Diari di Cineclub

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lunedì 6 ottobre 2014

IL GRANDE RALLENTAMENTO DELLO SVILUPPO CINESE di Vincent Kolo





IL GRANDE RALLENTAMENTO  DELLO SVILUPPO CINESE
di Vincent Kolo




I segnali che la gigantesca bolla immobiliare è alla fine smentiscono i dati ottimistici di Pechino sul PIL

Il grande rallentamento

Il 16 luglio il governo cinese ha pubblicato i suoi dati sul PIL per il secondo trimestre, facendo tirare ai mercati finanziari globali un sospiro di sollievo in quanto è stata annunciata una crescita del 7,5%. Tuttavia questa cifra (i dati di Pechino sul PIL sono notoriamente soggetti a manipolazioni) non segnala che la seconda economia più grande del mondo si e ‘stabilizzata’. Questa è stata ‘una ripresa, sulla carta’ – ha osservato Keith Bradsher – corrispondente da Pechino per il New York Times (16 luglio 2014). Come la relazione Bradsher sottolinea, ‘inchieste indipendenti di imprese in tutta la Cina mostrano che, in un settore dopo l’altro, vendite e fiducia stanno peggiorando ancora’.

L’aumento statistico, da una crescita del 7,4% su base annua nel primo trimestre, è stato conseguito principalmente con l’aiuto di un altro ‘mini incentivo’. Come le misure analoghe lo scorso anno, ciò è stato fatto passare in maniera furtiva dal premier Li Keqiang e dai suoi esperti di economia, che ufficialmente aderiscono alla linea: ‘basta incentivi!’ Le ultime misure di Li comprendono spese supplementari per l’edilizia abitativa pubblica e le costruzioni ferroviarie – il 32% in più nel mese di giugno rispetto all’anno precedente – e un pacchetto di tagli fiscali e di misure di credito più flessibile (riserva obbligatoria inferiore per alcune banche minori) per promuovere il settore delle piccole imprese.

Il debito vola

Ma l’aumento eccezionalmente rapido del debito cinese ha ristretto il campo d’azione del Governo per gli incentivi. Secondo Bloomberg, il debito totale è salito dal 166,6% del PIL alla fine del 2011 al 202,1% nel primo trimestre del 2014, e al 206,3 per cento nel secondo trimestre. L’aumento del debito nel corso degli ultimi cinque anni è stato più rapido in Cina che nel Giappone degli anni ’80, nel Sud-Est asiatico degli anni ’90 e nell’economia statunitense degli anni 2000 – in ciascuno dei quali si sono verificate gravi crisi finanziarie. In Giappone, per esempio, il rapporto debito/PIL è aumentato di circa il 45% dal 1984 al 1989. La Cina ha compiuto una prodezza simile in meno di tre anni.

Sta diventando chiaro che l’economia cinese è ormai entrata in un periodo di crisi che può scatenare sommovimenti sociali e politici. Le misure adottate dal presidente Xi Jinping per rafforzare la sicurezza dello Stato e restringere ulteriormente qualunque manifestazione organizzata di dissenso sono il segnale che Pechino si prepara ad un’emergenza. La dittatura del Partito Comunista Cinese affronta un ‘trilemma’ di alternative spiacevoli: disinnescare la bomba del debito, col rischio di strangolare gli investimenti e la crescita; permettere alla bolla immobiliare di scoppiare, col rischio d’innescare una crisi bancaria; e rimettere al passo le sovraesposte amministrazioni locali, che però sono la fonte della maggior parte degl’investimenti. La pressione di Pechino sulle regioni per accelerare la spesa in infrastrutture in conformità coi più recenti ‘mini incentivi’ contraddice gli sforzi per ridurre la congestione finanziaria dell’economia e aggrava il problema del debito.

Questo ha portato commentatori capitalisti a lamentarsi che il Governo è in fase di stallo sulle riforme neoliberiste di mercato promesse al Terzo Plenum del PCC alla fine del 2013. Allo stesso modo, essi lamentano il fatto che il promesso ‘riequilibrio economico’ verso una maggiore spesa dei consumatori e una minore quota di PIL spesa in investimenti (che l’anno scorso hanno raggiunto il record del 54% del PIL) non si sta verificando. Per Pechino, come si è visto in passato, un tale riequilibrio è molto più facile a dirsi che a farsi. Anche un modesto rallentamento degli investimenti infatti potrebbe tradursi in un rallentamento economico molto più gravoso, che a sua volta potrebbe innescare una crisi finanziaria legata al mercato immobiliare. Per questo motivo alcuni economisti descrivono quella della Cina come un’ ‘economia in bicicletta’, che potrebbe cadere se rallenta troppo.

