione del 1982 fino alla capacità di resistenza di Hezbollah nel 2006 passando per l’Intifada (1987-1990): Ci si chiede a che cosa servano i loro esorbitanti bilanci…

In effetti, l’incapacità dei servizi segreti non dipende dalla mancanza di addestramento e di tecnologia, ma è un dato politico: l’arroganza coloniale impedisce di capire e addirittura di vedere il colonizzato. Come gli israeliani si sono stupiti, nel 1982, scoprendo che a Beiruth c’erano grandi palazzi e belle auto (sic), così non riuscivano a immaginare che la gente di Gaza potesse scavare tunnel sotto le proprie catapecchie.

Siamo quindi ora alla guerra dei tunnel. E allora perché cancellare interi quartieri di Gaza e fare quasi 2.000 vittime tra la popolazione civile? Che cosa cerca Israele?

Obiettivo: Mahmud Abbas

Per paradossale che possa sembrare, ad essere presi di mira non sono né Gaza né Hamas, ma il nemico pubblico numero uno di Hamas – il presidente dell’ANP, Mahmud Abbas. Nessuno più di lui, infatti, vuole un accordo di pace con Israele, al prezzo del compromesso, che per molti palestinesi costituisce ormai una effettiva compromissione. Il presidente palestinese è sorretto dalla “comunità internazionale”, che lo ha nominato “partner ineludibile della pace” in Palestina/Israele. Una pace, ancorché al ribasso, presuppone l’arresto della colonizzazione e il ritiro dalla (maggior parte della) Cisgiordania. Questo è però in contrasto con l’obiettivo strategico dei vari governi insediatisi a Tel Aviv, perlomeno dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin, e cioè l’impresa di colonizzazione – e dell’annessione di fatto – della Cisgiordania. Una strategia a lungo termine, pianificata e messa sistematicamente in atto da Yigal Alon e Ariel Sharon fin dall’inizio degli anni Settanta.

Per il governo israeliano, un governo palestinese disposto a compromessi costituisce dunque una minaccia e una comunità internazionale – vale a dire soprattutto gli Stati Uniti – decisa a rimettere in moto le cose, una catastrofe. La seconda parte di questa equazione non è all’ordine del giorno, come ha dimostrato l’umiliante insuccesso del missione Kerry qualche mese fa.

La formazione del governo palestinese di unità nazionale è stata l’espressione di una vasta aspirazione popolare. In Israele la si è vista come una fortuna inaspettata: “Avete visto”, si andava dicendo a Tel Aviv, “Abbas e Mash’al: se non è zuppa è pan bagnato, entrambi terroristi più o meno dichiarati, non interlocutori per fare la pace. Circolare, non c’è più niente da vedere”. Eppure Hamas, in quell’accordo aveva fatto seri compromessi politici accettando di lasciare proseguire al ribasso le trattative con Israele.

Per Netanyahu il problema è stato che il governo di unità nazionale ha ottenuto l’appoggio della comunità internazionale, e della stessa amministrazione Obama, verso cui Netanyahu non nasconde la propria antipatia… del resto ricambiata dalla Casa Bianca, senza per questo mettere in discussione il legame strategico strutturale che lega i due Stati. È qui che si capiscono l’aggressione a Gaza e la sua principale motivazione: non i missili, né i tunnel: si tratta di cancellare Abbas e la minaccia di trattative.

L’attacco di Gaza e il suo insuccesso

Si doveva trattare di un’operazione semplice: erano mobilitati più di 60.000 riservisti, una poderosa artiglieria, centinaia di blindati e soprattutto l’aviazione. L’obiettivo iniziale non era chiaro: bloccare il lancio di missili? Abbattere il governo Hamas? Il gabinetto israeliano non riusciva a mettersi d’accordo. Quel che è certo è che, in partenza, non si trattava di un’operazione di terra.

