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giovedì 14 maggio 2015

RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA di Giovanni Di Benedetto




RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
di Giovanni Di Benedetto




La scuola pubblica è un posto davvero pericoloso. Rimangono ancora impresse nella memoria le immagini del crollo di qualche settimana fa degli intonaci del solaio nella scuola elementare Pessina di Ostuni. Feriti due bambini e una maestra. E ce ne sarebbe da raccontare: il distacco dell’intonaco in un Istituto Alberghiero di Pescara a Febbraio, il crollo, qualche anno fa, del controsoffitto del Liceo Darwin di Torino che provocò la morte di uno studente di 17 anni; il cedimento di calcinacci, lo scorso mese di Marzo, nella scuola Cirrincione di Bagheria, con due bambini curati al Pronto Soccorso. E si potrebbe continuare ancora. Il fatto è che le macerie, i crolli e il degrado dell’edilizia scolastica, oltre ad essere gravi di per sé, rimandano ad un altro genere di degrado, quello dell’istruzione pubblica nel nostro paese. La scuola italiana è davvero ridotta in frantumi. Rovine su rovine.

Sarà anche per questo che l’indignazione che negli ultimi mesi è cresciuta contro la cattiva scuola di Renzi ha attraversato il guado ed è straripata in quello che si annuncia, per il 5 Maggio, come lo sciopero dei lavoratori e delle lavoratrici della scuola più grande di sempre. La stessa decisione sciagurata di rinviare le prove Invalsi per le elementari, provvedimento nella sostanza illegittimo e antisindacale, è la conferma di quanto forte è, oramai, la marea montante contro il Disegno di Legge di Renzi. D’altra parte, pare davvero intollerabile questa forma sleale di boicottaggio che, con un semplice atto amministrativo, prefigura la soppressione dello stesso diritto di sciopero.

L’elemento che più rende allibiti è dato dalla elementare constatazione che nel DDL sulla cosiddetta “Buona Scuola” non si fa alcun cenno alle grandi questioni della didattica e della pedagogia. Non c’è nessun riferimento ad un possibile orizzonte di senso che si misuri con il grande interrogativo che attraversa, oramai da quasi tre decenni, il tema del significato dell’insegnamento, tema a partire dal quale calibrare la verifica dell’efficacia dell’azione educativa. Ma si sa, gli stolti capovolgono, diceva Spinoza, il rapporto tra cause ed effetti e credono di rintracciare in questi ultimi l’eziologia di un determinato processo.

Eppure, a leggere il DDL, ci si accorge immediatamente che in esso ci sono due assi portanti, rispetto ai quali risulta quasi facile far scaturire le naturali deduzioni consequenziali. Il primo è quello dell’Autonomia, inteso come equiparazione della scuola pubblica ad un’azienda, il secondo è quello della centralità del Preside, inteso come l’equivalente di un manager. Da qui, tutto discende a cascata. Nei 24 articoli del disegno di legge i due assi, le due idee guida, ovviamente convergono, visto che potenziamento dell’autonomia significa “rafforzare la funzione del Dirigente scolastico” (art. 2) che diventa “responsabile (..) delle scelte didattiche, formative, della valorizzazione delle risorse umane e del merito dei docenti”. Quel residuo di potere collegiale che rendeva unica la scuola pubblica italiana, e che costringeva i lavoratori della scuola a condividere in modo partecipato quanto si stabiliva in tema di didattica e di valutazione, viene ulteriormente calpestato. Ciò che deve contare è la primazia giuridica del DS, attinente non solo agli aspetti amministrativi ma anche a quelli che attengono alla libertà di insegnamento, sancita, almeno fino a quando esisterà ancora, dalla nostra Carta Costituzionale.

Che la scuola pubblica debba essere ridotta alla stregua di un’azienda, oltre che da una sempre più esplicita gerarchizzazione (tra DS e insegnanti, tra collaboratori del DS e gli altri colleghi e tra questi stessi) e da una presenza del territorio negli organismi di gestione (leggasi ingerenza di interessi privatistici e imprenditoriali), è testimoniato da un ulteriore ampliamento delle attività riservate all’alternanza scuola-lavoro. Il dispositivo di legge configura l’alternanza scuola-lavoro come una vera e propria introduzione alle logiche del mercato e del profitto. Ho avuto modo di registrare personalmente come, tra i miei studenti e le mie studentesse, possa esser gratificante esperire in modo diretto le dinamiche e le relazioni presenti nel mondo del lavoro. Tuttavia, un conto è aprire la scuola a relazioni che facciano emergere le potenzialità, le vocazioni e la consapevolezza degli studenti, un conto è sottrarre ore di studio, riflessione critica e elaborazione a forme di lavoro gratuito (come, per esempio, quello della commessa in una libreria), quali si configurano certe attività di formazione aziendale, che, in aggiunta, sottraggono risorse economiche all’istruzione pubblica per regalarle alle imprese.