Il crollo dell’edilizia abitativa

In un sondaggio condotto da CNN Money nel mese di luglio 2014, otto economisti su dieci hanno detto che il mercato immobiliare rappresenta la più grande minaccia per l’economia della Cina. Un altro rapporto, della banca giapponese Nomura, ha avvertito che ‘Non è più una questione di ‘se ci sarà’, ma piuttosto di ‘quanto sarà grave’ la correzione del mercato immobiliare’. Il volume di vendite di nuove unità abitative nelle quattro città più grandi (Pechino, Shanghai, Guangzhou e Shenzhen) è sceso del 40% nel primo trimestre del 2014. A livello nazionale, la costruzione di nuove case è diminuita di più del 25% nel trimestre e il valore delle vendite è diminuito del 7,7%. Delle 27 maggiori città della Cina 21 avevano scorte di beni di edilizia abitativa superiori ad una fornitura di 12 mesi. Nove città avevano approvvigionamenti per più di due anni.

La contrazione del mercato è bene accolta dalla stragrande maggioranza della popolazione che è impossibilitata all’acquisto di una casa dai prezzi gonfiati di oggigiorno. I prezzi delle case sono saliti alle stelle, nel caso di Shanghai u aumento del 273% negli ultimi sette anni. Questo spiega perché l’83 per cento d’intervistati in un recente sondaggio del Quotidiano del Popolo ha detto che il governo non dovrebbe ‘salvare il mercato immobiliare’ e limitare i provvedimenti di calmieramento del settore che ha imposto nel 2011. Il Financial Times (12 maggio 2014) ha riferito che l’1% delle famiglie più ricche possiede circa un terzo degli immobili residenziali della Cina. Un altro rapporto stilato dalla CLSA, un gruppo finanziario con sede a Hong Kong, afferma che il 53% degli acquisti di case in Cina sono effettuati con ‘fini speculativi’, piuttosto che per avere un posto dove vivere. La maggior parte di queste proprietà sono lasciate vuote in modo da fruttare un prezzo di vendita più alto.

Funzionari del PCC corrotti sono stati molto attivi nel mercato immobiliare, comprando in molti casi centinaia di appartamenti come mezzo per parcheggiarvi la loro ricchezza illecita. Non è sorprendente, quindi, che l’iniziativa anticorruzione di Xi Jinping abbia anche contribuito alla contrazione del mercato smorzando l’appetito dei funzionari per le proprietà immobiliari. La campagna di Xi ha superato la scala delle precedenti campagne di contrasto alle malversazioni, rispecchiando una crisi e una lotta di potere serie nell’ambito dello Stato.

Una frenesia di costruire di cui il mondo non aveva mai visto l’eguale è stata l’elemento più importante nel gigantesco pacchetto d’incentivi varato dal regime cinese nel 2008, nel tentativo di compensare gli effetti della crisi globale. Come capita sempre nel contesto della Cina i dati economici contengono alcune cifre sconcertanti. ‘In soli due anni, 2011-2012, la Cina ha prodotto più cemento di quanto gli Stati Uniti abbiano fatto in tutto il XX secolo’ – ha riferito Jamil Anderlini sul Financial Times (13 maggio 2014). La Cina l’anno scorso ha costruito la metà dei nuovi edifici residenziali del mondo, secondo il vice presidente del Centro di Ricerca per lo Sviluppo del Premier Li. Si stima che negli ultimi 5-6 anni circa 200 milioni di unità abitative siano state costruite – più di una volta e mezza il patrimonio abitativo totale negli Stati Uniti (130 milioni di unità). La costruzione su questa scala supera di gran lunga la ‘domanda’ di mercato – che non è determinata dalle esigenze dei quasi 1,4 miliardi di Cinesi, ma dalla distribuzione fortemente diseguale della ricchezza che ha accompagnato gli ultimi 30 anni di ‘riforma e apertura’ capitalistica. Bassi salari e protezione sociale inesistente sono ancora una realtà per la maggioranza della popolazione e anche le classi medie affrontano crescenti difficoltà ad acquistare un appartamento ai prezzi di oggigiorno.