Dopo varie settimane di bombardamenti senza precedenti, con distruzioni massicce, l’esercito è costretto a fare un bilancio: è un fallimento, perché Hamas continua i suoi lanci di missili e riesce a raggiungere l’agglomerato di Tel Aviv, Gerusalemme ed anche la periferia di Haifa, nel Nord.

A Tel-Aviv decidono allora di rientrare nella città di Gaza, che si rivela, com’era prevedibile, una trappola: nell’operazione di terra vengono uccisi più di 50 soldati e Hamas si difende efficacemente, mantenendo la maggior parte delle sue posizioni difensive e offensive. I lanci di missili continuano disinvolti.

Dopo il cessate il fuoco si istituiranno sicuramente commissioni d‘indagine per cercare di spiegare questo fiasco, in particolare quello dei servizi d’informazione, che non sono stati in grado di prevedere sia l’estensione dei sofisticati tunnel sia - soprattutto – la capacità di resistenza di Hamas e della sua popolazione.

Il prezzo pagato dalle popolazione è comunque gigantesco, ma Israele ha perso la guerra. L’accordo che si firmerà prima o poi sarà per Hamas (e per gli abitanti di Gaza) migliore della situazione precedente, in particolare per un certo alleggerimento del blocco.

A questo va aggiunto l’ulteriore logoramento dell’immagine di Israele nel mondo, non solo agli occhi dei/delle militanti e simpatizzanti per la causa palestinese: anche l’amministrazione statunitense, che peraltro non ha lesinato sul rapido rafforzamento delle capacità militari del suo alleato strategico, è indignata nei confronti della politica di Netanyahu, che dichiara di avere difficoltà a capire e, dal punto di vista umanitario, ad accettare senza reagire. Fortunatamente per Netanyahu, gli restano Hollande e Valls…

Sono cominciati i negoziati sotto l’egida dell’Egitto, ben lontano dall’essere un mediatore neutrale (“fair brooker”). Sono state sospese da Israele, ma è evidente che riprenderanno ben presto e installeranno uno statu quo che reggerà finché reggerà, e tutto o quasi dipenderà dalla volontà del potere israeliano di prendersi una rivincita sperando che riesca meglio.

Fronte unico in Israele

Come scrivevamo all’inizio dell’articolo, Gaza fa paura agli israeliani, e tutte le giustificazioni, anche le più insensate, rivolte alla propria popolazione passano. Le rare voci di commentatori che cercano di immettere un po’ di realtà nelle loro analisi, annegano nel coro di consensi. Questo spiega l’assenza di opposizione di massa all’aggressione e al massacro che questa ha prodotto.

Se, fin dai primi giorni, ci sono stati dei raduni contro la guerra, ad Haifa, a Tel Aviv e a Gerusalemme, sono rimasti di modeste dimensioni (poche centinaia) e hanno interessato solo l’“estrema sinistra”, sono stati cioè marginali.

A un certo punto è sembrato che l’opinione pubblica cominciasse a svegliarsi: il 26 luglio varie migliaia di uomini e donne si ritrovavano in Piazza dei Re (la stessa dove era stato assassinato Rabin), finora, la più grande delle manifestazioni anti-guerra. Ma era davvero una manifestazione contro la guerra? La maggioranza dei manifestanti era venuta a esprimere il proprio disgusto per il massacro e la propria solidarietà verso Gaza? Non ne sono convinto: salvo per un esiguo migliaio di militanti, quel che motivava i cittadini di Tel Aviv era Israele, la sua rapida trasformazione in una società fascista; la piccola-borghesia locale, colta ed agiata, sta perdendo il proprio paese, a causa di un’estrema destra populista e a gruppi fascisti sempre più violenti.

È il vecchio Stato di Israele, e più in particolare la Tel Aviv prospera e aperta al mondo, che i manifestanti sono venuti a difendere, molto meno i martiri di Gaza. Questo Israele sta fondendo sotto i loro occhi, il che può spiegare il discorso demoralizzato di alcuni giovani che parlano di lasciare il paese, di cui non sopportano più, letteralmente, il fetido odore. Tanto più che gli “intellettuali di sinistra” non si sono fatti notare per le loro posizioni critiche, con la considerevole eccezione del professor Zeev Sternhel e, naturalmente, di quel grande umanista che è il corrispondente di Haaretz, Gideon Levi.