La scuola pubblica ha come missione quella di fornire agli studenti e alle studentesse gli strumenti conoscitivi per capire criticamente in quale contesto si trovano, il senso del lavoro che possono fare, per quali ragioni si produce e secondo quali criteri. Insomma, la scuola, oltre a permettere l’apprendimento di nozioni da impiegare nei luoghi di lavoro, ha il compito di dedicarsi alla cura e alla formazione del cittadino, oltre che del lavoratore. Occorre ricominciare a recitare verità che fino a qualche decennio fa apparivano banali e quasi scontate e che oggi invece suonano come eretiche od eversive: il diritto all’istruzione vuol dire, per i nostri/e figli/e e i nostri studenti/esse, elaborare saperi autonomi, pensiero critico, idee personali con cui vivere liberamente e responsabilmente il mondo, con cui essere consapevoli del nostro essere parte di una sfera pubblica, con cui partecipare in piena uguaglianza al fare collettivo. In una parola, la nostra scuola deve formare alla cittadinanza per scongiurare il pericolo dell’essere sudditi.

Il progetto di Renzi risponde a questo obiettivo? Assume come proprio il dettato costituzionale che fa del diritto allo studio e della libertà di insegnamento una sorta di a priori trascendentale per garantire l’esercizio effettivo della sovranità popolare? Non pare proprio, anzi. Renzi si muove secondo una logica di scambio, l’assunzione dei 100.000 precari, fino al settembre scorso erano 148.000, deve essere subordinata all’aziendalizzazione della scuola. Sta qui il motivo per cui il nostro ha impedito che si varasse un decreto legge limitato alle sole assunzioni. Se il Parlamento non dovesse fare in tempo ad approvare il DDL si apriranno almeno due scenari. Da una parte Renzi scaricherà sul Parlamento la responsabilità di far saltare le assunzioni, dall’altra lo stesso capo del governo si sentirà rafforzato nel suo piglio decisionistico e potrà agire per decreto legge assumendo in toto il pacchetto della controriforma della scuola. In verità, la concezione a cui rimanda il disegno dell’attuale capo del governo è quella che fa della scuola pubblica un’ancella del mercato e del mondo imprenditoriale. A questo imperativo vanno funzionalizzate didattica e formazione, costruzione di competenze e risorse pedagogiche. Si dirà, niente di nuovo sotto il sole, in fondo era proprio questo il modello lanciato e sponsorizzato dal berlusconismo. Una scuola edificata su coordinate culturali tossiche e asfittiche, impregnata della retorica insulsa dei crediti e dei debiti, offensiva nei confronti dei nostri giovani ridotti ad utenza e clienti, deformante e falsificante nella misura in cui è fondata sul target dell’offerta formativa. Sì, sembra proprio che la finalità sia la stessa, fare della scuola pubblica il luogo in cui mortificare i cervelli, svilire la creatività, creare omologazione e assuefazione, generare umani sussunti dall’unico scopo del produrre e del consumare.

Negli ultimi dieci anni, scrive James Fergusson sul The Independent, gli attacchi del terrorismo fondamentalista contro scuole e università sono aumentati in modo vertiginoso. Ormai sono diventati una tattica ricorrente del terrorismo globale. L’istruzione, infatti, scrive l’editorialista britannico, ostacola la diffusione dell’integralismo. Chiedo venia, ogni confronto fra quello che è recentemente accaduto in Kenya e in Pakistan, dove sono morte centinaia di studenti e studentesse e decine di insegnanti, e le nostre vicende nostrane può apparire sacrilego e irriguardoso. Ma a ben guardare è questa la sfida con la quale siamo chiamati a misurarci: la scuola pubblica con le sue profonde contraddizioni e la sua mai banale complessità è come un campo di forze nel quale si fronteggiano opzioni contrapposte, poteri molari e relazioni molecolari, istanze autoritarie e strategie sovversive. Contro la subordinazione di ogni altra finalità a quella dell’estremismo della società di mercato e a quella integralista dell’addomesticamento dei cervelli vale la pena di lottare. Per decolonizzare le coscienze, per tornare a pensare che non possono essere l’esistenza e la buona vita un mezzo dell’economia ma deve essere l’economia uno strumento per la buona vita.


30 Aprile 2015


dal sito Palermo Grad


La vignetta è del Maestro Mauro Biani






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