Commentatori capitalisti e speculatori cinesi rifiutano di prendere in considerazione i sintomi di un soverchiante eccesso di offerta abitativa, compreso lo sviluppo senza fine delle ‘città fantasma’ e sostengono che ‘non si tratta di una bolla’, perché – dicono – decine di milioni di persone si sposteranno verso le città e presto riempiranno i complessi residenziali vuoti. Questo argomento è una versione moderna dello slogan altrettanto falso dei capitalisti inglesi nel 1850, che sognavano che, ‘se ogni cinese aggiungesse dieci centimetri alla sua camicia, i cotonifici del Lancashire avrebbero lavoro per generazioni’. In realtà la migrazione urbana in Cina ha già raggiunto il picco massimo. Il numero di nuovi arrivati annui dalla campagna si è dimezzato già dal 2010, da 12.500.000 a 6.300.000, secondo quanto riferisce Nomura. La banca prevede che ci potrebbe essere un deflusso netto di immigrati entro il 2016. Più precisamente, la percentuale di lavoratori migranti che acquistano una casa è inferiore all’1 % annuo.

Il boom edilizio della Cina, in particolare durante l’era dei megaincentivi a partire dal 2008, è stato trainato da una forma estrema di speculazione finanziaria. Governi locali, promotori immobiliari, funzionari corrotti, banche statali e le loro propaggini finanziarie ombra, hanno tutti contribuito a gonfiare i prezzi dei terreni, a espandere in maniera massiccia il credito e a ‘movimentare’ i numeri del PIL. Questo processo ha arricchito enormemente una piccola élite, mentre ha imposto miseria economica alla maggioranza. Tra i primi 10 miliardari nel settore immobiliare in tutto il mondo, sette sono della Cina, secondo il South China Morning Post (26 febbraio 2014). Come in Giappone nel 1980, valori immobiliari gonfiati hanno contribuito ad alimentare un’ondata senza precedenti di prestiti bancari che minaccia ora di scorrere in senso inverso. ‘La proprietà [è] in sostanza, il bene che garantisce tutto il credito dell’economia cinese’ – ha osservato il professore di economia Patrick Chovanec, che vive in Cina. Il calo dei prezzi dei terreni sgretolerà il valore contabile dei patrimoni in mano alle banche e ad altre società, aumentando il rischio di una bancarotta che potrebbe paralizzare il sistema finanziario.

A livello mondiale nel corso degli ultimi cinque anni c’è stato un aumento del debito di 30mila miliardi di dollari, di cui la Cina detiene la metà. Secondo JP Morgan, solo il settore bancario ombra dal 2010 è aumentato a dismisura da 2,4 a 7,7 miliardi di dollari statunitensi, pari all’84% del PIL della Cina. Queste somme fanno sembrare piccola anche la scala della crisi dei subprime negli Stati Uniti.

Finire come i Giapponesi?

Ci sono delle somiglianze che colpiscono con quello che è successo in Giappone quasi un quarto di secolo fa, qualcosa che ha provocato l’arresto dell’ascesa economica stellare di quel paese e l’ha condannato ad un doppio decennio di stagnazione. In Giappone, come in Cina oggi, circa l’80% dei prestiti è stato direttamente o indirettamente causato dal settore immobiliare. Il crollo dei prezzi nel settore, che ha avuto inizio nel 1989, si è ripercosso sul sistema bancario giapponese creando uno tsunami dovuto ai prestiti in sofferenza (cioè coi debitori non più in grado di restituire la somma). In Cina, una grande parte del debito è concentrata nell’intreccio dei governi locali e dei loro sistemi di investimento, degli speculatori edilizi sovraesposti, e di entità bancarie ombra create dalle banche ufficiali (e anche da imprese non finanziarie di proprietà statale) per aggirare i controlli governativi .

Non è sorprendente che i paragoni col Giappone degli anni ’80 siano comuni nelle discussioni economiche di oggi. Una registrazione che è trapelata da un discorso di Mao Daqing, vicepresidente del Gruppo Vanke, il più grande speculatore immobiliare cinese, ha fatto fatto emergere la desolante realtà che i portavoce del Governo preferirebbero nascondere: ‘Nel 1990, il valore complessivo degli immobili di Tokyo rappresentava il 63,3% del PIL degli Stati Uniti, mentre Hong Kong ha raggiunto il 66,3% nel 1997. Ora tale valore a Pechino è il 61,6% del PIL degli Stati Uniti, un livello pericoloso’, ha detto Mao Daqing (The Telegraph, 2 maggio 2014). ‘Nel complesso credo che la Cina abbia raggiunto il limite come capacità di nuove costruzioni di progetti residenziali (…) non vedo alcuna possibilità di un aumento dei prezzi delle case, soprattutto nelle città con una grande scorta di abitazioni, a meno che il governo non tiri fuori un altro paio di migliaia di miliardi [d'incentivi]. Pechino e Shanghai sono già nell’elenco delle città più costose al mondo per quanto riguarda i prezzi medi degl’immobili nel centro città’.