Nel mio blog scrivevo di recente che Gaza si risolleverà dalle sue ceneri, ma Israele riuscirà a ritrovare un minimo di umanità? Non c’è nulla di meno sicuro ed è tutto come se si fosse superata una soglia nella marcia suicida dello Stato di Israele e della sua società.

Indispensabile la solidarietà internazionale

Le iniziative di protesta contro il crimine di Gaza e di solidarietà con la sua popolazione sono state, per il mondo intero, numerose e massicce. Alla legittima rabbia si aggiungeva una forte richiesta di porre fine all’impunità di cui gode lo Stato ebraico.

Il governo francese, ancora una volta dopo la vittoria di François Holland, si è distinto per il suo miserabile comportamento di fronte a queste proteste, non solo legittime ma spontanee, vietando per due volte le manifestazioni a Parigi. Per fortuna il popolo francese ha maggiore senso morale, e politico, dei suoi eletti, ed è riuscito a sfidare gli iniqui decreti. Valls e soci hanno allora tirato fuori l’arma di ultima istanza, assimilando sostegno alle vittime palestinesi e terrorismo. A questa sordida manipolazione si ricorre regolarmente, ma continua ad anestetizzare i più moderati, specie nei media. L’identificazione con Israele da parte del governo socialista (ma assolutamente non di tutti i suoi eletti) e la politica dei due pesi e due misure non può che fare il gioco degli antisemiti e del loro stupido discorso sulla “lobby che tira i fili”; può anche portare a scavalcamenti nei movimenti di solidarietà”; specie fra i manifestanti meno politicizzati, spesso accecati dalla collera.

Le migliaia di morti a Gaza, l’immane massacro di civili innocenti, hanno segnato gli animi, profondamente e sicuramente a lungo. Ora si tratta di capitalizzare quell’indignazione in un movimento duraturo, a livello nazionale e internazionale, che non sia fatto solo di questa indignazione spontanea, ma si armi di una strategia a lungo termine contro lo Stato coloniale israeliano e la sua politica.

È qui che la campagna BDS (boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni) assume tutta la sua importanza: Israele va messo fuorilegge nello spazio pubblico, respinto dalla comunità internazionale, e quando sarà il caso portato sul banco degli imputati dalle società civili e le loro istituzioni, dai loro movimenti, partiti politici, sindacati e dalle stesse aziende. Si può fare, si fa; non c’è dubbio che il massacro di Gaza contribuirà largamente al rafforzamento di questo movimento globale.

Nel quadro della campagna BDS, urge esigere dai governi e dalle istanze internazionali che chiamino i responsabili politici e militari israeliani del massacro di Gaza a risponderne davanti agli organi giudiziari locali e internazionali: i crimini di guerra e quelli contro l’umanità non possono cadere in prescrizione. Tutti insieme, dobbiamo gridare, alto e forte: “Nessuna impunità per gli assassini di Gaza!”.

Gerusalemme, 21 agosto 2014




Michel Warschawski (nato a Strasburgo nel 1949) è giornalista e militante israeliano di estrema sinistra radicale, cofondatore e presidente dell’AIC [Centro di Informazione Alternativa] di Gerusalemme ed ex dirigente del Mazpen marxista [Lega Comunista Rivoluzionaria Marxista], sezione israeliana della IV Internazionale, sparita durante gli anni ’90. Questo articolo è ripreso da Inprecor, nn. 607-6088, agosto-settembre 2014.

 La traduzione è di Titti Pierini.


Vedi anche   “Un processo rivoluzionario a lungo termine con fasi controrivoluzionarie”



dal sito Movimento Operaio



La vignetta è del Maestro Mauro Biani










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