Quest’ammissione, da uno parte dei più importanti addetti del settore, non lascia alcun dubbio sul fatto che esista una gigantesca bolla immobiliare in Cina, che sta raggiungendo i suoi limiti. Anche se non si possono prevedere con certezza i tempi, è chiaro che questa situazione è insostenibile, e ciò che è insostenibile a un certo punto arriverà al suo limite naturale. Come in Giappone, e come negli Stati Uniti più di recente, quando le bolle speculative scoppiano danno inizio ad una reazione a catena calo dei prezzi/deflazione, che può aggravare enormemente i problemi attuali del debito.

Il regime dittatoriale cinese, con il suo controllo – almeno formale – del sistema bancario di proprietà dello Stato, ha già iniziato a prendere misure per cercare di evitare una crisi finanziaria. Le sofferenze del sistema bancario vengono nascoste e sottostimate. In un sistema autoritario, con il controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione, le cattive notizie verranno sempre più insabbiate onde evitare che scatenino il panico nel mercato. Il regime si prepara a salvare di nuovo le istituzioni finanziarie in fallimento e a istituire le cosiddette ‘banche nere’ come ha fatto 15 anni fa, al momento dell’ultima esplosione di crediti inesigibili all’interno del sistema bancario. Si tratta di aziende in cui i debiti irrecuperabili vengono sepolti, come un equivalente finanziario dei rifiuti tossici. Questo crea l’impressione che -come per magia – i bilanci delle banche siano stati risanati. Le banche vengono quindi ricapitalizzate con un’iniezione governativa di denaro. Però questa volta la portata di questa operazione dovrà essere molto più grande, e a questo punto invece di un salvataggio attuato con risorse del governo centrale Pechino vuole che siano province e città ad istituire ‘banche nere’, in modo che i salvataggi vengano eseguiti a livello locale, anche per evitare una crisi di sistema. Il precedente giro di salvataggi bancari, nel 1999-2000, costò il 40% del PIL cinese. Questo venne attuato per ‘ripulire’ le “Quattro Grandi” banche statali e prepararle per la quotazione sui mercati azionari in Cina e all’estero. Ma le sofferenze bancarie che sono state trasferite in quattro ‘banche nere’ (sotto forma di società di gestione del risparmio) all’inizio del secolo, oggi sono ancora lì. Ripetere questo trucco su scala ancora più grande non sarà un’impresa facile.

Dai primi di quest’anno il Governo ha tentato di gestire, in modo selettivo, le prime bancarotte pilotate di imprese, preoccupandosi anche di alcuni ‘titoli’ altamente speculativi venduti attraverso il settore bancario ombra. E’ un tentativo di tenere a freno le forme più spericolate di speculazione. Ma nella maggior parte dei casi Pechino ha scelto di consentire il salvataggio ed evitare bancarotte, tanta è la paura che persino il fallimento di alcuni oscuri prodotti finanziari ombra inneschi una crisi di sistema più ampia. Non per niente il premier Li ha paragonato la riforma delle banche cinesi al ‘disinnesco di mine terrestri’.

La crisi immobiliare ha già iniziato a pesare sulla crescita economica, provocando una riduzione degl’investimenti, che sono il motore principale del PIL. Sta anche aggravando i problemi finanziari dei governi locali, fortemente indebitati, che alla vendita di terreni devono una gran parte delle loro entrate – una media del 39% nel 2013. In alcune province, soprattutto dove la bolla immobiliare è stata più estrema, la situazione è più seria. Nella provincia di Zhejiang, i ricavi da vendite di terreno rappresentano quasi il 70% dei debiti diretti dei governi locali, con Tianjin non lontano da questa soglia.

Ricadute globali

‘La proprietà immobiliare cinese è il settore più importante dell’economia globale’ – ha dichiarato l’ex capo economista di UBS George Magnus al Financial Times. Questa affermazione sottolinea quanto sia alta la posta in gioco per il capitalismo globale. Secondo i dati ufficiali, il settore immobiliare lo scorso anno ha contribuito per il 16% al PIL della Cina, rispetto all’ 8,9% del PIL negli Stati Uniti considerato al culmine della sua bolla immobiliare (2006). Uno studio di Moody Analytics valuta la quota del mercato immobiliare sul PIL della Cina al 23% nel 2013. Il boom edilizio cinese ha risucchiato risorse da tutto il mondo, creando un ‘superciclo’ globale per i prezzi delle materie prime – dai combustibili fossili al minerale di ferro al legname -, che hanno aumentato i tassi di crescita del PIL in Africa, America Latina e Asia. La fine di questo boom sarà quindi una notizia ferale per il capitalismo globale.

(traduzione di A. Quattrone)

6 ottobre 2014

dal sito Associazione Controcorrente



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